Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:48:22
La stampa araba ha commentato in maniera positiva, seppur con contenuto entusiasmo, la sentenza emessa dalla corte dell’Aja che riconosce alcuni capi di imputazione presentati dal Sudafrica. “La giustizia internazionale rende giustizia a Gaza”, titola il quotidiano di proprietà qatariota al-‘Arabi al-Jadid – anche se in un altro articolo lamenta la mancata prescrizione di un cessate il fuoco – aggiungendo una vignetta che raffigura un carrarmato israeliano ammaccato dal martelletto della Corte. L’articolo, scritto dalla giurista tunisina Najiba Ben Hassine, elogia l’iniziativa del Sudafrica per aver portato l’«entità sionista» al banco degli imputati, così come apprezza un verdetto che, anche se «rimarrà lettera morta», ha fatto ritornare «la speranza e la fiducia che esiste una giustizia internazionale al servizio degli oppressi e che condanna i colpevoli», oltre a costituire un precedente giurisprudenziale. E, stante il rifiuto di Israele e dei suoi alleati occidentali di rispettare la sentenza, l’articolo conclude con toni molto minacciosi: «il popolo palestinese non si aspetta un atto di grazia o un favore da Israele e dal suo compagno americano. Perché i diritti non si ottengono, ma si prendono o con la forza della coercizione, o con la forza del diritto, o con la forza delle armi o con la mobilitazione dei sostenitori». Dello stesso avviso anche al-Quds al-‘Arabi, che sottolinea come il pronunciamento di un organo internazionale possa evitare l’approfondirsi della frattura tra Occidente e mondo arabo-musulmano. Ciononostante, la situazione rimane disperata, nel vero senso della parola: non esiste infatti «alcuna speranza» per il raggiungimento di una soluzione pacifica alla questione palestinese, perché Israele, anzi «l’occupazione» israeliana, «comprende solo il linguaggio della forza». Per non parlare del non-ruolo dei governi arabi, che «non affrontano in nessun modo la Questione e non sono disposti nemmeno a ritirare un ambasciatore, figurarsi rompere le relazioni diplomatiche».
Il quotidiano panarabo filo-emiratino al-‘Arab, invece, tratta molto poco la notizia e la commenta in maniera diametralmente opposta: il contenuto dell’ordinanza è soddisfacente, ma più per Israele che per gli abitanti di Gaza, in quanto «pone fine alle speranze dei palestinesi di arrivare a un cessate il fuoco». In un editoriale del giornale, Khayrallah Khayrallah sottolinea che il pronunciamento ha sì riconosciuto l’esistenza di alcune prove della colpevolezza di Israele nell’assedio di Gaza, ma è altrettanto vero che il Tribunale ha ricordato che è stata Hamas ad iniziare la guerra; occorre, quindi, creare un nuovo soggetto politico palestinese credibile, lontano tanto dalle posizioni di Hamas quanto da quelle dell’Autorità Nazionale. Più netto il giudizio dell’emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya: la testata, pur tenendosi equidistante dai toni dei fronti pro e anti-Israele, riconosce che la l’ordinanza rappresenta una vittoria «politica, diplomatica, legale e giurisprudenziale per la Palestina». Al-Sharq al-Awsat, di proprietà saudita, condivide il verdetto dell’Aja e critica l’atteggiamento del governo di Netanyahu e della destra – «non condiviso da tutti gli israeliani» precisa il giornale – che soffiano sul fuoco dell’estremismo ebraico, non tengono conto del diritto internazionale e, puntualmente, buttano i piani di pace e il dialogo «nella palude politica di Kissinger», svuotandoli del loro significato originale. In un altro articolo, il giornale ribalta il punto di vista di al-Quds al-‘Arabi e sottolinea il ruolo cruciale che i Paesi arabi devono assumersi in un contesto estremamente critico come quello mediorientale. Con Israele impegnato nella distruzione di Gaza, l’Iran che muove i fili dell’Asse della Resistenza e l’Occidente debole e inerme, i Paesi arabi sono chiamati a riprendere l’iniziativa: «dopo il vertice arabo-islamico di Riyad le loro priorità e posizioni si sono intrecciate, i loro interessi nazionali si sono sovrapposti, creando una complessa intelaiatura rafforzata dalla redistribuzione dei ruoli. E nonostante le divergenze in ambito politico, la diplomazia araba ha ripreso l’iniziativa per diventare il “passaggio obbligato” per tutte le questioni regionali». Sulla stessa linea di pensiero anche Asas Media, che vede nelle ingerenze dell’Iran e dei movimenti religiosi il principale ostacolo alla realizzazione del progetto statuale palestinese: «la Palestina ha bisogno di ritornare araba. Ci deve essere un’iniziativa araba che deve essere posta durante gli appuntamenti internazionali […]. C’è un popolo che attende di fondare un proprio Stato nazionale scevro da qualsiasi legame con l’Islam politico. La guerra di Gaza non è una soluzione, ma piuttosto una nuova pagina che si aggiunge ai conflitti precedenti». In un altro articolo, la testata digitale libanese punta il dito contro le prediche del venerdì che, specialmente in Libano, hanno politicizzato il messaggio di versetti coranici e hadith giustificando, e talvolta celebrando, l’operazione terroristica “Diluvio di al-Aqsa”: «il sermone del venerdì si contraddistingue per la sua vena polemica, carica di accuse e rimproveri» che spesso, però, scade nell’insulto e nel cattivo gusto. Espressioni del genere, sostiene l’autore, hanno l’unico effetto di propagare tra i fedeli ignoranza e disinformazione.
Infine, la stampa araba è unanime nel condannare la decisione degli Stati Uniti e di altri Paesi occidentali di sospendere i fondi destinati all’UNRWA, l’“Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente”. Basta una vignetta per illustrare il parere di al-‘Arabi al-Jadid, così come una frase per chiarire il pensiero di al-‘Arab: «è superfluo dire che gli Stati Uniti e i Paesi occidentali, adottando una posizione vergognosa, immorale e disumana, seguono la via tracciata da Israele, che uccide i palestinesi giorno e notte».
Sudan: «l’altra guerra genocida» [a cura di Chiara Pellegrino]
Il conflitto in Sudan è tornato a occupare le prime pagine dei quotidiani arabi, dopo che per alcuni mesi la vicenda era stata offuscata quasi completamente dalla guerra a Gaza. Su al-Quds al-‘Arabi il politologo libanese Gilbert Achcar denuncia l’indifferenza collettiva verso una guerra che ha prodotto oltre 10 milioni di profughi e una grave crisi umanitaria per 25 milioni di persone. Ma questo non sembra riscuotere l’interesse né della stampa internazionale, né di quella araba, scrive Achcar, denunciando «la nuova guerra di sterminio» lanciata nel Darfur dalle Forze di Supporto Rapido guidate da Abdul Rahim Hamdan Dagalo e invitando i lettori a non dimenticare quanto accade in Sudan «mentre insistiamo a denunciare l’aggressione sionista a Gaza e a chiederne la fine immediata». L’editoriale offre inoltre una breve sintesi della situazione sul campo: le FSR controllano la maggior parte delle province del Darfur e le città più importanti della regione, e «hanno reclutato gli arabi della regione su base etnica per condurre una guerra genocida contro il popolo di etnia Masalit». Complici il sostegno di gruppi armati e potenze straniere, oggi le Forze di Supporto Rapido sono più forti che mai. Rispetto al passato, possiedono armi di gran lunga superiori in termini quantitativi e qualitativi, riescono a reclutare più uomini e a comprare la lealtà di un numero maggiore di tribù. Da un lato, spiega Achcar, Dagalo è diventato più ricco sfruttando le miniere d’oro di cui si è impossessato grazie al sostegno della Wagner russa, dall’altro le FSR vengono foraggiate dagli Emirati, che fanno arrivare loro armi e denaro attraverso il Ciad e la Libia. «Non sorprende, conclude l’editorialista, che il Paese arabo coinvolto nel sostegno alla guerra di sterminio in corso in Sudan sia quello con i legami più stretti con lo Stato sionista, che sta a sua volta conducendo la guerra di sterminio a Gaza».
Su al-Sharq al-Awsat il giornalista sudanese Osman Mirghani richiama l’attenzione «su uno dei capitoli più tragici e oscuri della guerra in Sudan: gli abusi e le violenze sessuali sulle donne», un problema già documentato nei mesi scorsi e balzato nuovamente alle cronache recentemente, dopo che è stato diffuso un audio in cui un uomo racconta di aver visto alcune ragazze in vendita in un mercato ad al-Fashir, nel Darfur settentrionale. Queste giovani donne, spiega Mirghani, vengono rapite in Sudan, a Khartoum soprattutto, e portate nel Darfur, dove sono ridotte alla schiavitù sessuale, vendute, o restituite alle famiglie in cambio del pagamento di un riscatto. Obiettivo dichiarato dell’editorialista è sensibilizzare la comunità internazionale sul tema e mobilitare le organizzazioni che possono fornire un adeguato sostegno psicologico e medico alle vittime e alle loro famiglie.
Al-‘Arab, quotidiano panarabo vicino alle posizioni emiratine, e la rivista saudita al-Majallah si concentrano invece sugli aspetti politici del conflitto. La seconda apre con una domanda: i colloqui di Manama apriranno la strada alla fine della guerra? Naufragati gli sforzi di mediazione dell’IGAD (Sud Sudan, Kenya, Etiopia, Gibuti), che non sono riusciti a mediare il cessate il fuoco tra l’esercito sudanese e le Forze di Supporto Rapido, il Sudan ripone ora le sue speranze nel percorso negoziale iniziato nella capitale del Bahrein. Questa avrebbe infatti ospitato alcuni incontri segreti tra i rappresentanti dell’esercito sudanese e i leader delle FSR, con il beneplacito di cinque Paesi arabi: l’Egitto, gli Emirati, l’Arabia Saudita, il Qatar e ovviamente il Bahrein. Obbiettivo di questo percorso negoziale è il cessate il fuoco e l’individuazione di meccanismi e attori che possano vigilare sul rispetto degli accordi superando il problema che si è verificato in passato con la continua violazione delle tregue. A seguire, l’accordo vero e proprio sulla cessazione delle ostilità dovrebbe essere firmato a Jeddah. L’auspicio dell’autore dell’articolo, il quale ha lavorato nel gabinetto dell’ex-primo ministro sudanese Abdallah Hamdok, è che «si possa riprendere il percorso per realizzare gli obiettivi della rivoluzione di dicembre 2018, che ha rovesciato la dittatura del regime di Bashir. L’esercito sudanese necessità di una riforma globale e radicale, che ne ripristini l’efficacia e la professionalità lontano dal campo della politica».
Su al-‘Arab Muhammad Abu Fadhl esamina l’evoluzione della posizione del Cairo rispetto al conflitto sudanese. Il giornalista egiziano nota «un cambiamento nel discorso, negli orientamenti e nel comportamento» del governo, che sostanzialmente si traduce in una «diminuzione delle critiche rivolte alle Forze di Supporto Rapido da parte di molti media [egiziani], a cui corrisponde un numero maggiore di attacchi lanciati ai Fratelli musulmani sudanesi, accusati di essere responsabili di alcuni fallimenti sul campo dell’esercito nazionale». Un segnale di questo cambio di rotta sarebbe arrivato dall’incontro ospitato al Cairo giovedì scorso, a cui hanno partecipato i rappresentanti delle FSR e di altre milizie armate, ma non le forze dell’esercito capitanate da al-Burhan. Un segnale del congelamento dei rapporti tra il Cairo e l’esercito sudanese? Forse, spiega Abu Fadhl, dovuto probabilmente ai legami tra le forze di al-Burhan e i Fratelli musulmani sudanesi. E anche gli incontri avvenuti a Manama tra rappresentanti dell’esercito e delle FSR, patrocinati dall’Egitto e dagli Emirati, sarebbero indicativi del fatto che la «propensione del Cairo a stare dalla parte dell’esercito ha cominciato a venir meno». Abbandonati gli orientamenti del passato, l’Egitto pare aver adottato un approccio nuovo alla questione sudanese, che l’editorialista definisce «realista». Questa valutazione positiva compare, non a caso, su un quotidiano ostile alle forze islamiste ed allineato alle posizioni dei principali sostenitori delle FSR: gli Emirati Arabi Uniti.
Questo cambio di prospettiva è stata commentato anche da Sarkis Naoum sul quotidiano libanese al-Nahar, che ha titolato “L’Iran con l’esercito sudanese, l’Egitto e il Golfo con il Supporto Rapido”. Teheran starebbe infatti vendendo ad al-Burhan droni da combattimento nel tentativo di «ristabilire rapporti con il governo sudanese, “dormienti” dal 2015, per avere la preminenza sui rivali arabi nel Golfo». Prima del 2015, infatti, l’Iran aveva relazioni strette con il Sudan di Omar al-Bashir, spiega Naoum. L’epoca post-Bashir ha segnato un declino dell’influenza iraniana nell’area, che Teheran sta cercando di riconquistare.
Oltre che per la sua politica estera, l’Egitto è stato al centro di alcuni editoriali, comparsi soprattutto sulla stampa emiratina e filo-emiratina, per lo stato della sua economia. Nelle ultime settimane la valuta egiziana ha infatti subito un’ulteriore svalutazione. Sul quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariya, il politologo egiziano Nasr Mohammad Arif spiega che cosa, secondo lui, impedisce la rinascita economica del suo Paese. «La crisi è morale prima ancora che economica». Antica quanto il mondo, la sfida morale è alla base di tutte le crisi che affliggono le società, spiega l’editorialista citando la teoria di Ibn Khaldun – lo storico nordafricano del XIV secolo –, che ha collegato i valori e l’etica della società alla prosperità economica e alla stabilità politica, ritenendoli i soli fattori capaci di determinare il destino di un Paese: «Una società nobile d’animo, onesta, leale, coraggiosa, pronta al sacrificio per il bene degli altri è una società capace di creare uno Stato giovane e prospero, e di preservare la propria esistenza e il benessere del proprio popolo, contrariamente a una società in cui prevalgono la dilapidazione, l’egoismo, la pigrizia, l’indolenza, e in cui dominano le passioni, lo sfruttamento e la corruzione. Questa è una società che rischia il collasso». Facendo propria questa teoria, l’editorialista dà un giudizio severo: «Allo stato attuale i valori e la morale della società egiziana non consentono l’avvio di un vero rinascimento economico; è una società che perlopiù non crede nel bene comune e in cui il concetto di interesse pubblico è assente». L’Egitto ha bisogno di una «rivoluzione morale» a cui tutti devono lavorare: la scuola, l’università, i media, i religiosi. Uscendo dai massimi sistemi, Mohammad Arif conclude con un’invettiva contro tre categorie professionali: i commercianti, gli importatori e gli imprenditori, definiti a più riprese persone avide e spregiudicate, disposte a tutto pur di guadagnare sulla pelle degli egiziani indigenti.
Anche Al-‘Arab insiste sulle criticità egiziane, riportando i timori dell’opposizione, che guarda con sospetto alla decisione del governo di limitare la seconda fase del dialogo nazionale alla sola discussione degli aspetti economici, escludendo completamente dal dibattito la questione delle riforme politiche (al vaglio c’erano la modifica della legge elettorale, la detenzione preventiva e il rilascio dei prigionieri di coscienza). Questo, scrive Ahmad Bahaeddin Shaaban, già membro negli anni 2000 del “Movimento egiziano per il cambiamento” noto come Kifaya, è l’atteggiamento di chi vuole condurre il dialogo in maniera funzionale ai propri scopi e insiste sulla necessità di focalizzarsi sulle questioni economiche per sottrarsi alle proprie responsabilità politiche.