Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:06:19
Questa settimana una parte della stampa araba si è concentrata sul pellegrinaggio alla Mecca (hajj), iniziato lunedì. Quest’anno il numero dei fedeli giunti nel Regno per compiere il pellegrinaggio ha raggiunto i livelli pre-covid (2,5 milioni di persone nel 2019, scese a 10.000 persone nel 2020). L’Arabia Saudita ha accolto pellegrini da 57 Paesi, la maggior parte dei quali provenienti dai Paesi asiatici, dove si concentra il 67% dei musulmani del mondo – stima la rivista saudita al-Majallah. Questo evento ha innanzitutto una valenza religiosa, essendo uno dei cinque pilastri dell’Islam, ma racchiude anche aspetti economici e geopolitici.
Lo hajj, ha scritto l’economista kuwaitiano ‘Amir Diab al-Tamimi, «rappresenta una parte importante dell’azione di diversificazione economica del Regno e dà un impulso al turismo, nella fattispecie quello religioso che, come in molti Paesi, rappresenta una componente importante del settore». L’auspicio è che il turismo religioso possa fungere da traino per tutto il settore, potenziando anche le visite ai siti archeologici e alle bellezze naturalistiche del Paese, in vista del raggiungimento degli obbiettivi della Vision2030. I pellegrini che decidono di visitare il Paese al termine dello hajj (grande pellegrinaggio, che è andato in scena questa settimana, NdT) o della ‘umrah (il piccolo pellegrinaggio, possibile in ogni momento dell’anno, NdT), «potrebbero diventare ambasciatori del turismo saudita nei loro Paesi».
Al di là della dimensione religiosa ed economica, il pellegrinaggio riflette anche le relazioni che legano l’Arabia Saudita agli altri Paesi islamici. Come ha evidenziato il quotidiano panarabo londinese al-‘Arab, quest’anno il ministro degli Esteri iraniano ha elogiato la leadership saudita per gli sforzi profusi nell’organizzazione del pellegrinaggio, dopo aver per anni denunciato l’assenza di sicurezza e addirittura proposto di «internazionalizzare l’organizzazione del pellegrinaggio». Questo repentino cambio di prospettiva riflette evidentemente il clima di distensione tra i due Paesi a seguito della ripresa dei loro rapporti diplomatici mediata dalla Cina.
Come avevamo accennato già la settimana scorsa, al termine del pellegrinaggio ricorre la Festa del Sacrificio (‘Id al-Adha). All’inizio della festa, i musulmani di tutto il mondo sacrificano un animale in ricordo del sacrificio di Abramo, che anche nel racconto coranico è pronto a obbedire all’ordine divino di immolare il proprio figlio (identificato però nella tradizione islamica con Ismaele), prima di venire fermato dall’angelo, che gli chiede di sacrificare un ariete al posto del ragazzo.
«Nella maggior parte dei Paesi arabi, però, la Festa del Sacrificio arriva nel bel mezzo di crisi che guastano la gioia», scrive al-Quds al-‘Arabi. «I rincari trasformano la vita della maggioranza delle persone in un inferno…la depressione economica rovina il sentimento di gioia che precede la festa…e minaccia i commercianti, che rischiano di perdere la loro ricchezza». Oggi, gran parte del mondo arabo si trova in questa situazione drammatica. Il quotidiano libanese filo-Hezbollah al-Akhbar, per esempio, ha descritto la drammaticità del caso siriano, dove «i mercati del bestiame e le macellerie hanno registrato un inedito e significativo incremento dei prezzi rispetto agli anni precedenti, a cui è corrisposto un calo delle vendite. Ciò rende questa festa del Sacrificio la peggiore in tutti i governatorati siriani, con l’offerta sacrificale legata anche alle rimesse degli espatriati». Secondo le stime pubblicate da al-‘Quds al-‘Arabi, la Palestina è il Paese in cui comprare un capo di bestiame costa di più, circa 500 dollari, seguito dall’Algeria (477 dollari) e dall’Oman (340 dollari). Sull’aumento dei costi, ha spiegato una persona intervistata, hanno inciso il prezzo elevato dei foraggi ma anche il cambiamento climatico, che quest’anno ha ritardato la nascita delle pecore. Quelle nate a febbraio non sono ancora adulte, perciò non possono essere sacrificate. La carenza di pecore adulte ha causato un forte rialzo dei prezzi, rendendo più conveniente la carne di vitello. Di conseguenza, il Gran Mufti di Gerusalemme e dei Territori palestinesi, shaykh Muhammad Hussein, si è dichiarato favorevole «alla fatwa che rende lecito sacrificare i vitelli ingrassati, spiegando che il sacrificio è uno dei rituali dell’islam previsti dal testo del nobile Corano e dalla Sunna. Il sacrificio dev’essere fatto con capi di bestiame, cioè cammelli, bovini e ovini, nel rispetto delle condizioni illustrate nei libri della giurisprudenza islamica. [Gli animali] devono essere privi di difetti e aver raggiunto una determinata età, stabilita in base al tipo di animale».
Sulla tipologia di animale che è lecito sacrificare non c’è però l’accordo unanime. La settimana scorsa Sa‘d al-Din al-Hilali, professore di Diritto comparato all’Università dell’Azhar, durante un’intervista televisiva si è detto favorevole alla possibilità di sacrificare, oltre al bestiame, anche i volatili. Questa opzione, ha spiegato Hilali, è prevista dalla scuola giuridica zahirita – scuola di giurisprudenza islamica nata nel IX secolo, poi parzialmente assorbita dalla scuola hanbalita e oggi seguita da una ristrettissima minoranza di musulmani. Ibn Hazm al-Andalusi (m. 1064), celebre giurista andaluso e principale esponente della scuola zahirita, autorizzò «il sacrificio di qualsiasi animale la cui carne sia commestibile, siano essi dotati di quattro zampe o siano volatili, come il cavallo, il cammello, la vacca selvatica, il gallo e altri uccelli e animali che è lecito mangiare».
Queste dichiarazioni, ha scritto l’editorialista tunisino Habib al-Hasoued su al-‘Arab, sono valse al suo autore una pioggia di critiche: «La fatwa di Hilali è stata accolta con molte critiche da quelli che vogliono “complicare anziché facilitare” (in riferimento al principio del taysīr, letteralmente “semplificare”, NdT). Tra questi, il ministro degli Affari religiosi Muhammad Mukhtar Joma‘, che ha abbracciato la stessa posizione di Yusuf al-Qaradawi – uno dei principali riferimenti ideologici degli islamisti – quando 20 anni fa rifiutò la proposta avanzata da alcuni religiosi turchi di sacrificare i volatili». La posizione di Qaradawi si basava sull’assunto per cui «i ricchi devono sacrificare il bestiame e i poveri devono aspettare la loro parte dell’elemosina». Il Gran Mufti d’Egitto, Shawki ‘Allam, si è inserito nel dibattito emettendo a sua volta una fatwa in cui ha dichiarato illecita la macellazione sacrificale dei volatili. «Così facendo, scrive l’editorialista, il Gran Mufti rifiuta lo sforzo d’interpretazione compiuto da Hilali e partecipa al tentativo di emarginarlo, dopo che il gruppo di quelli “che complicano anziché facilitare” ha cercato di attribuire un’accezione politica alla sua fatwa alla vigilia del decimo anniversario della rivoluzione del 30 giugno, che annientò il governo dei Fratelli musulmani». E al-Azhar, come ha reagito a questa provocazione interna? I vertici della moschea-università del Cairo hanno preso ufficialmente le distanze da Hilali, emettendo una fatwa che ne confuta l’opinione e stabilisce che non è lecito sacrificare animali diversi dal bestiame in forza del versetto coranico 22,34: «Per ogni comunità abbiamo decretato un culto affinché il nome di Dio sia invocato sugli animali delle greggi che Dio vi ha donato come cibo». Questa repentina presa di distanza dei vertici dimostra peraltro la coesistenza all’interno dell’Azhar di anime diverse e, in certi casi, addirittura antitetiche.
Il dibattito è proseguito su diversi quotidiani. Al-Jazeera ha pubblicato una riflessione di Mu‘taz al-Khatib, professore di Filosofia etica presso l’Università Hamad bin Khalifa di Doha. Sempre più spesso la festa del Sacrificio alimenta le controversie: «a essere messa sotto accusa è l’idea stessa del sacrificio, mentre imperversano le dispute sul tipo di sacrificio, sulla cura dell’ambiente, sulla sostituzione della carne con cibi alternativi, come accade in alcune tendenze contemporanee, soprattutto tra chi vuole trovare una base islamica a questa idea». Il sacrificio, spiega al-Khatib, ha origine nel Corano in forza del versetto che recita «prega il tuo Signore e offri sacrifici» (108,2), e nella Sunna del Profeta. Secondo la tradizione, Muhammad sacrificò con le sue stesse mani due montoni. La polemica accesa da Hilali, spiega l’editorialista, coinvolge anche «il sistema politico [egiziano], che affonda nei debiti e nell’inflazione, con la valuta che continua a perdere valore rispetto al dollaro». Una situazione analoga si era già creata nel 2001 in Turchia, quando il Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Marmara di Istanbul, aveva ribadito la possibilità di sacrificare il pollame per consentire anche agli indigenti di compiere il sacrificio. Non è un caso, spiega ancora l’editorialista, che questo dibattito fosse iniziato proprio nel contesto turco, dove è molto diffusa la scuola giuridica hanafita, che considera il sacrificio un obbligo, a differenza delle altre scuole giuridiche.
Nei secoli, l’hajj ha alimentato il ricco filone della letteratura di viaggio, che «ha documentato scene accurate e ricordi preziosi e gradevoli – la prima scintilla della maggior parte dei libri di viaggio della nostra tradizione è stata il pellegrinaggio, come è stato per Ibn Jubayr e Ibn Battuta –, poi lo spazio della scrittura si espande fino a comprendere i racconti delle città del mondo, delle condizioni delle nazioni e dei popoli, diventando infine un’accurata fonte storica, una testimonianza oculare, basata sull’osservazione sul campo, sulla descrizione, sull’indagine, sulla riflessione e l’osservazione». La dimensione culturale del pellegrinaggio è stata approfondita dalla rivista saudita al-Majallah, che ha riportato alcuni passi tratti dalle opere di due pionieri della letteratura di viaggio, per l’appunto, il viaggiatore, geografo e poeta arabo di origini andaluse Ibn Jubayr (m. 1217) e l’esploratore marocchino Ibn Battuta (m. 1369). Molto belli i passi in cui Ibn Jubayr descrive il suo pellegrinaggio a Mecca: «Salimmo a Mina per osservare i luoghi dove si compiono i riti venerati, e per vedere il posto preso in affitto per noi, per prepararvi l’alloggio per i giorni del Sacrificio (tashrīq). Noi la trovammo che riempiva gli animi di gioia e di soddisfazione; città grande per monumenti, estesa di circuito, antica di fondazione ora è distrutta, eccettuati pochi luoghi che servono di locanda. Essa occupa due lati di una strada estesa, i quali si allungano e si allargano a foggia di circo. La prima cosa che chi ad essa si dirige incontra a mano manca poco prima d’arrivarci, è la Moschea dell’alleanza benedetta, che fu la prima alleanza nell’Islam; quella cioè che al-‘Abbas, – Dio lo abbia in grazia – stipulò con gli Ansar, a nome del Profeta – Dio lo benedica e lo conservi» [questa è la traduzione di Celestino Schiaparelli, che all’inizio del Novecento tradusse l’opera in italiano].
Concludiamo questa rassegna con una lettura emiratina del pellegrinaggio, curiosa perché riflette la visione dell’islam propugnata in questi ultimi anni da Abu Dhabi. «L’‘Id, cioè la festa, ci dà del tempo per librarci in un mondo di spiritualità e meditazione sufi sulla condizione dell’essere umano e sulle religioni. Forse è un’opportunità per purificare l’anima umana dalle impurità che le si sono attaccate nel corso dell’anno». L’editorialista apre poi una riflessione su questi giorni di festa partendo dalla figura del poeta sufi Rumi. Fin dalle prime righe dell’articolo, però, l’autore confonde Ibn Rumi, poeta dell’epoca abbaside nato a Baghdad nel 836 d.C, con Jalal al-Din al-Rumi, poeta sufi originario di Balkh (n. 1207), tra i massimi autori della letteratura mistica persiana. Ed è probabilmente quest’ultimo che l’editorialista ha in mente mentre scrive. Secondo Jalal al-Din al-Rumi, che l’autore continua a chiamare Ibn Rumi, «Dio ha inviato i profeti per svolgere due ruoli fondamentali nella vita umana, piena di preoccupazioni e tormenti: quello di maestri e quello di guaritori», con una preponderanza però per il secondo ruolo. «Questo grande sufi credeva che l’obbiettivo principale dei profeti e delle religioni fosse far evolvere le anime e guarire gli spiriti, non riempiendo le menti con l’insegnamento, ma riempiendo i cuori dell’amore per Dio, dell’amore reciproco, e purificandoli dalla malattia e dall’odio. L’uomo non trascurava la mente, ma pensava che, liberandosi dai vizi, avrebbe potuto trovare la strada verso la stanza nascosta contenente i segreti del mondo». «O cieco, quando il bastone diventa uno strumento di baccano e di guerra, rompilo in mille pezzi», è una delle massime più celebri di Rumi. «Le parole di Ibn al-Rumi (sic!), spiega Emile Amen, sembrano essere lo stimolo migliore a praticare la tolleranza, soprattutto quando un dono divino viene abusato e utilizzato per uno scopo diverso da quello originario per il quale è stato donato dal Creatore. Ibn al-Rumi (sic!) esorta ad abbandonare quel dono anche dovesse essere il “bastone” della ragione e della religione, soprattutto se le religioni e le ideologie si trasformano in strumenti di inimicizia, o si consacrano a seminare odio, amore per la vendetta e vanità, anziché riempire i cuori di amore e nobiltà d’animo, e orientare i cuori verso il Creatore. Allora noi dobbiamo chiederci: “I profeti non erano forse medici e guaritori? E le religioni non sono forse custodi dell’etica e delle virtù?”».
La cavalcata in stile valchirie (verso Mosca), un dramma della Wagner [a cura di Mauro Primavera]
La (fallita?) “dimostrazione di forza” di Evgenij Prigožin, capo della Wagner, ha naturalmente attirato l’attenzione dell’intera stampa internazionale, compresa quella araba. Quest’ultima cerca soprattutto di studiare e analizzare le possibili conseguenze per il Medio Oriente, dal momento che la milizia russa, ormai presente in molti Paesi mediorientali e africani, condiziona in maniera significativa la stabilità e la sicurezza della regione. In sintesi, possiamo individuare tre posizioni principali: una maggioritaria che derubrica l’evento a farsa, un’altra “possibilista” che contempla qualsiasi scenario, un’altra ancora minoritaria che si allinea sulla propaganda del Cremlino. Su un fatto, però, le opinioni sembrano concordare: la Wagner in Medio Oriente continuerà a esistere, almeno nel futuro prossimo.
Il primo gruppo è rappresentato dalla stampa riconducibile al Qatar. Su al-‘Arabi al-Jadid, il giornalista egiziano Wael Qindil denuncia in un articolo intitolato “L’idiozia della Wagner: una giornata drammatica” il clamore e il “polverone” sollevatosi intorno alla vicenda, una sorta di «atmosfera satura dei vapori della cialtroneria politica e mediatica» che ha annebbiato le menti di analisti e commentatori, i quali hanno parlato anzitempo della fine di Putin e di «cambiamento russo» da parte di un gruppo mercenario che «ha commesso una lunga serie di crimini nella (nostra) regione, soprattutto in Siria e in Libia». L’autore ha mostrato stupore per il fatto che uno di questi esperti abbia paragonato sul canale di Al Jazeera l’attuale situazione russa ai disordini avvenuti in Libano il 7 maggio 2008 tra forze governative ed Hezbollah. La formazione sciita sarebbe, secondo il ragionamento dell’analista, una sorta di “Wagner levantina”: «è un discorso vergognoso e offensivo per l’idea della resistenza – il commento dell’autore – infatti, nonostante le numerose critiche rivolte a Hezbollah nella questione siriana e nella complessità dello scenario politico libanese, esso rimane un partito della resistenza, un motivo di orgoglio per buona parte delle masse arabe durante il periodo dell’occupazione israeliana […] Questo è un partito, si può contestarlo del tutto o in parte, ma resta comunque una formazione politica libanese […] in nessun caso è permesso porlo nel contesto di un’avventura di bande criminali composte da mercenari armati». Un altro giornalista egiziano, Ibrahim Nawar, scrive su al-Quds al-‘Arabi che la Wagner ha fatto la fine di una «bolla» che si è scontrata contro uno «Stato di ferro». Tuttavia, il gruppo mercenario dovrà continuare a curare, seppur con più attenzione, i suoi interessi in Sudan, Libia, Chad, Repubblica Centrafricana e Mali. Nawar chiude l’intervento con una domanda: «è possibile per questi Paesi inghiottire queste piccole bolle ed eliminarle? L’impero della Wagner non è ancora crollato».
I giornali sauditi ed emiratini rientrano nel gruppo del “possibilismo” e del “mistero”. Il quotidiano panarabo di proprietà saudita Al-Sharq al-Awsat gioca al “trova le differenze” tra Prigožin e il capo delle Forze di Supporto Rapido sudanese Dagalo (Hemedti): «entrambi sono una forza militare veemente, entrambi sono privi di un retroterra militare, […], entrambi sono arrivati a ribellarsi contro l’esercito, entrambi hanno una lunga esperienza negli affari», visto che il primo dirigeva una «catena di ristoranti» e il secondo «vendeva cammelli». Per tutti e due il successo resta avvolto nel mistero perché è difficile spiegare la marcia su Mosca di Prigožin contro l’esercito regolare russo in possesso di testate atomiche, così come «nessuno sa con certezza chi sostiene a livello finanziario, logistico, militare e di intelligence il “Wagner sudanese”». L’autore conclude con sconforto e preoccupazione, domandandosi come sia stato possibile che questi due personaggi siano riusciti a mettere in ginocchio gli apparati militari e le istituzioni di due Stati sovrani. Di «mistero» parla anche la testata emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya che descrive la ribellione come se sospesa a metà «tra realtà e finzione». L’autore adotta una posizione neutra senza sbilanciarsi nei giudizi e prendendo in considerazione qualsiasi ipotesi: «ci sono molti interrogativi sulla ribellione della Wagner, tutte sono lecite o sbagliate, sia essa un’operazione di intelligence occidentale oppure un affare interno ai servizi segreti russi». Una cosa è certa: «nel breve termine, la Russia non si priverà facilmente dei servizi della Wagner: Mosca si appoggia molto sul gruppo per mantenere stabile il suo controllo e la sua influenza su regioni turbolente, riducendo quella occidentale». Al-‘Ayn aggiunge, però, che il rapporto fra Stato e compagnia cambia a seconda dei Paesi: «a sua volta la Wagner conta sull’appoggio del ministero della Difesa russo in Siria e in minimo altri otto Paesi africani, soprattutto dopo il declino dell’influenza francese in Mali e in Centrafrica».
Passiamo infine al ristretto fronte filorusso. Il giornale del partito Ba‘th siriano sposa la tesi secondo la quale la sollevazione sia stata orchestrata dall’Occidente. Simile, ma non identica, la visione di al-Mayadeen, testata araba avente sede in Iran, secondo cui la Wagner si sarebbe lasciata sedurre dalle possibilità di investimento in Occidente a seguito della rivolta, oppure dall’ondata mediatica garantita dai broadcast internazionali.
Il rogo del Corano in Svezia e il dibattito sulla libertà di espressione [a cura di Mauro Primavera]
La decisione da parte delle autorità svedesi di consentire il rogo pubblico del Corano ha comprensibilmente indignato la comunità islamica. La Lega Musulmana Mondiale ha emesso un comunicato di condanna del gesto ascrivibile all’«odio religioso» e all’«estremismo», mentre la moschea-università di al-Azhar ha invitato i musulmani a boicottare i prodotti svedesi, bollando l’assenso della polizia svedese all’atto dimostrativo come una «falsa libertà di espressione». Su quest’ultimo aspetto si concentra l’analisi di Al-Quds al-‘Arabi, che evidenzia il travisamento del concetto di «libertà di espressione», estrapolato in maniera astratta e senza tenere conto degli effetti (e dei problemi) che potrebbero derivarne. Anche in questo caso si mette in risalto la retorica dei “due pesi, due misure”, dal momento che la “libertà di espressione”, applicabile sempre e comunque solo nei confronti dell’Islam, «non prevede però la messa in discussione dell’Olocausto». Il risultato è che «nel continente europeo si stanno intensificando gli atteggiamenti razzisti e la loro trasformazione in tendenze popolari; ciò si riflette inevitabilmente nelle procedure legali e nella legislazione, ma la cosa peggiore è che questi Stati utilizzano gli slogan della democrazia, delle libertà e del laicismo contro le minoranze, e in particolar modo di quella musulmana». Uscendo dall’affaire svedese, la “lotta all’odio” costituisce uno dei pilastri della politica degli Emirati, coautori della risoluzione delle Nazioni Unite n. 2686 sulla condanna all’incitamento dell’odio e a comportamenti razzisti. In un articolo dedicato a questo tema, il quotidiano nazionale al-‘Ayn al-Ikhbariyya esordisce, senza timore di risultare enfatico: «non è una novità che gli Emirati Arabi Uniti conducano una campagna mondiale di successo contro l’estremismo razziale e contro l’odio».
L’etica islamica e l’“economia circolare” [a cura di Mauro Primavera]
Segnaliamo infine un interessante articolo di Al-Quds al-‘Arabi che esamina le analogie tra il concetto moderno di “economia circolare” e la lunga tradizione della finanza e della religione islamica. Ne è prova, secondo l’autrice, che «Dio onnipotente ha creato la vita che si articola su cicli, non in linea retta». L’etica dell’economia circolare, basata sul riutilizzo dei prodotti consumati in nome della sostenibilità finanziaria ed ecologica, trova riscontro nel messaggio di tutte le religioni abramitiche: «Islam, Cristianesimo ed Ebraismo predicano la moderazione nei consumi e invocano questo valore». A sostegno di questa tesi si menziona il versetto 31 della sura del Corano al-‘Arāf («mangiate e bevete, senza eccedere, perché Dio non ama gli stravaganti») e il peccato capitale cristiano della gola. Moderazione non significa che «l’uomo si debba privare dei piaceri e dei divertimenti della vita, ma è piuttosto l’invito» a rimanere in armonia con l’ordine naturale. In tal senso, le religioni possono influenzare positivamente la mente dei fedeli-consumatori, come dimostra il mercato halal, un «modello che influisce sull’intera catena valoriale che include finanziamenti, approvvigionamento, diritti dei lavoratori, logistica e marketing».