Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:11:23
Soprattutto per gli effetti negativi che la crisi potrebbe avere a livello regionale, il perdurare della guerra civile in Sudan sta destando molta preoccupazione negli Stati arabo-africani, che hanno pertanto elaborato dei piani per evitare l’escalation di violenza. L’Egitto, in virtù dei solidi legami con Khartum, ha deciso di ospitare questa settimana una conferenza a cui hanno partecipato gli altri Paesi confinanti (Etiopia, Sud Sudan, Chad, Eritrea, Repubblica Centrafricana e Libia), con l’obiettivo di ottenere quantomeno un cessate il fuoco di tre mesi, corridoi umanitari sicuri e un canale di dialogo tra le due fazioni militari in lotta, l’esercito nazionale di al-Burhan e le Forze di Supporto Rapido di Hemedti. Tuttavia, Kenya, Etiopia, Gibuti e Sud Sudan, quattro Stati membri dell’Autorità Intergovernativa sullo Sviluppo dell’Africa Orientale (IGAD), hanno anticipato al-Sisi e lunedì si sono incontrati ad Addis Abeba approvando una proposta di pace alternativa a quella egiziana.
Il giornale filogovernativo al-Ahram esalta l’iniziativa di al-Sisi con toni trionfalistici: «il salvagente che oggi l’Egitto ha lanciato con la consueta obiettività e con la responsabilità storica di salvare questo Paese fratello rappresenta per i belligeranti la più grande occasione per far tacere le armi e aprire un dialogo nazionale responsabile al fine di costruire un nuovo Sudan che goda di sviluppo, stabilità e prosperità».
Più equilibrato il parere del panarabo al-‘Arab: «il vertice del Cairo ha superato molti degli ostacoli regionali e internazionali che ha incontrato durante la riunione dei capi di Stato e di governo dei sette Paesi confinanti con il Sudan, ma non ha prodotto significative vie d’uscita capaci di risolvere il rebus della crisi. Da qui l’impressione che l’obiettivo del vertice fosse l’avvicinamento dei punti di vista regionali, e non quello di trovare una soluzione allo scontro tra le milizie sudanesi». In un altro articolo il giornale sottolinea l’importanza della buona riuscita dell’incontro per il Cairo, dal momento che «l’Egitto ha pagato un conto esorbitante per l’espansione della Fratellanza durante il regime di Omar al-Bashir, e non vuole che la sua sicurezza nazionale sia esposta a (questo) pericolo».
Al-‘Arabi al-Jadid, fortemente critico nei confronti di al-Sisi, mette in guardia sull’impossibile imparzialità e obiettività dell’iniziativa dell’Egitto: dal punto di vista storico, il Cairo aveva occupato più volte territori del Sudan e tuttora permangono alcune zone di frontiera contese; a livello politico, i presidenti egiziani hanno avuto un atteggiamento con Khartum ondivago e dettato dalle convenienze del momento; infine, i due Paesi sarebbero troppo diversi per composizione sociale e per cultura. «Probabilmente, valutare lo sviluppo politico del Sudan attraverso una lente egiziana non è corretto nella maggior parte dei casi […] ci sono evidenti differenze nei percorsi politici» dei due Paesi.
Critica la posizione di al-Sharq al-Awsat sull’iniziativa dell’IGAD: la dichiarazione di Addis Abeba avrebbe provocato l’indignazione dei sudanesi perché «il comitato nelle sue raccomandazioni sembrava voler mettere il Sudan sotto protettorato». Ma il paradosso – sottolinea l’autore – è dato dal fatto che tali dichiarazioni sono state fatte dal primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali «che rifiutò qualsiasi intervento africano o internazionale nella guerra del Tigray, e in quell’occasione rifiutò la mediazione dell’IGAD».
Il quotidiano emiratino al-Ittihad sottolinea in primo luogo il ruolo attivo della Federazione nel cercare una soluzione alla crisi («il Forum per la Pace di Abu Dhabi ha invitato a tenere un congresso africano per il mantenimento della pace nella capitale della Mauritania Nouakchott») e, in secondo luogo, ricorda il pesante lascito del periodo di Omar al-Bashir e dell’Islam politico («la gente è afflitta da quando le correnti dell’Islam politico hanno preso il sopravvento […] in ogni crisi politica i partigiani dell’estremismo hanno trovato un punto d’appoggio nel momento in cui gli sono stati concessi degli spazi da riempire con discorsi di odio e violenza anziché discorsi di tolleranza, in cui prevalesse l’interesse del popolo sugli interessi dei partiti»).
Al-Quds al-‘Arabi si concentra sulla grave situazione interna del Paese africano denunciando l’esacerbamento del conflitto, che da scontro militare è degenerato nella «barbarie», dal momento che entrambe le parti si stanno macchiando di gravi crimini ed efferatezze. Ciononostante, il quotidiano panarabo si “schiera” dalla parte dell’esercito nazionale, più per scongiurare il pericolo delle milizie che per convinzione politica: «stare con l’esercito nazionale per la battaglia esistenziale del Sudan, soprattutto dopo la conferma della partecipazione di leader e militari africani, non significa concedergli carta bianca per governare o occupare in maniera definitiva l’ambito pubblico».
Il modello Dubai e la via della seta israeliana [a cura di Chiara Pellegrino]
Il quotidiano panarabo al-Quds al-‘Arabi ha commentato una notizia apparsa sul giornale israeliano Yedioth Ahronoth, secondo la quale il ministero degli Esteri israeliano ha presentato «un progetto segreto», che prevede di «collegare le terre [arabe e Israele] con i camion». Mentre il mondo arabo è impantanato nelle guerre civili, scrive al-Quds al-‘Arabi nel suo editoriale del 9 luglio, «il “modello Dubai” del successo finanziario e turistico è diventato simile a una grande ideologia, sostituendosi a quella comunista, a quella nazionalista e a quella islamica che hanno dominato la fase post-indipendenza. L’obiettivo principale dei governi non sono più le guerre e le preoccupazioni politiche, ma spostare l’attenzione dei cittadini sullo sport, il divertimento, il commercio, il turismo e i servizi». L’applicazione di questa strategia ha generato «una situazione strana» tra gli arabi e gli israeliani, al punto che «una cantante israeliana (non araba) ha presentato una canzone satirica intitolata “Dubai” in cui spiega che cosa questo significhi: “Se solo tutti gli arabi abbandonassero l’idea di gettare a mare gli israeliani, dimenticassero l’assedio di Gaza e dello sventurato popolo della Palestina, e diventassero “come Dubai”!» Quello auspicato dalla cantante, scrive l’editorialista, è «un progetto totalmente scollato dalla realtà di ciò che sta accadendo contro i palestinesi e anche da ciò che sta accadendo in Israele, diviso sul tentativo di Netanyahu di attuare un colpo di Stato contro il sistema giudiziario israeliano soggiogandolo alla sua autorità. [Peraltro, il progetto] necessita di partner altrettanto capaci di scollarsi dalla realtà, così da neutralizzare le forme di “risentimento” suscitate dagli attacchi a cui è sottoposto il popolo palestinese […] e neutralizzare, allo stesso tempo, il “risentimento” pubblico, internazionale e americano sorto attorno alla questione del “golpe giudiziario”. In questo modo potranno concentrarsi sui camion che dagli Emirati raggiungeranno il porto di Haifa, attraverso l’Arabia Saudita e la Giordania, trasportando merci e turisti provenienti dal Golfo verso l’Europa e viceversa. E così gli arabi diventeranno “come Dubai”!» Ognuno dei Paesi coinvolti nel progetto avrebbe evidentemente un ritorno. Nel caso dell’Arabia Saudita, il progetto sarebbe funzionale ai desiderata della leadership, che vuole azzerare i problemi con l’Iran, risolvere la crisi yemenita e concentrarsi sugli investimenti; la Giordania spera di appianare le divergenze con Tel Aviv, che nascono dalla minaccia costante di vedersi arrivare masse di palestinesi in fuga dalle violenze perpetrate dai coloni, e dai continui assalti israeliani ai luoghi sacri di Gerusalemme, che ricadono sotto la tutela hashemita. Il programma israeliano però collide con i piani della Cina, «il cui ultimo capitolo arabo prevede un enorme progetto di trasporti e infrastrutture chiamato Strategic Development Road, che dovrebbe collegare il porto di al-Faw nel Golfo Persico, nella zona di Bassora, con il nord, passando per la Turchia fino all’Europa».
Da qualche anno, la competizione economico-finanziaria tra gli Emirati e l’Arabia Saudita è sempre più intensa e serrata. Entrambe le monarchie cercano di attrarre investimenti esteri, ma il 2022 si è chiuso nettamente a favore di Abu Dhabi, scrive il quotidiano panarabo e filo-emiratino al-‘Arab. «Le pressioni esercitate dall’Arabia Saudita per trasferire le sedi delle sue maggiori società da Dubai e Abu Dhabi a Riyad hanno spinto gli Emirati a offrire agli investitori delle ulteriori facilitazioni, con ripercussioni positive sul flusso di investimenti, che nel 2022 hanno raggiunto la cifra record di 23 miliardi di dollari» a fronte dei 7 miliardi ricevuti da Riyad. Inoltre, nella geografia mondiale dei Paesi destinatari di investimenti esteri, gli Emirati si collocano al quarto posto, dopo gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’India. Che cosa rende gli Emirati una meta così attraente agli occhi degli imprenditori stranieri? Il Paese sostiene l’imprenditorialità, consente la libera circolazione dei capitali, permette agli investitori di mantenere l’intera proprietà delle società, non richiede necessariamente la presenza di un “intermediario” della società o di alcuni rami di essa, oltre alla presenza di 40 zone franche». Inoltre, scrive ancora l’editorialista, gli Emirati non richiedono un capitale minimo per le società a responsabilità limitata, ciò che garantisce maggiore flessibilità agli imprenditori, e ha una tassazione tra le più basse al mondo – escludendo le compagnie petrolifere e le filiali di banche straniere, le imposte sul reddito non superano il 9% sui profitti superiori ai 100.000 dollari.
Israele ricatta il Marocco [a cura di Chiara Pellegrino]
Il Marocco non è certo diventato “come Dubai”, per riprendere la canzone della cantante israeliana menzionata da al-Quds al-‘Arabi, ma il processo di normalizzazione con «l’entità sionista», scrive ‘Ali Anuzla su al-‘Arabi al-Jadid, procede spedito. «La normalizzazione in cambio del ricatto», titola il quotidiano. «Israele ha posto come condizione che il Marocco ospiti sul suo territorio una riunione del Forum del Negev (che comprende i ministri degli Esteri di Israele, America, Marocco, Emirati, Bahrain ed Egitto), e in cambio Tel Aviv inizierà a pensare al riconoscimento della sovranità del Marocco sulla regione del Sahara, contesa con il Fronte Polisario, sostenuto dall’Algeria». Il Marocco ha rimandando più volte l’incontro adducendo ogni volta una scusa diversa. Secondo il giornalista, ciò dimostra che Israele non dà nulla senza chiedere qualcosa in cambio, ma smaschera anche il discorso ufficiale marocchino. Il re ha promesso che non avrebbe barattato la normalizzazione con le posizioni sulla questione del Sahara, e soprattutto non l’avrebbe fatto «a spese della causa palestinese, che occupa una posizione simbolica all’interno della società marocchina». Ma ha tradito la promessa. In realtà, scrive Anuzla, l’afflusso di turisti israeliani in Marocco, gli scambi economici e la cooperazione in ambito sicuritario e militare tra i due Stati ci sono sempre stati, «la novità è che oggi avviene tutto alla luce del sole, mentre in passato avveniva in segreto e a porte chiuse. D’altra parte, la normalizzazione era ed è tuttora rifiutata all’interno della società marocchina; le manifestazioni o gli eventi contro di essa sono ufficialmente vietati e proibiti. L’unico luogo in cui la macchina del divieto ufficiale non è ancora arrivata sono gli stadi di calcio, soprattutto durante le partite internazionali. Ogni volta che la nazionale marocchina vince, i giocatori marocchini (la maggior parte dei quali vivono in Europa o sono nati e cresciuti in Paesi europei, e giocano nei club europei) alzano coraggiosamente la bandiera palestinese davanti agli applausi e all’incoraggiamento delle folle marocchine presenti». Con il passare del tempo, però, la normalizzazione può diventare una fonte d’imbarazzo, spiega Anuzla, come peraltro è stato con la vicenda di Jenin e la difficoltà di Re Muhammad VI a prendere una posizione netta sulla questione.
In Iraq scompaiono le paludi, e con loro un’intera civiltà [a cura di Chiara Pellegrino]
Sempre al-Quds al-‘Arabi ha pubblicato un reportage sulla drammatica situazione delle paludi di al-Chibayish, nell’Iraq meridionale, che si stanno rapidamente prosciugando, segnando la fine di un’intera civiltà. L’Iraq è tra i cinque Paesi più colpiti dal cambiamento climatico. Oggi il 70% delle paludi si sono prosciugate e Muhammad Hamid Nur, 23 anni, la spada a due punte dell’imam ‘Ali tatuata sul braccio in segno di “baraka” (benedizione), ha perso in pochi mesi tre quarti della sua mandria di bufali. La siccità peggiora lo stato delle paludi, il livello di salinità dell’acqua aumenta e gli animali che la bevono muoiono. Come si è arrivati a questa situazione? «Trent’anni fa le paludi hanno sperimentato la prima morte, quando Saddam Hussein le prosciugò. Dopo la rivolta sciita scoppiata in seguito alla guerra del Golfo nel 1991, Saddam decise di inseguire, fino all’ultimo angolo delle paludi, chi vi aveva preso parte. In pochi mesi, più del 90% delle paludi fu trasformato in un deserto […]. All’epoca, la stragrande maggioranza della popolazione della regione (che contava 250.000 persone) abbandonò questo luogo, spostandosi in altre regioni dell’Iraq, in Svezia o negli Stati Uniti. Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003 a seguito dell’invasione americana, le paludi ripresero vita; le dighe e i canali che erano serviti a prosciugarle artificialmente furono distrutte. […] A vent’anni di distanza, però, facendo un giro in barca si nota che il livello dell’acqua continua a calare». Dagli anni ’70, il livello dell’Eufrate in Iraq è diminuito del 50% circa, a causa della decisione della Turchia, in cui hanno origine il Tigri e l’Eufrate, ma anche della Siria e dell’Iran, attraverso i quali scorrono i due fiumi, di costruire diverse dighe per tutelare il loro fabbisogno idrico.
L’ossessione degli Emirati per gli islamisti colpisce l’Europa [a cura di Chiara Pellegrino]
Ernest Khoury, capo-redattore di al-‘Arabi al-Jadid, ha riportato dalla stampa occidentale «una notizia sorprendente, che si commenta da sola». La società svizzera di intelligence Alp Services, tra il 2017 e il 2020 ha compilato per gli Emirati una lista di personalità ed istituzioni europee, accusate di avere dei legami con i Fratelli musulmani. Nella lista, dove si mescolano finzione e realtà, surrealismo e allucinazioni, alimentate dall’ossessione emiratina per la Fratellanza – scrive Khoury, sarebbero finite più di mille persone (di cui 200 francesi) e più di 400 organizzazioni europee. L’editorialista si domanda, per esempio, come sia stato possibile inserire nella lista degli osservati speciali il sito francese OrientXXI e il suo fondatore, il giornalista e intellettuale francese di sinistra Alain Gresh, l’ex candidato alle elezioni presidenziali del Partito socialista francese Benoît Hamon, la giornalista Rokhaya Diallo, il Centro Nazionale della Ricerca Scientifica francese (CNRS), la ministra del Clima belga Zakia Khattabi e l’ex leader del partito laburista britannico Jeremy Corbyn. L’editorialista si è limitato a riportare la notizia senza aggiungere particolari commenti, nell’intento, probabilmente, di denunciare l’ossessione emiratina per la Fratellanza, che finisce per vedere l’islam politico anche là dove non c’è. In questo senso la vignetta a corredo dell’articolo è molto eloquente: due marziani commentano tra loro: “C’è stata una terribile esplosione nella via Lattea”. Il generale egiziano “golpista” risponde: “Sì, è colpa della Fratelli!”.