Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:38:43
La giornalista giordana Ishan al-Faqih nota, in un articolo per al-Quds al-‘Arabi, come nell’establishment egiziano trapeli una certa ansia per l’appuntamento elettorale, al punto da averlo anticipato di quattro mesi. Oltre alla motivazione di natura economica, già rilevata dalla stampa occidentale, per al-Faqih, dietro a questa decisione vi è anche una considerazione politica: la manovra ha infatti colto di sorpresa i comitati elettorali dell’opposizione, complicando ulteriormente le operazioni burocratiche per la presentazione delle candidature. La giornalista spiega meglio i timori del presidente in carica: «non è preoccupato per la sua corsa elettorale che, rassicura, si risolverà a suo favore […]. Penso però che la sua inquietudine sia data dalla piega che prenderanno le elezioni in termini di concorrenza e del sostegno popolare previsto ad alcuni candidati, un fatto che, nel caso in cui venga concesso loro libertà di fare campagna elettorale, potrebbe distruggere il consenso popolare del ra’īs». Eventualità che, per il momento, risulta poco probabile.
Il politologo libanese Gilbert Achcar, nota penna del quotidiano al-Quds al-‘Arabi, commenta con elegante sarcasmo: «ogni presidente egiziano ha la sua folla: Nasser parlava a una moltitudine di persone al Cairo o in altre grandi città e interagiva con loro in ogni evento pubblico. Al-Sisi parla a un gruppo di uomini dello Stato e di figure del settore privato in un teatro della “Nuova Capitale Amministrativa”, distante da ogni assembramento popolare». Il presidente, nel corso dell’incontro “a porte chiuse”, ha espresso «alcuni dei concetti profondi a cui ci ha abituato. In effetti perle intellettuali come quelle che seguono sono pregne di significato: “il Paese vive, cresce e prospera solo con il lavoro, l’afflizione, il senso di sacrificio, di abnegazione e di devozione, non con le chiacchiere”. E poi: “se il tasso di crescita della popolazione fosse costante e il tasso dei decessi uguale a quello delle nascite, allora l’indice di crescita equivarrebbe a zero”». Anche al-‘Arabi al-Jadid si concede una battuta commentando la discussa affermazione del presidente alla conferenza della settimana scorsa («se il prezzo da pagare per il progresso e per la prosperità della Nazione fosse astenersi dal mangiare e dal bere, come altri fanno, allora non mangeremo né berremo»): «Quest’affermazione indica che si continua a privilegiare il “mattone” a scapito dell’essere umano. Quale dev’essere l’obiettivo dello “sviluppo” e della “prosperità” se non quello di provvedere ai bisogni materiali e spirituali del popolo?».
Il quotidiano al-‘Arab, pur non condividendo i continui tentativi di ostacolare il leader dell’opposizione Ahmed al-Tantawi, accusa il blocco anti-governativo di essere troppo debole e diviso al suo interno, agevolando la riconferma del capo dello Stato: «la presenza di quattro possibili candidati indica la visione frammentata dell’opposizione e la sua incapacità di scegliere un nome» che vada bene per tutte le anime della coalizione. Poche pagine dopo, il giornale dedica un lungo articolo ad al-Sisi, definito “l’ingegnere della nuova repubblica economicamente prostrata”. Più che elezioni, il voto sarà un referendum sul presidente, visto che la salute dell’economia nazionale versa in condizioni critiche: «ormai è evidente che la base popolare del maresciallo al-Sisi non è più quella di un tempo, proprio come la sua posizione nello scenario internazionale» a causa delle gravi e ripetute violazioni ai diritti umani. Sotto accusa anche il progetto della “Nuova Repubblica”, più volte sbandierata negli ultimi anni dalla propaganda di regime. Eppure, nota il giornale, proprio la costruzione di costosi mega-progetti infrastrutturali, avviati in un momento così delicato per l’economia nazionale, è al centro delle critiche degli esperti e dell’opinione pubblica.
Di segno opposto un altro articolo di al-‘Arab a firma del giornalista egiziano Mohamed Abu al-Fadl, che titola infatti “elezioni, non referendum”. Dopo aver abbattuto «il governo dei Fratelli Musulmani e aver riportato l’ordine dopo l’incubo del terrorismo», il consenso di al-Sisi era alto; ora che l’economia va male «è naturale che la sua popolarità stia diminuendo», come sempre avviene nei Paesi di tutto il mondo quando un leader è al potere da molti anni. Non è un referendum perché il ra’īs, pur sicuro della vittoria, avrebbe permesso lo svolgimento regolare del voto: «il regime egiziano avrebbe potuto indire elezioni farsa, come fece nel 2018. Avrebbe potuto interdire la candidatura a qualsiasi membro dell’opposizione, tuttavia ha deciso di percorrere la strada delle elezioni reali».
La stampa egiziana, sotto stretto controllo governativo, plaude all’operato di al-Sisi e ricorda i successi del passato lontano – in questi giorni cade l’anniversario della guerra dello Yom Kippur – e di quello più recente. “al-Sisi eroe della storia, icona d’Egitto” titola al-Ahram, che elenca i successi del presidente, dall’ampliamento del Canale di Suez all’ammodernamento dei porti di Alessandria e di ‘Ayn al-Sukhna. Lo stesso giornale si avventura a spiegare e contestualizzare il duro intervento del presidente in cui invitava la popolazione ad astenersi dal mangiare e dal bere. Per l’autore queste parole riflettono la schiettezza e la franchezza che contraddistinguono da sempre il presidente: «è un altro messaggio che conferma la via del progresso iniziata nove anni fa, il cui obiettivo era quello di porre le basi di un grande Stato dotato degli strumenti di una grande potenza, e non di uno Stato che vivacchia soltanto per offrire una pagnotta al suo popolo».
Amin Maalouf alla guida degli «immortali» [a cura di Chiara Pellegrino]
Lo scorso 28 settembre lo scrittore libanese Amin Maalouf è stato nominato Segretario perpetuo dell’Accademia di Francia, la prestigiosa istituzione culturale fondata dal Cardinal Richelieu nel 1635. La nomina è stata ampiamente commentata dalla stampa araba e ha suscitato reazioni opposte. I quotidiani libanesi si sono congratulati con Maalouf, elogiandone gli sforzi compiuti nel creare un ponte tra due culture, mentre i quotidiani panarabi hanno generalmente dato spazio alle voci critiche.
«L’immortalità appartiene a Dio: l’eternità e la perennità appartengono a Dio, senza inizio né fine», scrive, citando un vocabolario arabo, Fadi Ahmar sul sito d’informazione libanese Asas Media. In Francia invece immortale è l’aggettivo che viene attribuito a chi, «con le sue opere, ha reso immortale la lingua francese». E per la prima volta nella storia, scrive l’editorialista, un intellettuale di origine non francese è stato nominato alla guida «degli immortali». La ragione di questa decisione, spiega Ahmar, è più che comprensibile: il francese è parlato in 88 Paesi, in Libano è la lingua dell’istruzione. Pertanto, la missione dell’Accademia di Francia, che è quella di preservare la purezza della lingua, non è circoscritta al solo popolo francese ma riguarda molti altri popoli – alcuni dei quali sono ostili allo Stato francese, come i Paesi del Sahel. «La ‘gloria immortale’ alla quale è salito Amin Maalouf non è stata dimenticata dal suo Paese d’origine, da cui emigrò quarant’anni fa. Il Libano, nei suoi variegati aspetti, è presente nei suoi scritti e nei suoi discorsi. Il pluralismo religioso, confessionale e culturale libanese ha influito profondamente sulla sua visione delle civiltà e delle culture, messa a tema nei suoi romanzi. Romanzi che lo hanno portato a essere ‘immortale’ tra gli ‘immortali’».
Il quotidiano libanese al-Nahar ha pubblicato il ricordo del giornalista Samir ‘Atallah, il quale ha ripercorso le tappe della sua amicizia con Maalouf. Una conoscenza iniziata negli anni ’60, quando Amin, ancora bambino, partecipò al ricevimento offerto da suo zio, ambasciatore a Cipro, a una delegazione di giornalisti, di cui faceva parte anche ‘Atallah. Poi l’incontro, dieci anni dopo, nella sede di al-Nahar, di cui ‘Atallah e Maalouf erano entrambi firme. Dopo lo scoppio della guerra civile, nel ’75, i due amici si videro a Parigi, dove Maalouf viveva ormai con la moglie e i tre figli. Per Maalouf l’esperienza nel giornalismo si sarebbe conclusa verso la metà degli anni ’80, racconta l’editorialista, dopo una breve esperienza ad al-Sayyad, quotidiano con sede a Londra di cui all’epoca Samir ‘Atallah era caporedattore, e un passaggio altrettanto breve a Jeune Afrique. «Il primo passo verso il piano di fuga» scrive ‘Atallah, fu la richiesta di un ufficio tutto per sé, in cui Maalouf potesse dedicarsi alla scrittura. Da quel momento inizia la sua carriera di scrittore. Uno degli eventi che segnò l’opera di Maalouf, racconta ‘Atallah, fu l’uccisione del padre, Rushdi al-Maalouf, giornalista affermato che perse la vita a seguito di un’esplosione avvenuta davanti all’edificio della radio dove stava registrando il suo discorso sulla pace in Libano: «Da quel giorno Amin ha consacrato i suoi scritti alla riconciliazione tra le identità».
Di tono ben diverso sono invece i commenti apparsi sul quotidiano panarabo londinese al-‘Arabi al-Jadid. Per Pierre Akiki la nomina di Maalouf diventa l’occasione per lanciarsi in un’invettiva contro i politici libanesi, accusati di essersi congratulati con il nuovo segretario perpetuo dell’Académie, che «porta alta la bandiera e il nome del Paese», ma di «non preoccuparsi delle sofferenze dei libanesi». Secondo Akiki il vero “Libano” non è quello di Amin Maalouf e, prima di lui, di Gibran Khalil Gibran, Mikhail Naimy, Amin al-Rihani e tanti altri, ma quello degli accordi mancati con il Fondo Monetario Internazionale e della fuga di un’intera classe dirigente dalle proprie responsabilità. In sintesi: «una patria frantumata, simboleggiata da una bandiera strappata sopra [gli edifici delle] amministrazioni ufficiali dello Stato. In Libano, le persone vivono come macchine in attesa del momento in cui smettono di funzionare». «Chi è creativo all’estero – denuncia ancora Akiki – eccelle perché i Paesi gli hanno offerto lo spazio per tradurre le sue idee e i suoi talenti. Se gli espatriati fossero rimasti in Libano, Amin Maalouf compreso, nessuno avrebbe saputo di loro, e probabilmente sarebbero stati individui invisi all’autorità e ai suoi sostenitori. Se Maalouf avesse voluto restare in Libano, non ci sarebbe stato nessun Le rocher de Tanios [uno dei suoi romanzi più celebri, vincitore del premio Goncourt nel 1993, tradotto in italiano con il titolo di Col fucile del console d’Inghilterra NdR], nessuna Accademia di Francia e nessun apprezzamento culturale per i suoi successi».
Sullo stesso quotidiano, Bassel Saleh fa una disamina della psicologia dei libanesi rimasti in patria, «che insistono nell’aggrapparsi e nel tessere le lodi di ogni individuo di origine libanese che ha ottenuto un riconoscimento o una posizione all’estero, indipendentemente dal fatto che questi sia emigrato da decenni, ciò che lo rende fondamentalmente uno straniero, cioè non libanese». I libanesi hanno un bisogno costante «di cercare di curare in modo soddisfacente questa ferita narcisistica derivante dal loro posizionamento negli ultimi gradini della scala della felicità, della civiltà e della creatività globale», scrive l’editorialista, e lo fanno richiamando continuamente le origini libanesi di chi all’estero ha avuto successo. Da Gibran Khalil Gibran ad Amin Maalouf, «il Libano dei libanesi è sempre stato ai margini delle loro opere creative». Il loro Libano «non è il nostro Libano, e loro non hanno alcuna relazione con esso se non per il nome. Il Libano di oggi è […] diventato un cimitero per tutta la creatività, che giace sotto il peso del tradizionalismo, dell’arretratezza, del confessionalismo...» Chi vive all’estero, conclude brutalmente l’editorialista, ha chiuso con il Libano e con le sue origini.
Mentre il Libano istituzionale celebra la nomina di Maalouf, la Siria anti-regime piange Khalid Khalifa, uno dei più noti romanzieri oppositori di Bashar al-Assad, che sabato scorso si è spento prematuramente a Damasco. Su al-Quds al-Arabi, la sua amica e scrittrice Mariam Michtawi lo ricorda come «un simbolo di ottimismo e fiducia nell’umanità», «un volto amato da tutti i siriani e gli arabi indipendentemente dai loro orientamenti politici, religiosi, tribali». Con la sua morte, scrive Michtawi, «si spegne una delle poche voci di speranza e di cambiamento in un tempo di conflitti e di crisi».
Su al-‘Arabi al-Jadid, lo scrittore siriano Ammar Dayoub racconta nel suo addio all’amico di un uomo che ha trascorso molti anni in solitudine a Damasco, una solitudine che lo accomunava a tutti i siriani, dopo che il Paese si è svuotato di milioni di persone. Gli amici, scrive Dayoub, avevano chiarito che le esequie si sarebbe svolte nel silenzio, perché «l’intenzione non è quella di sfruttare il funerale per trasformarlo in una manifestazione, o per lanciare parole di denuncia contro il regime, i cui media hanno taciuto la sua dolorosa morte». Ma i presenti al funerale, scrive Dayoub, «hanno iniziato ad applaudire in segno di protesta, un metodo che i siriani hanno iniziato ad utilizzare» sempre più spesso per manifestare il loro dissenso contro il regime.
Sempre a proposito di romanzieri arabi, tra qualche giorno ricorrerà il cinquantesimo anniversario della morte dello scrittore egiziano Taha Hussein (a cui Oasis ha dedicato una puntata del suo podcast). Su Asas Media l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid ha voluto dedicare un ricordo al grande letterato egiziano. Uno scrittore «innovativo e creativo», così lo ha definito al-Sayyid, in tutti gli ambiti, anche negli «studi islamici», a dispetto delle critiche avanzate negli anni da alcuni suoi colleghi, in particolare dagli intellettuali libanesi Maroun Abboud (m. 1963), Muhammad Dakrub (m. 2013) e Hazem Saghieh. Raccontando alcuni aneddoti, al-Sayyid vuole offrire in poche righe uno spaccato della personalità di Taha Hussein. Un uomo che amava il confronto con gli studenti – Ridwan al-Sayyid lo incontrò per la prima volta nel 1968, quando era uno studente dell’Azhar, in Egitto; che nutriva grande stima per il Libano e per i libanesi – «la modernità e la creatività si stanno spostando dall’Egitto al Libano» pare abbia detto durante una conferenza che tenne all’UNESCO nel 1955. E infine, un uomo che per molti anni ha alimentato i circoli intellettuali arabi, rendendosi spesso inviso ai colleghi che aderivano al pensiero comunista, al quale Taha Hussein rimproverava la soppressione della libertà necessaria allo scrittore per produrre un pensiero letterario libero.
In Marocco si riapre il dibattito sul Codice della Famiglia [a cura di Chiara Pellegrino]
Lo scorso 26 settembre il re del Marocco Muhammad VI ha incaricato il capo del governo di avviare un processo di revisione della Mudawwana, il Codice di famiglia già riformato nel 2004. Le proposte di emendamento dovranno essere presentate entro sei mesi. Questa richiesta si colloca nella scia del discorso del Trono pronunciato da Muhammad VI il 30 luglio 2022, quando disse: «Noi desideriamo che ciò [la revisione] avvenga nel quadro delle finalità della sharia e delle specificità della società marocchina, si fondi sulle virtù della moderazione, dello sforzo d’interpretazione aperto, della consultazione e del dialogo, e con il coinvolgimento di tutte le istituzioni».
Secondo l’editorialista marocchino Muhammad Mamouni al-Alawi, questa apertura del re dimostra che «il Marocco gode di salute dal punto di vista costituzionale, politico e sociale». Le riforme, spiega, riguarderanno la ripartizione dell’eredità, la divisione tra i due coniugi del denaro guadagnato durante il rapporto coniugale, l’allontanamento dalla casa coniugale, la tutela e l’affidamento, il matrimonio dei minorenni.
Su al-‘Arabi al-Jadid Abdul Hamid Ijmahiri descrive ciò che sta accadendo in Marocco riprendendo la definizione che Victor Hugo diede dell’idea di rivoluzione, ovvero «una grande luce per una più grande giustizia». L’editoriale ripercorre brevemente le tappe del dibattito sorto attorno alla Mudawwana, dalla nascita del Codice dello Statuto personale nel 1958 ai tentativi falliti di riformarlo negli anni ’60 e poi ’80, per arrivare infine alla versione del 2004, «che ha sancito la distinzione ideologica tra i fautori della modernità e della modernizzazione e i fautori del tradizionalismo e dell’imitazione pedissequa», ovvero della tradizione. L’editorialista fa inoltre notare che per la prima volta nella storia del Marocco la Mudawwana viene sottoposta all’approvazione del Parlamento.
Il Marocco odierno, spiega il giornalista, «è un laboratorio di civiltà che riguarda tutti i musulmani in virtù della loro religione comune ed è indicativo della capacità della mente islamica, se così si può dire, di compiere uno sforzo interpretativo nella prospettiva di una riforma profonda dall’interno stesso del sistema di credenze, rimanendo aderenti a ciò che prevede la religione (non rendo lecito ciò che Dio ha proibito, né proibisco ciò che Dio ha reso lecito, ha detto Muhammad VI)». L’impegno nel riformare lo status giuridico delle donne viene considerato «un passaggio obbligato per poi riformare la giurisprudenza sotto l’aspetto dei rapporti interpersonali».
Al-Quds al-‘Arabi apre con una domanda: “L’emendamento del Codice della famiglia riaprirà il dibattito tra laici e islamisti in Marocco?” Secondo alcuni, scrive Bilal al-Talidi, scrittore marocchino filo-islamista, questo è un tentativo di sfilare il dossier dalle mani del ministro della Giustizia, che voleva riformare il Codice rendendolo «moderno al 100%». Da quarant’anni il dibattito sulla Mudawwana è governato da un conflitto ideologico tra due componenti, spiega l’editoriale: quella islamista e quella moderna. Il punto nodale della controversia è la questione del riferimento (marja‘iyya) cui si guarda dal punto di vista politico e sociale: «Il fronte religioso si fonda sulla legittimità dello Stato religioso (l’Emirato dei credenti, in arabo imāra al-mu’minin), sul suo riferimento costituzionale (l’islamicità dello Stato), sulla specificità della società marocchina musulmana e sulla natura del testo che inquadra la famiglia (fondato sulla giurisprudenza islamica). Il fronte modernista si rifà invece a riferimenti internazionali», come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW). Se su alcune questioni si può trovare facilmente un accordo (stabilire un’età minima per il matrimonio, per esempio), lo stesso non si può dire per le questioni sulle quali il Corano è molto chiaro, per esempio sulla questione dell’eredità.