Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:15:21

Si è tenuto questa settimana a Johannesburg il quindicesimo vertice del blocco dei “Brics” (acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), Paesi che ambiscono a formare un gruppo di mercati alternativo a quelli del G7 e, più in generale, una rete di alleanze economiche e militari che controbilanci l’architettura securitaria degli Stati Uniti. Uno dei temi del vertice riguardava infatti la possibilità di includere nuovi Paesi emergenti: i candidati in lizza erano più di venti, ma alla fine il consesso ha deliberato l’invito a sei nuovi membri che potranno entrare a far parte del gruppo a partire dal 1° gennaio 2024: Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran. Nei giorni precedenti il comunicato ufficiale, il giornale panarabo filo-saudita al-Sharq al-Awsat ha ampiamente elogiato l’iniziativa e, al contempo, ha irriso la famosa tesi del politologo americano Francis Fukuyama sulla “fine della Storia” e sull’affermazione dello schema di alleanze a guida statunitense: «i venti non hanno soffiato come desiderato dalla nave dell’unipolarismo. In seguito, tempeste e calamità hanno minacciato la sua rotta di navigazione: la Russia è tornata dopo aver recuperato le forze e la Cina è riemersa con nuove vesti […] i Brics sono un salvagente e una via d’uscita sicura per coloro che hanno pianto sotto il Muro di Berlino e un grande progetto per quanti hanno evitato di schierarsi e possono ora tornare a contare». L’emiratino al-Ittihad inizialmente ha seguito lo svolgimento dell’incontro di Johannesburg senza fornire alcun giudizio in merito ma, dopo l’ufficialità dell’invito agli Emirati a unirsi ai Brics, ha celebrato nella prima pagina dell’edizione del 25 agosto l’evento che ha certificato l’ottima salute dell’economia nazionale.  

 

Più scettico il quotidiano al-Quds al-‘Arabi, che osserva come «i membri del gruppo sono concordi nell’opporsi all’egemonia occidentale, ma forse divergono su alcuni dossier e questioni regionali […] manca un accordo su regole fisse e chiare per l’ottenimento di Stato membro». Anticipando il mancato ingresso dell’Algeria nel “club” dei Brics, il giornale panarabo londinese ha evidenziato come temi ostativi le strette relazioni del Paese con il Fronte Polisario, invitato al vertice, e la rivalità con il Marocco, che ha “boicottato” l’appuntamento. A tal proposito Al-‘Arabi al-Jadid giudica la posizione marocchina «affrettata, confusa e contraddittoria. L’autore di queste affermazioni, il giornalista marocchino Ali Anuzla, vede tuttavia con favore l’iniziativa dei Brics: «ci troviamo di fronte a un mondo nuovo che si sta rimodellando» e che esce da una egemonia durata tre decenni, quella dell’unipolarismo, «devastante su tutti i livelli, in cui il mondo ha assistito a guerre assurde che hanno distrutto interi Stati come Afganistan, Iraq, Yemen, Libia, Siria, Somalia, Libano, mentre il conflitto israelo-palestinese è proseguito all’infinito». L’incontro di Johannesburg potrebbe rappresentare una «svolta storica per il percorso di questo gruppo che mai come ora sta ricevendo attenzioni dal mondo». Per contro Al-‘Arab, che pure esprime normalmente posizioni filo-emiratine, non crede minimamente nella buona riuscita del progetto: «le aspettative sulla riunione dei leader a Johannesburg sono grandi e molte, ma mancano i finanziamenti, l’autorità, il mercato e la coesione» e, in un altro articolo, invita l’Algeria a ragionare in maniera realistica: «mi auguro che la leadership algerina adotti la serietà richiesta da una guida politica e che consideri il rifiuto dei Brics di includerla al suo interno come una decisione autonoma del gruppo e non come una manovra marocchina». L’autore aggiunge che Algeri «si è inventata la “boutade” di essere una forza prorompente» e ha costruito una narrazione geopolitica slegata dalla realtà, adottando «un comportamento che si basa sulla contrapposizione al Marocco», rapidamente degenerato in una «ostinazione patologica» e illogica.

 

Il golpe in Niger e la fine della “Françafrique”

 

Il colpo di Stato in Niger, compiuto il 27 luglio dalla guardia presidenziale a danno del presidente in carica Mohamed Bazoum, si inserisce all’interno di un contesto regionale, il Sahel, caratterizzato dalla profonda fragilità delle istituzioni, minacciate dal potere delle giunte militari e dalla presenza di organizzazioni jihadiste e di attori stranieri, dai francesi alle truppe mercenarie della Wagner. Al-‘Arabi al-Jadid apre un suo articolo con una scenografica vignetta in cui il golpe militare assume le sembianze di un’attrazione da luna park malfunzionante: «questo gioco è al momento fuori uso per motivi di manutenzione e riparazioni. Giocate da un’altra parte!» si legge nel cartello. Ma per il giornale gli sviluppi occorsi in Niger sono un pretesto per una riflessione critica sul rapporto tra Paesi arabi e Unione africana. Quest’ultima è infatti accusata di attuare contromisure e sanzioni soltanto quando i golpe avvengono nei Paesi subsahariani, escludendo quelli arabi nel nord del continente. «In Egitto – ad esempio – l’esperienza dell’Unione è stata fallimentare nel 2013» perché l’adesione del Paese venne sospesa temporaneamente, per poi essere ripristinata grazie a una sorta di compravendita: il rientro nell’Unione Africana in cambio del placet di al-Sisi alla costruzione della Grande Diga del Rinascimento etiope. Secondo al-‘Arabi, l’organizzazione ha mostrato scarso interesse anche per la crisi in Sudan e per la deriva autoritaria in Tunisia. Sotto accusa anche l’Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale: il sospetto è che dietro questo organismo si celino le potenze occidentali, in particolare la Francia, ex potenza coloniale di gran parte del Sahel interessata alle miniere di uranio del Niger. Per al-‘Arab l’egemonia francese nel continente (Françafrique) è ormai agli sgoccioli: «la bussola africana punta in altre direzioni e Parigi non rientra fra queste».  

 

L’economia siriana sprofonda nonostante il processo di normalizzazione

 

Il percorso di normalizzazione che ha permesso alla Siria di Bashar Assad di rientrare nella Lega Araba non è stato seguito da una ripresa economica, anzi la situazione del Paese sta peggiorando. Nel tentativo di placare il malcontento generale della popolazione, il presidente ha annunciato di aver raddoppiato i salari degli impiegati statali; tuttavia, l’elevato tasso di inflazione dovuto al collasso della valuta nazionale ha di fatto vanificato i benefici della manovra. Le testate antiregime hanno dato ampio spazio alle proteste scoppiate a Sweyda, provincia meridionale abitata dalla minoranza drusa, sottolineando per l’ennesima volta come le responsabilità della crisi siano imputabili, in primo luogo, al presidente in carica. In un articolo di al-‘Arabi al-Jadid dal titolo “Ancora a Sweyda” emerge che le manifestazioni sono «il risultato delle politiche di impoverimento adottate dal governo di Damasco», mentre al-Quds al-‘Arabi accusa il presidente di aver perso qualsiasi contatto con la realtà, anche se si mostra cauto sul futuro delle manifestazioni: «tutto ciò non significa l’attesa fine della tragedia siriana. Il regime ha infatti a disposizione numerosi mezzi di cooptazione e di tergiversazione». L’intellettuale e dissidente siriano Yassin al-Hajj Saleh nota in un altro articolo sullo stesso giornale  il contenuto fortemente politico delle proteste nonostante la loro apparente motivazione economica. I manifestanti sono infatti tornati a contestare direttamente il presidente Bashar al-Assad, considerato la vera fonte dei problemi del Paese. La conseguenza è che non «è possibile trattare i problemi legati al sostentamento quotidiano e ai servizi in presenza dell’attuale regime. È perciò necessario un cambiamento politico». Al contrario, per la testata emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya il problema è essenzialmente economico: la Siria paga il prezzo della lunga guerra civile e il governo non è in grado di risolvere la crisi da solo. Tuttavia, in un altro articolo della testata il pessimismo sul futuro del Paese è evidente: anche se la leadership di Assad non è messa in discussione e la «ripresa non è impossibile nonostante le difficoltà», l’articolo paragona la Siria a un paziente tenuto in vita dalla ventilazione artificiale: «restare attaccato alle macchine di respirazione non è il metodo per continuare a vivere […] certamente può dare un po’ di sollievo, ma col passare del tempo il corpo perde gradualmente le sue difese immunitarie, diventando un facile obiettivo di virus dannosi».   

 

 Quei ministri che censurano Barbie, ma non le milizie

 

Il film dell’estate, e probabilmente dell’anno, è “Barbie” che, prodotto dalla Mattel, nell’arco di poche settimane ha riscosso un successo planetario. Anche nei Paesi arabi l’accoglienza è stata notevole, ma non sono mancate polemiche e censure a causa della presunta offesa della pellicola alla morale pubblica e ai valori religiosi. “Barbie” è stato proiettato regolarmente nelle sale cinematografiche di Arabia Saudita – dove fino al 2018 l’ingresso era vietato alle donne – ed Emirati Arabi Uniti che per l’occasione si sono tinteggiate di rosa confetto; molte spettatrici, seguendo una moda globale, si sono presentate agli spettacoli indossando abaya (i tradizionali abiti femminili) del medesimo colore. Qatar e Oman, invece, non hanno acquistato la licenza dalla Mattel per la distribuzione della pellicola, mentre il Kuwait ne ha vietato la proiezione. Particolare il caso del Libano, il cui ministro della cultura si è espresso contro la diffusione del film, e dell’Algeria che, dopo aver autorizzato la programmazione, ha deciso di ritirarlo dalle sale dopo solo tre settimane dal lancio.

 

La testata kuwaitiana al-Anba’ plaude all’iniziativa del governo e descrive “Barbie” come una «caramella avvelenata e pericolosa» in quanto portatrice di un chiaro messaggio politico che non è compatibile con i valori dell’Islam: «la storia, le scene e i dialoghi contraddicono i nostri costumi e le nostre tradizioni islamiche». Ugualmente critico, ma per ragioni assai diverse, il parere della giornalista kuwaitiana Shaykha al-Bahawid riportato da al-Quds al-‘Arabi: «è uno dei film più fallimentari, se non il più fallimentare, nell’esporre il pensiero femminista», aggiungendo che «propone un femminismo bianco, colonialista e superficiale».

 

Per contro, la testata al-‘Arab ridicolizza i tentativi di censurare una pellicola che è ormai diventata fenomeno globale. Il giornale panarabo precisa che le accuse rivolte al film, tra cui il «femminismo esagerato, la promozione delle relazioni omosessuali e la demonizzazione del maschio», sono legittime in quanto parte della critica a cui è soggetta ogni opera e prodotto culturale. Piuttosto, il vero atto di condanna riguarda il blocco imposto da Kuwait e Libano: «la proibizione è un’azione politica che riflette correnti politico-religiose retrograde che non si ferma con “Barbie”, ma si estende a quadri, libri e canzoni», citando a titolo di esempio il divieto di pubblicazione delle opere del poeta Mahmoud Darwish in Kuwait. La messa all’indice delle opere, oltre ad andare contro la libertà di espressione dell’artista, non solo è inutile, ma contribuisce ad alimentare la fama del prodotto censurato.

 

Sul giornale libanese al-Nahar il critico cinematografico Hovik Habashian contesta l’iniziativa del «ministro della non-cultura», Muhammad Wisam ‘Adnan al-Murtada, di vietare lo spettacolo, per il semplice fatto di essere inapplicabile nell’era di internet e degli smartphone. Il pezzo si trasforma in una vera e propria invettiva contro il politico: «il ministro ammette che il film (che non ha visto) diffonde modelli sociali incompatibili con la religione e con i valori. Davvero!? Di quale religione e di quali valori parla? Adesso in Libano abbiamo una sola religione e un solo valore? La maggior parte dei libanesi non condivide la religione e i valori del ministro […] Se il film rappresentasse un pericolo per la religione e i valori di questa persona, la soluzione sarebbe semplice: eviti di vederselo! I film non entrano, come fanno invece le milizie armate, nelle case degli spettatori con la forza. Sono loro che vanno [a vederli]». L’autore, che pure confessa di non aver apprezzato “Barbie” («personalmente l’ho trovato semplice e superficiale») sottolinea il fatto che «c’è una bella differenza tra non apprezzare un lavoro e chiedere di vietarlo con un comunicato “fascista”, oltretutto per ragioni ridicole». Per questo la messa all’indice di Barbie si è trasformata in un campanello d’allarme sul declino della libertà di espressione in Libano: «è chiaro che questo ministro non si sarebbe comportato in questo modo e non avrebbe leso le basi del nostro diritto se non fosse per alcune correnti di pensiero retrograde che lo sostengono in silenzio, da cui trae legittimità per distaccarsi dal nostro diritto con la repressione e la proibizione». Probabilmente l’ondata di critiche contro il divieto ha portato il governo a rivedere la propria posizione, autorizzando la proiezione di “Barbie” in Libano.    

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