Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:11:08

Questa settimana, due fatti in particolare hanno monopolizzato l’attenzione della stampa araba: le proteste e gli scontri avvenuti in Francia a seguito dell’uccisione del 17enne Nahel al-Marzouki e il rogo del Corano, andato in scena la scorsa settimana in Svezia.

 

Sul quotidiano online Asas Media l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid si domanda se ci sia una recrudescenza dell’islamofobia a livello mondiale. La lista delle ostilità commesse contro i simboli dell’islam e contro i fedeli è molto lunga – in India milioni di musulmani sono esposti alle aggressioni della polizia e dei tribunali, nel Myanmar, la minoranza musulmana Rohingya è perseguitata, i musulmani dello Xinjiang, in Cina, vengono stipati in quelli che sembrano campi di concentramento. «In Europa sono sorti i partiti di destra, uno dei motivi della loro ascesa è l’immigrazione massiccia che continua a generare allarme: l’immigrazione alimenta la destra, e la destra quando arriva al potere o governa promulga delle leggi che aumentano il senso di alienazione e di persecuzione tra i giovani di queste comunità, esponendoli alle vessazioni della polizia. Così in quei Paesi la democrazia viene erosa e i giovani, già scontenti e in fermento, perdono le garanzie della cittadinanza, del diritto e della dignità umana». I problemi tuttavia non sono imputabili esclusivamente all’Occidente, perché anche i Paesi di origine hanno le loro responsabilità: «I nostri Paesi continuano ad allontanare la loro gente e i giovani continuano ad emigrare; chi non viene ingoiato dalle profondità del mare e raggiunge uno dei Paesi europei si unisce alle periferie della povertà e della disoccupazione e, nel tempo, diventa una bomba a orologeria, come quelle che in questi giorni sono esplose in Francia, distruggendo le città, saccheggiando i negozi e provocando tremende devastazioni, ciò che farà crescere ulteriormente la pressione su di loro da parte delle società e delle autorità». Inoltre, scrive al-Sayyid, da quando papa Francesco è asceso al soglio pontificio nel 2013 ha messo costantemente in guardia «sulla necessità di non trasformare l’islam in un problema globale. […] La realtà, però, è che l’islam è diventato un problema globale. Non dal 2001, ma dagli anni ’90 del secolo scorso, quando i semi della violenza contro il mondo contemporaneo hanno iniziato a germogliare nei circoli arabi chiamati “al-Qaida”». Il percorso verso la salvezza è irto di ostacoli, conclude al-Sayyid, citando un versetto del celebre poeta Abu l-‘Ala’ al-Ma‘arri (m. 1058): «O dimora in Khayf! Vicina da visitare, ma la via per arrivarci è spaventosa».

 

Il quotidiano panarabo londinese al-Quds al-‘Arabi ha pubblicato un editoriale dello scrittore algerino Waciny Laredj, autore di diversi romanzi ambientati in Algeria e vincitore, nel 2007, del premio per la letteratura Sheikh Zayed. «Siamo di fronte a una parte della società francese che oggi soccombe sotto il peso delle droghe, dell’emarginazione, della disoccupazione e dello smarrimento totale, sotto il peso delle pratiche razziste, che negli ultimi anni sono state “sdoganate”, diventando la normalità e restando impunite. Giovani senza una vera “guida” capace di polarizzare la loro rabbia e trasformarla in una forza cosciente di rifiuto di quel “nichilismo” che ha afflitto generazioni intere per poi raggiungere oggi la nuova generazione digitale. Quest’ultima vive all’interno di due mondi contraddittori: il mondo dell’immagine e della felicità ipotetica e immaginaria, e il mondo infelice della realtà, all’interno di quartieri che iniziano a trasformarsi in ghetti oscuri. C’è un’energia di protesta che rifiuta le condizioni di vita, ma è un’energia “nichilista” che si manifesta in maniera violenta e finisce per ritorcersi contro se stessa più di quanto renda un servizio». Negli ultimi anni, scrive Laredj, i movimenti estremisti hanno fatto del razzismo il loro cavallo di battaglia al fine proteggere “la vera Francia” dall’attacco degli stranieri, il cui numero è aumentato vertiginosamente e rischia di trasformare la minoranza in maggioranza, in quello che Renaud Camus chiamava “Le grand remplacement”, la grande sostituzione. Inoltre, chi ha origini arabe, non ha alcuna possibilità di essere considerato francese al cento per cento: «Non basta essere francesi di nascita, né di famiglia francese da due o tre generazioni, perché comunque le origini continuano a essere extra-europee. Questi incidenti pericolosi hanno riportato alla luce i falsi “discorsi patriottici” dietro i quali si nascondono i “nuovi razzisti”, che hanno trovato negli incidenti e nel caos un’occasione per parlare di “due società contrastanti unite in un solo corpo”. La prima è [composta dai] francesi veri e civilizzati, la seconda è una società straniera, barbara, ostile alla civiltà e alla cultura francese. […] Un’assurdità e una superficialità intellettuale indice dell’ingenuità dell’estrema destra e di alcune élite francesi, che fuggono dalla loro storia e da una parte della loro componente interna. Quelli che sono scesi in piazza sono francesi per eccellenza, e non c’è altra soluzione che assimilare questa parte dell’equazione nazionale, altrimenti la crisi nei prossimi anni assumerà proporzioni maggiori e diventerà ancora più pericolosa».

 

L’ex direttore di al-Sharq al-Awsat, ‘Abdul Rahman al-Rashid, ritiene che le proteste e gli scontri avvenuti in Francia non abbiano nulla a che fare con l’ingiustizia sociale, i razzisti bianchi, i musulmani e il rogo del Corano, né con la rivista satirica Charlie Hebdo. «La causa, scrive, è la debolezza dell’autorità centrale [francese], che genera un aumento della disubbidienza di massa. Le persone si provocano nelle arene dei social media per poi spostarsi in quelle pubbliche, spesso piene di campagne di intimidazione e menzogne. La debolezza dell’autorità alletta chiunque voglia trasgredire la legge, qualunque sia la sua intenzione, il suo colore o il suo desiderio, che si tratti di vendetta, saccheggio o caos». Secondo al-Rashid, «una delle cause del fallimento della sicurezza è il fallimento culturale. La Francia e la maggior parte dei Paesi europei non si sono preoccupati di istituire un progetto culturale che metta in grado gli immigrati e i loro figli di integrarsi nella società e diventare cittadini che credono negli stessi valori e rispettano le leggi del Paese che ha concesso loro il diritto di risiedere e lavorare».

 

Sul quotidiano panarabo al-‘Arabi al-Jadid, Ernest Khoury confronta il modello d’integrazione francese con quello britannico. La Francia «pretende l’integrazione totale di tutti coloro che ne portano l’identità. In questo la Francia è diversa dalla vicina Gran Bretagna, dove si parlano 600 lingue e dialetti, la cui politica nei confronti degli immigrati si fonda sulla convivenza dei gruppi (comunitarismo), e dove i diritti sono vincolati soltanto al rispetto della legge, al pagamento delle tasse e all’assenza di precedenti penali. La Francia pone una quarta condizione, che è l’integrazione nei valori francesi». Al francese, pertanto, è richiesto di limitare la propria identità a quella francese, mentre in Gran Bretagna possono convivere moltissime identità. Secondo Khoury, i fattori che spiegano gli scontri sono essenzialmente due: il razzismo e il fattore identitario-culturale, rappresentato dall’odio provato dai manifestanti verso tutto ciò che riguarda il Paese in cui la maggior parte di essi è nato. «In Francia, il razzismo imperversa nella polizia e in altri settori», come dimostrerebbe la raccolta fondi lanciata per sostenere la famiglia del poliziotto che ha ucciso Nael al-Marzouki e che, in pochi giorni, ha raccolto oltre un milione di euro.

 

Su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista iracheno Iyad al-Dulaimi ha stilato un ritratto di Salwan Momika, il cristiano iracheno di 37 anni che la scorsa settimana ha dato alle fiamme una copia del Corano davanti a una moschea a Stoccolma. «Orgogliosamente ateo, Momika era uno dei capi della milizia cristiana formata in seguito all’occupazione di Mosul da parte dell’Isis». Momika ha partecipato alla battaglia per liberare Mosul dai jihadisti e un anno dopo la liberazione della città, nel 2017, è stato arrestato con accuse molto gravi, tra cui l’uccisione di bambini e l’incendio di diverse moschee a Mosul. Dopo essere stato rilasciato su pressioni internazionali, l’uomo ha raggiunto la Svezia con l’aiuto del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Momika, spiega ancora al-Dulaimi, era uno dei leader delle Unità di resistenza del Sinjar, costituita dal PKK e tuttora stipendiata da Bagdad, visto che molti dei suoi membri appartengono alle Forze di mobilitazione popolare. Questa è una delle stranezze della politica irachena, che non vuole che la Turchia bombardi le sedi di questo partito nel nord dell’Iraq, e allo stesso tempo ne chiede il ritiro dal territorio iracheno pur continuando a stipendiare i suoi membri. Tuttavia, conclude il giornalista, chi ha familiarità con la politica irachena sa che il dossier del Partito dei lavoratori non è nelle mani del governo iracheno, ma in quelle di Teheran, che non vuole mettere in discussione la sua esistenza.

 

L’Egitto a dieci anni dal ritorno dei militari: “nuova Repubblica” o “nuovo Khedivato”? [a cura di Mauro Primavera]

 

È trascorso un decennio da quando le proteste antigovernative egiziane del 30 giugno 2013 spianarono la strada al colpo di stato dei militari. Questi, capeggiati da ‘Abd al-Fattah al-Sisi, il 3 luglio successivo arrestarono il presidente della repubblica Mohammed Morsi e diversi esponenti della Fratellanza Musulmana, ponendo fine all’“esperienza rivoluzionaria” della Primavera araba del 2011. Da allora il regime di al-Sisi – eletto capo di Stato nel 2014 – ha avviato un ambizioso progetto di modernizzazione del Paese noto con lo slogan “Nuova Repubblica” (al-Jumhuriyya al-jadida). Per contro, la stampa anti-Sisi accusa il Cairo di non essere in grado di arrestare la grave crisi economica e di non rispettare i più basilari diritti sociali e politici.  

 

Al-Ahram, quotidiano filo-regime, celebra la ricorrenza con una serie di articoli che elencano i “successi” delle «forze armate» in campo politico, economico e sociale, dalle energie rinnovabili alla costruzione di grandi opere, dalla riforma sanitaria al settore del turismo, a cui lo Stato ha garantito un «sostegno illimitato». Sono numerosi gli articoli pubblicati: in uno si legge che il 3 luglio 2013 «l’Egitto uscì dalle grinfie delle tenebre e prevalse la volontà del popolo», in un altro che gli egiziani rifiutarono le richieste di Morsi che invocava a più riprese la parola “legittimità”, ma che lui stesso «aveva già perso quando si era proclamato unico capo del gruppo terrorista (la Fratellanza, ndr)». Un altro ancora elenca i dieci elementi che hanno cambiato il futuro dell’Egitto e gettato le basi della “Nuova Repubblica”, tra cui: «la sospensione temporanea della Costituzione» e la formazione di un governo con personalità competenti e autorevoli.    

 

Anche la testata emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya non perde l’occasione per attaccare, come sua abitudine, la Fratellanza: «sono passati dieci anni dal pronunciamento militare del 3 luglio che ha rappresentato un certificato di morte per l’organizzazione, nonostante questa avesse tentato di riprendersi praticando qualsiasi atto di violenza […] questa infatti è capace di riprodursi, nonostante quello che ha affrontato più di mezzo secolo fa [la repressione ad opera di Gamal Nasser, ndr], così come è in grado di dimostrare alla gente tutto e il contrario di tutto». Per al-‘Ayn la minaccia islamista, per quanto indebolita, rimane presente («il movimento della Fratellanza è ancora attivo in Europa e forse si riformerà anche in alcuni Paesi arabi») e occorre quindi continuare a studiare e a monitorare le sue attività. Dello stesso avviso è anche il giornale panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat: «La rivolta, o la rivoluzione del 30 giugno 2013, è stato un momento spartiacque […] immaginatevi come sarebbero l’Egitto e tutta la regione araba se l’Egitto fosse rimasto sotto il controllo della Fratellanza fino a oggi! Erano in procinto di istituire una nuova “guardia rivoluzionaria” in stile iraniano e trasformare l’Egitto in un rifugio per tutte le attività della Fratellanza nel mondo arabo». Al-‘Arab sottolinea l’importanza del ruolo dell’esercito nell’assicurare l’unità nazionale: l’«amara esperienza» delle milizie e delle truppe mercenarie in Siria, Yemen, Iraq, Libia e Sudan, a cui si aggiunge la recente insurrezione della Wagner in Russia rappresentano un monito severo per il comando militare cairota, che infatti «ha evitato gli errori commessi all’epoca dell’ex presidente Hosni Mubarak, quando si chiuse un occhio sulla concentrazione di alcune organizzazioni islamiste nel Sinai, e ha adottato il pugno di ferro dopo che queste avevano accresciuto il loro ruolo al tempo del governo della Fratellanza. La caduta della Fratellanza è stata la carta vincente che ha permesso all’esercito di porre fine al mito del Sinai come terreno fertile per al-Qaida, Isis e simili».    

    

Critiche le testate panarabe vicine alle posizioni del Qatar e della Fratellanza. Al-‘Arabi al-Jadid pubblica una delle sue vignette a effetto. Il presidente al-Sisi in evidente sovrappeso non riesce più a indossare gli abiti istituzionali; appese dietro di lui ci sono infatti le uniformi della “costituzione” e della “presidenza”, mentre il sarto (che impersona il popolo egiziano), accortosi che nemmeno il vestito del parlamento è a misura di ra’īs, se ne va via sconsolato buttando le forbici. L’articolo è ancora più caustico: «è come se stessi leggendo le pagine del romanzo “1984” di George Orwell, che immagina lo Stato tirannico che controlla il destino dei suoi cittadini e le fonti delle loro informazioni, e li orienta come vuole. Lo slogan “Nuova Repubblica” adorna tutti i canali egiziani rivolti al Paese e all’estero». Più che una “Nuova Repubblica”, osserva l’autore, il regime di al-Sisi è più vicino a un’altra esperienza di governo che ha caratterizzato la storia dell’Egitto, il Khedivato, provincia autonoma dell’impero ottomano fondata da Muhammad ‘Ali dopo la campagna napoleonica. Non c’è quindi niente di nuovo nella Repubblica post-2013, anzi segue in maniera pedissequa i regimi autoritari del passato, ispirandosi, oltre al Khedivato, anche alla monarchia della prima metà del Novecento e alla presidenza del leader panarabo e socialista Gamal Nasser: «in maniera simile ai re Fu’ad e Farouq, che formavano partiti legati al palazzo reale, istituivano la “guardia di ferro”, truccavano le elezioni ai danni del partito Wafd e destituivano i propri governi, così ora agisce il nuovo Khedivato, dal momento che gli apparati amministrativi e di sicurezza hanno il controllo totale del processo decisionale, ricevono il supporto del “Partito del Futuro della Nazione” [fondato nel 2014 dai militari, è la piattaforma politica di al-Sisi], erede del Partito della Nazione [formazione di Sadat e Mubarak] e di quelli del periodo monarchico, i cui dirigenti vengono nominati senza elezione». In un altro articolo, al-‘Arabi al-Jadid prosegue la sua critica al modus operandi “orwelliano” del Cairo, che ha avviato un’operazione mediatica revisionista. Secondo la narrazione dei militari, la Rivoluzione del 2011 è stata «una cospirazione e un’illusione […] Essi vogliono infatti convincere la gente che questa è la storia reale. D’altro canto, la loro esagerazione nel riempire le pagine e gli schermi di una quantità eccessiva di storie false indica un senso di vacuità».

 

Al-Quds al-‘Arabi, nell’edizione cartacea del 3 luglio, pubblica un articolo che si ricollega alla denuncia lanciata da al-‘Arabi al-Jadid sull’assenza di libertà, come si evince dal titolo: «gli ultimi dieci anni sono stati i peggiori per la libertà di stampa in Egitto». Oltre all’arresto di numerosi giornalisti, al-Quds si sofferma sulla «caccia ai Fratelli musulmani» condotta come una vera e propria «campagna d’epurazione». In un altro editoriale, il quotidiano elenca i numerosi fallimenti in campo economico e geopolitico: il pesante debito estero, la perdita del valore della valuta nazionale, l’inflazione galoppante, la «crisi» delle isole di Tayran e Sanafir e la «possibilità di mettere in vendita il Canale di Suez».     

 

La testata filo-islamista ‘Arabi 21 apre, in maniera opposta ad al-Ahram, una sezione interamente dedicata a demolire la propaganda governativa sul «golpe» del 30 giugno 2013: un articolo si scaglia contro l’esercito e la militarizzazione del Paese, un altro si concentra sulle condizioni dei prigionieri politici, un altro ancora rende conto delle difficoltà economiche che affliggono gran parte della popolazione («dopo dieci anni dal golpe militare […] i giovani egiziani non possono fare altro che prendere il rischio di navigare sulle barche della morte ed emigrare, in fuga dalle dure condizioni economiche»).

 

L’intervista di Francesco ad “al-Ittihad” [a cura di Mauro Primavera]

 

La storica intervista di papa Francesco al quotidiano emiratino al-Ittihad (qui trovate la traduzione in italiano) ha rilanciato l’immagine di Abu Dhabi a livello internazionale nell’ambito del dialogo interreligioso e dell’impegno umanitario, come il giornale tiene a ricordare ripubblicando i lanci di agenzia e articoli della stampa occidentale e araba. Il giornalista Hamad al-Ka‘bi ha descritto le sue impressioni sull’incontro: «da giornalista, niente può esprimere le sensazioni che hai quando ti trovi di fronte a una personalità come quella del papa della Chiesa Cattolica, nella sua prima intervista a un organo di stampa mediorientale» concessa oltretutto subito dopo un importante intervento chirurgico. Il dialogo conferma l’adesione ai principi contenuti nel “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” firmato ad Abu Dhabi nel 2019 dal papa e dal Grande Imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyib. Francesco – sottolinea al-Ka‘bi – ha dimostrato una «evidente ammirazione per “la nostra casa unita”» e per il presidente Mohammed bin Zayed, che ha saputo costruire con successo una società tollerante. ­«L’intervista – ha infine aggiunto – è stato un incontro per apprezzare il progetto civile emiratino, fondato sulla moderazione, sull’equilibrio e sul rispetto delle differenze».

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