Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:34:20

Le proteste di massa di Sweyda e Daraa iniziate il 20 agosto continuano ad attirare l’interesse della stampa araba. Gli ultimi eventi hanno suscitato sia nel fronte pro-opposizione che in quello pro-Assad sentimenti di preoccupazione e scetticismo: il primo crede che il “moto rivoluzionario” non sia sufficiente a innescare l’atteso cambiamento politico e venga represso con la forza; il secondo teme che il ritorno del caos disfi la nuova rete di alleanze del regime sponsorizzata da Arabia Saudita ed Emirati.        

 

Partiamo dalla stampa antiregime con un articolo pubblicato su Al Jazeera, in cui l’accademico turco Yasin Aktai mette a confronto in maniera quasi manichea la figura di Recep Tayyip Erdoğan, che si è dimostrato disponibile e pronto ad avviare un negoziato informale per risolvere la crisi siriana, e quella di Bashar Assad, la cui reputazione è da tempo compromessa e che «non merita che gli si dia una mano». Per la testata filo-islamista al-‘Arabi 21, «Swayda chiede il modello (di autogoverno) di Idlib». Roccaforte della formazione salafita Tahrir al-Sham e di altre sigle minori dell’opposizione, Idlib è una città costantemente minacciata dai bombardamenti dell’aviazione siriana e russa; tuttavia, secondo al-‘Arabi 21, essa non solo garantisce ai suoi abitanti i servizi essenziali, ma mostra anche uno spirito di libertà e una vitalità culturale che non ha eguali nei territori governativi, oppressi dall’asfissiante dominio del regime e depressi economicamente.

 

Analizzando l’origine dell’insurrezione del Sud, al-Quds al-‘Arabi nota che la fortuna di questo «moto rivoluzionario» è stata paradossalmente favorita dallo stesso Assad, che nell’intervista rilasciata all’emittente Sky News Arabiya il 9 agosto scorso si è lasciato andare a «dichiarazioni provocatorie». La testata non sembra tuttavia nutrire molte speranze sulla prossima caduta del governo: «la realtà è che questa piccola provincia dalla popolazione esigua non può, da sola, minacciare il crollo del regime». Dello stesso avviso anche al-‘Arabi al-Jadid, che amplia l’analisi tratteggiando un desolante scenario futuro dominato dallo stallo tra “rivoluzionari” e governo. «Probabilmente – scrive il siriano Marwan Qablan nel paragrafo conclusivo del suo articolo – nella prossima fase la situazione diventerà più fosca a causa dell’approssimarsi dell’inverno che aumenterà la pressione sui siriani, dell’esaurimento delle risorse, della bancarotta dello Stato, dell’incapacità di offrire minimi standard di vita (da intendersi come soglia di sopravvivenza, cibo e medicine) e della fine delle illusioni sulla possibilità di migliorare la situazione senza cambiare l’assetto politico». Il giornale incoraggia comunque gli attivisti a trasformare la loro protesta in un processo di «cambiamento politico graduale», approfittando della debolezza del governo che, oltre ai numerosi problemi interni, sta ricevendo poco sostegno dai suoi storici alleati: la Russia è alle prese con la guerra in Ucraina e con le sanzioni, la Cina «affoga nei debiti» e l’Iran affronta una grave crisi socioeconomica.        

  

Passiamo ora ai giornali vicini alle posizioni di Emirati e Arabia Saudita, in cui si vede in maniera sempre più nitida – come già accennato nella rassegna scorsa – preoccupazione e persino qualche critica velata al governo di Damasco. In primo luogo occorre sottolineare il “no comment” del quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat sulla questione, che si è limitato a seguire la cronaca delle manifestazioni. Si sbilancia, invece, il quotidiano panarabo londinese al-‘Arab, vicino alle posizioni emiratine, riportando che Baghdad, alleata di Damasco, ha chiuso la frontiera con la Siria. Una decisione che conferma la gravità della crisi: stando alle indiscrezioni irachene, infatti, Assad potrebbe perdere presto il potere, vittima di un non meglio specificato «accordo segreto tra Russia, Stati Uniti e Turchia». Lo stesso giornale riferisce che il «clima in Siria è tornato quello del 2011», anno delle imponenti manifestazioni della Primavera Araba che, oggi come ieri, stanno scuotendo le fondamenta del regime: «in una scena che era impossibile da immaginare nel bastione dei drusi, i manifestanti hanno cacciato dai loro uffici i membri del partito Ba‘th fedeli ad Assad, hanno sprangato le porte e scritto sui muri degli slogan contro il governo». Per il giornale, però, «le proteste hanno scosso il regime, ma non rappresentano una minaccia esistenziale». Sempre su al-‘Arab, lo scrittore iracheno ‘Ali al-Sarraf sottolinea come l’establishment damasceno non possa ricorrere alla consueta retorica che scredita l’opposizione bollandola come prodotto di agenti esterni: «la rivolta di Sweyda ha un significato particolare […] È la rivolta di una minoranza che per sua natura tende alla convivenza […] i drusi non possono essere accusati di terrorismo, non si può certo dire che sono mossi dalla Fratellanza Musulmana. Non esiste un complotto imperialista o mondiale a essi collegato». Questa volta – prosegue al-Sarraf – vi è un chiaro errore politico che si aggiunge alle difficoltà economiche: «la vittoria [militare di Assad] implicava un cambiamento reale», che però è fallito. Anziché cercare una mediazione e avviare un processo di riconciliazione con i ribelli, il governo «è stato spinto da “Abu ‘Ali Putin” a ritenere che la distruzione e l’annientamento fossero le opzioni migliori».   

 

La testata emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya scrive che «la crisi siriana assomiglia al gioco delle matrioske: se togli un involucro, ne trovi un altro identico». Anche in questo caso si riconosce che il rincaro del carburante è stata una mossa che ha peggiorato le già precarie condizioni economiche della popolazione, con il rischio di nuovi scontri armati. Ciò, osserva con preoccupazione al-‘Ayn, potrebbe inficiare il delicato processo di normalizzazione avviato lo scorso maggio: «nessuno sano di mente ha dubbi sul fatto che l’escalation in Siria potrebbe far abortire tutti i tentativi e i processi politici e securitari concordati a livello regionale. Queste intese potrebbero risultare fragili e non presentare soluzioni definitive; ciononostante esse, malgrado la loro fragilità, non sono nate in un attimo, e la strada che vi ci porta non è cosparsa di rose; ci è voluto più di un decennio per porre le basi della risoluzione della questione siriana […] le potenze regionali in generale e quelle arabe in particolare devono sbrigarsi a contenere la situazione per quanto possibile, prima che sia troppo tardi».    

 

Luci e ombre dell’ascesa del Brics [a cura di Chiara Pellegrino]

 

La stampa araba ha abbondantemente continuato a commentare il quindicesimo vertice dei Brics (acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), tenutosi la settimana scorsa in Sud Africa e durante il quale tre stati arabi, Arabia Saudita, Emirati ed Egitto, sono stati invitati ad aderire al blocco che si vuole alternativo all’Occidente. Secondo il politologo iracheno Muthanna ‘Abdullah, a rendere attraente l’adesione ai Brics sono le prospettive di crescita dei Paesi che ne fanno parte: mentre nel 1982 i Paesi del G7 rappresentavano il 50% del PIL mondiale, alla fine del 2022 questa percentuale è scesa al 30%, mentre negli stessi anni il PIL dei Paesi Brics è cresciuto dal 10 al 31% del PIL mondiale e, secondo le proiezioni, è destinato a mantenere questo andamento positivo. «La speranza è che il gruppo dei Brics dia voce a chi voce non ha, in particolare a quei Paesi che non sono più soddisfatti delle istituzioni finanziarie globali controllate dall’Occidente», scrive ‘Abdullah. Ma la chiave affinché la loro partnership abbia successo, continua il giornalista, «è trovare una sintesi tra i diversi punti di vista e prendere le distanze dalle questioni politiche controverse». Il vertice indica la volontà di «ri-progettare il nuovo ordine mondiale a livello economico, ed è un segno preliminare della fine del vecchio mondo costruito sugli accordi del 1944, che legava il dollaro all’oro, e poi sull’accordo del petrodollaro nel 1970-1971».

 

Oltre alle ricadute economiche, l’adesione al blocco – scrive Mohammad Ali al-Saqqaf su al-Sharq al-Awsat (quotidiano panarabo di proprietà saudita) – ha necessariamente delle ripercussioni anche geopolitiche in forza della grande capacità produttiva di questo gruppo di Paesi e della percentuale di popolazione mondiale che esso rappresenta (il 50% del totale).

 

Anche il giornalista palestinese Fadel al-Munasafa, su al-‘Arab, insiste su questo aspetto: la dimensione geostrategica ha giocato un ruolo importante in quanto «s’interseca direttamente con il linguaggio economico». Nell’interpretazione del giornalista, l’accordo tra Iran e Arabia Saudita mediato dalla Cina a marzo è stato funzionale «a spianare la strada all’espansione dei Brics e portare nel gruppo tre Stati (l’Iran, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti) che, insieme, producono oltre il 10% della produzione globale di gas e circa 20 milioni di barili di petrolio al giorno». Insomma, un colpo da maestro di Xi Jinping che, dispiegando «il suo soft power nel Golfo, ha inferto un duro colpo agli Stati Uniti riuscendo a portare sulla stessa barca due opposti» e spostare gli equilibri energetici globali a favore dei Brics. Quanto al coinvolgimento degli Emirati nel blocco, non è difficile immaginarne le ragioni geopolitiche: un piccolo Paese che possiede oltre 40 porti in 6 continenti e che oltretutto negli ultimi mesi è diventato la destinazione principale degli investitori russi. Meno scontato invece è l’invito rivolto all’Egitto, essendo questo un Paese che versa in condizioni economiche difficili. Ciò che l’ha reso attraente ai Brics, spiega l’editorialista, è la sua posizione geografica strategica. L’Egitto rappresenta il punto di «collegamento nevralgico tra il continente asiatico e africano, attraverso il quale transita una parte cospicua del commercio internazionale, è destinato a diventare un centro regionale per lo scambio di gas naturale dal Medio Oriente all’Europa, costituisce un collegamento importante nella Via della seta cinese e offre promettenti opportunità di investimento». Con l’adesione dell’Argentina invece «i Brics hanno messo le mani sullo stretto di Magellano, che collega l’Oceano Atlantico con l’Oceano Pacifico» mentre, coinvolgendo l’Etiopia, la Cina ha voluto premiare il partner africano e assicurarsi l’avanzamento della Via della seta in Africa. I calcoli politici, conclude l’editorialista, hanno lasciato il posto al realismo. Va da sé, dunque, che la richiesta di adesione ai Brics avanzata dai palestinesi sia stata rifiutata, trattandosi, scrive Munasafa, di «una richiesta simbolica, avanzata da un’autorità assediata via aria, via terra e via mare e incatenata dal “Protocollo di Parigi”; un’autorità che non può esercitare il diritto di sovranità nemmeno sul suo unico aeroporto, né tanto meno può unirsi al gruppo dei Brics, che si sta espandendo per scopi economici e non politici, anche se la dichiarazione conclusiva del vertice includeva alcune parole sulla Palestina espresse dai leader arabi, parole che ormai ci suonano familiari e che rientrano nella categoria dei cosiddetti “discorsi vuoti” ».

 

Sul quotidiano egiziano al-Masry al-Youm, Ziad Bahaa Eldin ha ridimensionato le aspettative che si sono create attorno all’adesione dell’Egitto ai Brics. Questa decisione rappresenta sicuramente un vantaggio politico e diplomatico ed è un segno del ruolo che l’Egitto continua giocare sulla scena internazionale, ma non risolverà i problemi dell’economia egiziana, scrive l’editorialista egiziano. I Brics sono ancora lontani dall’obbiettivo di diventare «un secondo polo economico che sfida gli Stati Uniti e l’Europa sui mercati globali» per diverse ragioni: non tutti i Paesi Brics sono cresciuti allo stesso ritmo (la Cina e l’India hanno mantenuto una crescita stabile, ma il Brasile e la Russia hanno rallentato); il blocco non si è mai trasformato in una vera istituzione internazionale; i Brics non hanno mai condiviso un orientamento economico o politico comune e ancora oggi persistono grandi differenze; negli ultimi vent’anni, la Cina ha conosciuto una crescita esponenziale e ha intrapreso un percorso indipendente.

 

La stampa emiratina ha continuato a celebrare l’adesione del Paese al circolo dei Brics. Lo ha fatto pubblicando, tra gli altri, un articolo del giornalista cinese Majid Wang, comparso su al-‘Ayn al-Ikhbariyya. L’editorialista ha elogiato la lungimiranza della leadership emiratina, la cui decisione di aderire al blocco «riflette il desiderio degli Emirati di sostenere la pace e lo sviluppo per realizzare il benessere e la prosperità dei popoli e delle nazioni di tutto il mondo».

 

Ma il mondo sarà davvero migliore sotto l’influenza dei Brics? – si domanda su al-‘Arabi al-Jadid Mu‘taz al-Fujairi. Perché, se è vero che aprire il blocco ad altri Stati consente di «ri-orientare le istituzioni finanziarie internazionali, far fronte all’intransigenza occidentale su alcune questioni politiche internazionali o arabe, [è altrettanto vero che], contrariamente a ciò che si pensa, i cambiamenti nella distribuzione dei centri di potere all’interno del sistema globale e l’ascesa dei cosiddetti Paesi del Sud non portano in generale buone notizie sul piano dei diritti umani e dei diritti dei popoli». Tant’è che nell’ottobre 2022, quando è stato aperto il dossier sui crimini commessi dalla Cina contro la minoranza uigura, i Brics e i loro alleati, Paesi islamici compresi, si sono schierati a favore della Cina.  E qualcosa di simile è accaduto con la Siria, quando i Brics (Russia e Cina in testa) hanno difeso il regime di Bashar al-Assad.

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