Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 24/05/2024 14:35:13

La morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi ha sollevato diversi interrogativi sulla stampa araba, dalle conseguenze sulla politica interna ed estera di Teheran, alle cause dell’incidente. Tra i quotidiani che per primi hanno reagito alla notizia si distinguono i filo-sauditi, come al-Sharq al-Awsat, i libanesi, tra cui Asas Media e al-Nahar, per gli effetti che questa morte potrebbe avere sul conflitto tra Hezbollah e Israele, e alcuni, ma non tutti, quotidiani di proprietà qatariota.

    

Su al-Sharq al-Awsat l’ex direttore del quotidiano Abdel Rahman al-Rashid s’interroga sul futuro del regime iraniano, perché «con la morte di Raisi e l’età di Khamenei che avanza sta per esaurirsi la generazione che ha gettato le basi della Repubblica islamica». La presidenza è uno specchio dello Stato, ma non il principale decisore politico. Ciascuna presidenza ha rispecchiato l’orientamento della leadership iraniana del momento – la «presidenza moderata» di Hassan Rouhani ha accompagnato la fase di riconciliazione con gli Stati Uniti durante l’era Obama, mentre la «presidenza intransigente» di Raisi ha accompagnato la fase di ostilità con l’America, seguita alla decisione di Trump di «stracciare l’accordo sul nucleare». Ora che si è chiuso un ciclo con la morte di Raisi, il regime continuerà a porsi in opposizione con il mondo nominando «uno dei falchi conservatori come prossimo presidente», o scenderà a più miti consigli aprendo una nuova fase di riconciliazione regionale e internazionale? L’editorialista non dà però una risposta.

 

Il giornalista saudita Mashari Althaydi frena le aspettative di cambiamento, perché fino a prova contraria «i motori del regime sono nelle mani della Guida suprema Ali Khamenei». Quest’ultimo è il «comandante in capo di tutte le forze armate iraniane e dei servizi di sicurezza, nomina il capo della magistratura, la metà dei membri del potente Consiglio dei Guardiani, gli imam della preghiera del venerdì e i direttori delle reti televisive e radiofoniche statali. Senza contare che le fondazioni caritatevoli della Guida suprema, valutate miliardi di dollari, controllano ampi settori dell’economia iraniana». Proprio questa eccezionalità del regime iraniano richiede, secondo l’editorialista, un’analisi d’eccezione, che non faccia confronti con altre realtà.  

 

Se è vero che la Guida suprema riuscirà «ad assorbire qualsiasi crisi politica ed economica», la caduta dell’elicottero su cui viaggiava il presidente «non è un incidente passeggero, su cui si possa soprassedere facilmente», commenta su al-‘Ayn al-Ikhbariya Abduljalil Alsaeid. La portata del disastro ha messo in luce la debolezza delle istituzioni statali iraniane, che «non sono state in grado neppure di presidiare una zona di confine, […] e se non fosse stato per l’intervento turco i corpi delle vittime sarebbero stati ritrovati chissà quando». Con un tono di superiorità, l’editorialista conclude il suo discorso facendo notare «le posizioni pacate» assunte dagli arabi, in particolare quelli del Golfo, dopo la notizia dell’incidente, e spera che possano essere una lezione per l’Iran. Perché Teheran deve capire che «i Paesi del Golfo chiedono pace e buon vicinato, e per il loro vicino non desiderano altro che stabilità e tranquillità».

 

Sul quotidiano panarabo di proprietà qatariota al-Quds al-Arabi il politologo egiziano Amr Hamzawy spezza una lancia in favore di Teheran, che ha saputo gestire con calma e sangue freddo la notizia della morte di Raisi, ciò che è «indice di stabilità politica del sistema». La reazione del regime «contrasta con l’immagine promossa dall’Occidente, che vuole i governanti di Teheran una banda di ideologi e sanguisughe del popolo, incuranti della trasparenza e della libera circolazione delle informazioni, buoni solo a usare strumenti coercitivi per imporre la calma nello spazio pubblico ed eliminare qualsiasi forma di opposizione». Inoltre, contrariamente a tutte le aspettative, commenta Hamzawy, la Guida suprema non ha accusato «il grande Satana e i suoi alleati», ovvero l’America e Israele, di aver cospirato contro l’Iran abbattendo l’elicottero.

 

È vero però che lunedì scorso l’ex ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha accusato gli Stati Uniti di essere parzialmente responsabili dell’incidente, nella misura in cui le loro sanzioni impediscono da anni all’Iran di acquistare elicotteri nuovi e pezzi di ricambio. Questa, però, commenta il professore libanese Gerard Dib su al-‘Arabi al-Jadid, è una scusa, perché Teheran da anni aggira le sanzioni commerciando con la Cina e la Russia, e per questo non si può dire che «le sanzioni abbiano davvero ostacolato il progresso industriale e tecnologico iraniano». Ciò che finora non è stato considerato, aggiunge l’editorialista, è che insieme all’elicottero «sono andati persi anche dei documenti fino a ieri coperti dal segreto». L’incidente di Raisi potrebbe quindi tirar fuori gli scheletri dall’armadio, facendo emergere un possibile coinvolgimento israeliano nella vicenda. L’Iran ha sempre guardato con sospetto alla crescente influenza israeliana nel vicino Azerbajan, vedendovi una minaccia alla propria sicurezza nazionale. «E se Israele avesse dei centri di spionaggio ad alta precisione ai suoi confini, che osservano ciò che accade all’interno dell’Iran? E se l’intelligence israeliana avesse controllato le apparecchiature di comando dell’elicottero?», domanda l’editorialista. La costruzione di una diga in comune tra l’Iran e l’Azerbaijan andava oltre la semplice condivisione delle acque, perché da parte iraniana il progetto mirava a «rovesciare il rapporto tra Baku e Tel Aviv riducendo la presenza israeliana in ogni sua forma nel Paese limitrofo». Pertanto, l’accusa lanciata da Zarif potrebbe avere un fondo di verità alla luce dei recenti scontri tra Israele (sostenuto dall’alleato americano) e l’Iran.  

 

Il sito d’informazione filo-iraniano al-Mayadeen ha pubblicato alcuni video dei funerali di Raisi oltre alle clip del discorso tenuto da Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas, durante le esequie. Haniyeh ha ricordato l’impegno di Raisi per la causa palestinese – «il presidente deceduto ci aveva assicurato che la questione palestinese è centrale, la resistenza è una scelta strategica del progetto di liberazione e che l’Iran avrebbe continuato a sostenere la resistenza palestinese finché le aspirazioni del popolo e della nazione islamica (umma) non fossero state realizzate».

 

Se la maggior parte degli editoriali si concentrano sulla figura di Raisi, su al-Akhbar, quotidiano libanese vicino a Hezbollah, il giornalista Khader Kharroubi ragiona invece sulle conseguenze della morte del ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian e celebra il «brillante diplomatico», che è stato capace di difendere gli interessi del suo Paese coltivando allo stesso tempo quel minimo di relazioni con l’Occidente necessarie a garantire un equilibrio. Il ministro, scrive l’editorialista, «è riuscito ad attuare gran parte della visione propugnata dal presidente iraniano scomparso, fondata sul rafforzamento dei legami con il campo internazionale ostile agli Stati Uniti guidato dalla Cina e dalla Russia, attraverso il raggiungimento di un accordo strategico a lungo termine con questi due Paesi, come parte della strategia che si prefiggeva di “guardare verso Oriente”». Allo stesso tempo, ha curato i rapporti con Washington, per preservare l’equilibrio internazionale. Ma la vera ragione per cui al-Akhbar celebra questa personalità è un’altra, e viene esplicitata nelle righe finali dell’articolo, in cui il ministro è definito il «diplomatico della Resistenza». Dal 2016, Hossein Amir-Abdollahian è Segretario generale della “Conferenza internazionale a sostegno dell’Intifada palestinese”, ha stretto buoni rapporti, «sia a livello personale che politico», con i leader di Hezbollah, Hamas e il Jihad islamico in Palestina, e «ha svolto un notevole ruolo di coordinamento tra queste forze dopo l’operazione “Diluvio di al-Aqsa”, compiendo diversi viaggi diplomatici nei Paesi devoti all’“asse della Resistenza”, come l’Iraq, la Siria e il Libano».

 

Proprio in virtù dei rapporti che legano l’Iran a questi Paesi, il Libano e la Siria hanno annunciato tre giorni di lutto per la morte di Raisi. Questa scelta istituzionale non ha però impedito ai quotidiani locali di muovere delle critiche contro Teheran. Sul sito d’informazione Asas Media, il giornalista libanese Khairallah Khairallah paragona l’Iran, il cui regime ha già annunciato le prossime elezioni – «perché nella Repubblica islamica non è accettabile che ci sia un vuoto, a qualsiasi livello» – al Libano e all’Iraq, dove invece, anche per colpa del regime iraniano, i vuoti politici durano mesi o anni. Dal punto di vista iraniano, scrive l’editorialista, «eleggere un Presidente della Repubblica in Libano non è importante, visto che questo dovrebbe essere un cristiano maronita, così come sembra necessario mantenere vacante la posizione del presidente del Parlamento in Iraq, visto che spetterebbe ai sunniti». L’idea di fondo portata avanti da Teheran, prosegue l’editoriale, è abolire i sunniti dall’equazione irachena e i cristiani dalla scena libanese, secondo logiche confessionali che vogliono la preminenza sciita.

 

L’altra grande preoccupazione libanese è il destino del Paese dei cedri qualora emergesse un coinvolgimento israeliano nella morte di Raisi. Ieri, su al-Nahar, Ali Hamade scriveva che se questa seppur remota possibilità dovesse materializzarsi per il Libano «le conseguenze sarebbero disastrose», Hezbollah sarebbe chiamato a intervenire e tutta la regione potrebbe essere trascinata in un grande conflitto. Il Libano, «come le altre arene regionali di cui l’Iran ha assunto il controllo, è una piattaforma molto sensibile e pericolosa».

 

Quella di Raisi, tuttavia, non è l’unica successione a preoccupare il mondo islamico. Nei prossimi mesi l’Ayatollah al-Sistani compirà 94 anni e molti da tempo si domandano se le sue idee saranno portate avanti da un erede, o se invece gli sciiti iracheni finiranno per cadere definitivamente sotto l’influenza della Guida suprema iraniana. «La posizione di Sistani, per il quale i religiosi non dovrebbero avere alcun ruolo di governo, è in netta contrapposizione con la visione dell’Iran», oltre il fatto che da anni «il seminario (hawza) di Najaf e il regime iraniano si contendono i cuori e le menti degli sciiti», scrive Sajad Jiyad commentando la storica rivalità tra le due città sante di Najaf e Qom. Autore del libro God’s Man in Iraq: The Life and Leadership of Grand Ayatollah Ali al-Sistani, Jiyad prevede che un vero erede di Sistani non ci sarà, ma il suo «modello» rimarrà una guida per i futuri chierici di Najaf.

 

L’incriminazione di Netanyahu, un «bicchiere mezzo pieno» [a cura di Mauro Primavera]

 

Come era prevedibile, la stampa araba di proprietà qatariota, tradizionalmente sensibile alla causa palestinese, ha espresso soddisfazione di fronte alla richiesta di arresto del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro della difesa Gallant presentata dal procuratore capo della Corte Penale Internazionale Karim Khan. «Il mandato di arresto – scrive il giornalista palestinese Suheil Kiwan su al-Quds al-‘Arabi – è un colpo duro e significativo, nonostante i tentativi di sminuirlo. È indice del radicale cambiamento internazionale nei confronti di Israele, che non è più una entità al di sopra del diritto. Esso indica la capacità di combattere il terrorismo e i criminali di guerra: non importa quanto tempo ci vorrà, ma si tratta del segno che il mondo può ritrovare il suo equilibrio e la sua umanità dopo una lunga e costosissima assenza, il cui prezzo è stato pagato dal popolo palestinese». In un altro articolo del quotidiano, l’isolamento internazionale di Netanyahu viene accostato a quello di Bashar Assad. Entrambi sono accusati di aver compiuto gravi massacri, quello che cambia è lo stile: il premier israeliano prosegue con la sua violenta retorica, mentre il presidente siriano ha scelto la via del silenzio, pur di farsi invitare ai consessi regionali e di mantenere un minimo di relazioni con i Paesi confinanti.  

 

Sulla stessa linea al-‘Arabi al-Jadid che, però, sembra non gradire la decisione di Khan di chiedere un mandato di arresto anche per di Yahya Sinwar, leader di Hamas: «Khan, con la sua dichiarazione “combinata”, cioè volta a scontentare entrambe le parti, voleva mostrarsi come un pubblico ministero neutrale, onesto e imparziale». Ad ogni modo, «occorre guardare il bicchiere mezzo pieno» e considerare che la sua decisione potrebbe segnare «la fine dell’impunità di Israele» come recita il titolo dell’articolo. «Nonostante l’importanza di questo passo – si legge in conclusione – esso rimarrà incompleto finché non verranno compiuti ulteriori passi sul proseguimento delle indagini di tutti i crimini che dal 7 ottobre sono stati commessi e che vengono perpetrati quotidianamente a Gaza e in Cisgiordania».

 

Ancora più critico l’editoriale della testata filo-islamista ‘Arabi 21: «è chiaro che l’ordine del procuratore è giunto molto in ritardo. C’erano anche crimini precedenti al 7 ottobre, come gli insediamenti dei coloni. Se il procuratore generale avesse avviato un procedimento, avrebbe fatto la differenza, così come è sembrato preoccupato di richiedere l'emissione di un mandato di arresto per entrambe le parti, in modo da apparire equilibrato e da ridurre l’entità dell’attacco da parte di Israele e dei suoi alleati. Ma come avrebbe potuto farlo!»

 

Severo anche il commento apparso sul quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat a firma della giornalista libanese Susan al-Abtah. La richiesta del procuratore non ha portato Netanyahu e Gallant «a ripensare le loro folli strategie, al contrario, li ha spinti a perseverare nel crimine e a continuare gli attacchi». In questo modo, lo Stato ebraico «perde i suoi amici più cari: il presidente francese Macron, da strenuo difensore che voleva creare una coalizione internazionale sulla base di quella anti-Isis, è diventato un amico messo in imbarazzo dalle azioni di Israele, costretto a chiedere di rispettare il diritto internazionale […]. Israele è diventato nemico di sé stesso: rifiuta qualsiasi soluzione, se non continuare a colpire e a massacrare». 

 

Il quotidiano panarabo filo-emiratino al-‘Arab si limita a riportare la notizia («Netanyahu, Gallant, Sinwar e Hanyeh nello stesso capo d’accusa») senza fornire alcun tipo di giudizio. Al contrario, il giornale continua a screditare l’Autorità Palestinese di Abu Mazen, che non solo si sta trasformando in una tecnocrazia priva di visione politica, ma rischia di venire utilizzata dagli americani come un «apparato di sicurezza» alle dipendenze di Israele.

 

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