Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 06/09/2024 16:24:52

Il giudizio della stampa araba sulla vasta operazione militare avviata da Israele nei territori della Cisgiordania è di aperta condanna, anche se permangono le consuete sfumature di toni e le vedute divergenti. Per le testate di area filo-qatariota, essa rappresenta di fatto l’ennesimo crimine perpetrato dallo Stato ebraico. Al-‘Arabi al-Jadid se la prende con una parte della politica palestinese, in particolar modo l’OLP: «ad eccezione del gruppo della Resistenza nella Striscia di Gaza, che porta  la fiaccola da più di due decenni, non notiamo alcuna azione politica palestinese collettiva che esprima una soggettività politica palestinese» o, per dirla con parole più semplici, un «qualcosa che trasformi quest’ultima da essenza astratta a forza storica che definisca il suo percorso e il suo destino […]. La frammentazione della volontà politica palestinese non è figlia di questo momento, anzi le sue manifestazioni più chiare sono divenute evidenti sin dalla fine della prima intifada e dagli accordi firmati in seguito con l’Entità sionista. Da quel momento in poi, diversi eventi hanno contribuito ad approfondire questa frattura e a consolidarla, in quanto abbiamo “entità” politiche multiple tra cui non vi è alcun filo di collegamento». La vignetta che accompagna il pezzo rafforza il concetto: l’asta che regge la bandiera palestinese, simbolo dell’unità politica, viene spezzata in tante piccole parti, da cui spuntano altrettanti drappi.

 

Sulla stessa testata, il politico palestinese Fayz Abu Shamala si scaglia contro il processo di pace israelo-palestinese iniziato con gli Accordi di Oslo: «…sì, in un momento di disattenzione noi palestinesi abbiamo consegnato le nostre armi e con le nostre mani le abbiamo date al nostro nemico. Di fronte ai media locali e internazionali abbiamo detto che non avremmo combattuto più, che non ci saremmo rifugiati nella violenza e che avremmo dato l’addio alle armi, perché noi amiamo la pace. Tutto ciò accadde nel settembre del 1993, alla vigilia della firma degli accordi di Oslo tra l’OLP e lo Stato dell’occupazione». Secondo Abu Shamala, inoltre, la decisione di Abu Mazen di porre fine alla seconda Intifada, cessare la resistenza armata e riprendere i colloqui di pace si rivelò a tutti gli effetti un errore: Israele non rispettò mai i termini di pace, «obbligando il popolo palestinese a imbracciare di nuovo le armi». Su al-Quds al-‘Arabi, il ricercatore palestinese ed ex funzionario dell’UNRWA Ahmed Oueidat bolla l’operazione come il tentativo di riapplicare il progetto colonialista sionista e denuncia il clima di indifferenza del mondo arabo e della comunità internazionale: «tutto ciò accade nel silenzio arabo, islamico e internazionale in merito a quello che sta succedendo a Gaza; ciò ha incoraggiato Netanyahu e il suo gabinetto a portare la loro guerra in Cisgiordania, mostrando la violazione da parte di “Israele” di tutte le norme, accordi e convenzioni internazionali». Molto caustico l’editoriale del giornalista turco Turan Kışlakçı, che sempre su al-Quds ringrazia sarcasticamente il premier israeliano: «Grazie a te (shukran lak), Netanyahu, perché ci hai mostrato la vera forza che si cela dietro alla guerra a Gaza: gli Stati Uniti d’America, scoprendo che i Paesi arabi e islamici si piegano alla custodia americana e svelando che le organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica hanno le mani legate».

 

Opposta la visione del quotidiano panarabo di proprietà emiratina al-‘Arab che non vede gli accordi di Oslo come l’origine di tutti i mali, affermando anzi il contrario: «quando ti danno l’etichetta di sostenitore degli accordi di Oslo – nota il giornalista palestinese Ous Abu al-‘Ata – vieni preso a male parole e vieni disprezzato, come se avessi commesso un peccato capitale che ti tocca espiare. Eppure, gli Accordi di Oslo, in tutta la loro semplicità e chiarezza, sono l’intelligenza e la realpolitik per antonomasia», soprattutto ora che ci si è resi conto dell’impossibilità di poter liberare la Palestina «con la forza rivoluzionaria». L’editorialista libanese Khayrallah Khayrallah riconosce invece le difficoltà (e le colpe) dell’OLP: «è chiaro che l’Autorità Palestinese è in una strettoia» a causa delle parole pronunciate da Abu Mazen. Questi, «riprendendo conoscenza» nel momento meno opportuno, ha infatti sottolineato la «necessità di far tornare l’OLP a Gaza 19 anni dopo il ritiro delle truppe israeliane». Questa «ripresa di conoscenza non ha alcun senso» se non quello di mostrare il «fallimento a tutti i livelli», in particolar modo «l’incapacità di esercitare qualsiasi pressione su Israele per fermare la guerra».   

 

Per Hamid Qurman, invece, alla minaccia israeliana va aggiunta anche quella iraniana. «La Cisgiordania è tra il martello israeliano e l’incudine iraniana», titola il giornalista, anche se invita a distinguere tra la situazione presente nella Striscia di Gaza e quella in Cisgiordania, dove la preoccupazione per l’influenza di Teheran sarebbe, a suo dire, esagerata: «dopo il prolungarsi dell’attesa per la risposta iraniana, che non arriverà, e il continuo fallimento di Hamas nel trovare alternative politiche e militari per imporre la sua visione nella battaglia negoziale, la destra israeliana sta compiendo devastazioni in maniera unilaterale e senza freni, allo scopo di determinare il futuro della regione» in attesa dell’arrivo di Donald Trump. Non solo: «oggi Israele promuove la narrazione della longa manus iraniana in Cisgiordania, attraverso cellule dormienti legate ad Hamas e al Jihad Islamico […] al fine di essere un’alternativa nel caso non vi siano alternative all’Asse» della Resistenza. Infatti, «così come il disastroso 7 Ottobre è stato amplificato e usato per la guerra genocidaria, che non è ancora terminata, così oggi si amplifica la presenza iraniana e le sue cellule in Cisgiordania, per giustificare il terrorismo che si verificherà nei prossimi giorni». Il giornale di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat ribadisce il concetto: anche se «il ruolo iraniano, la sua agenda e le sue propaggini nella regione sono innegabili», lo spauracchio costruito da Netanyahu per giustificare la sua operazione militare in Cisgiordania appare inverosimile: «il mondo non ha preso sul serio il suo racconto, perché la sua era una copertura debole e artefatta».  

 

Sudan: la Guerra dei Cent’anni [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Nelle ultime settimane la stampa araba ha dedicato un’attenzione speciale al Sudan, dove da più di un anno è in corso una guerra civile. I colloqui di pace, tenutisi il 14 agosto scorso a Ginevra, promossi dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita, si sono conclusi con un nulla di fatto. Un epilogo abbastanza prevedibile, considerato che una delle due parti coinvolte nel conflitto, il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo dell’Esercito sudanese, non ha voluto prendervi parte. Per di più, al termine dell’incontro, al-Burhan ha citato la Guerra dei Cent’anni, dichiarando che avrebbe combattuto le Forze di Supporto Rapido per il secolo a venire. Questo riferimento alla storia europea ha colpito molto i giornalisti arabi, che l’hanno commentato su diverse testate

 

L’affermazione di Burhan ha delle implicazioni politiche, scrive sul quotidiano filo-emiratino al-Arab il giornalista egiziano Mohamed Abu al-Fadl. Nella fattispecie è indice «della crescente forza acquisita dalla corrente islamista all’interno dell’esercito». Questa avrebbe influenzato il generale, il quale «va ripetendo queste dichiarazioni per infondere speranza e giustificare la mancata risposta ai negoziati». Secondo l’analisi dell’editorialista, «il ricorso alla retorica e alle scommesse sul futuro» cresce in maniera direttamente proporzionale al fallimento dei negoziati e alle sconfitte subite sul campo, ed è un’abitudine che deriva «da un discorso islamico i cui fautori sono certi della vittoria finale, a prescindere dalle cause che conducono ad essa». Il discorso di Burhan sulla continuazione della guerra a prescindere dai costi materiali e umani che questa implica è coerente con la situazione sul campo – «le sconfitte aumentano, il morale dei soldati crolla, i comandanti non hanno più soluzioni terrene e dunque ricorrono a soluzioni celesti per salvarsi. Questo è un problema che si diffonde rapidamente tra le fila degli eserciti che hanno una dottrina di combattimento religiosa».

 

Sul al-‘Arabi al-Jadid, l’ex portavoce della missione congiunta dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite in Darfur, Aicha Elbasri, ritiene responsabile del fallimento dei negoziati l’Esercito sudanese, il cui unico vero slogan, dopo che il suo leader «ha minacciato una Guerra dei Cent’anni con 48 milioni di “martiri”», non è più «un esercito, un popolo», ma è diventato di fatto «dopo di me il diluvio». Elbasri accusa Burhan di aver ostacolato il processo di pace rifiutandosi di partecipare ai colloqui svizzeri. E spiega che la ragione di questo rifiuto è la richiesta di Washington «di inviare a Ginevra una delegazione dell’esercito anziché del governo, sapendo che l’amministrazione americana non riconosce il governo sudanese dopo il colpo di Stato dell’esercito a danno del governo civile il 25 ottobre 2021». 

 

Sullo stesso quotidiano, il giornalista filo-islamista Mamdouh Sheikh attribuisce invece la responsabilità «dell’orribile tragedia umana» che si sta consumando in Sudan alle potenze regionali, «che collegano la stabilità regionale allo “sterminio degli islamisti”» e offrono il loro sostegno «ai laici arabi estremisti», i quali condividono con Netanyahu l’idea per cui il conflitto – sudanese, in questo caso – sia «uno scontro tra civiltà e barbarie». Le guerre lunghe sono una caratteristica dell’Occidente, commenta l’editorialista, e il fatto che un generale arabo parli della Guerra dei Cent’anni riferendosi al conflitto in cui è coinvolto personalmente significa che «l’epidemia di eurocentrismo ha diffuso la sua infezione dai circoli dell’élite culturale alle politiche di alcuni Paesi. Ciò avviene perché la storia è un percorso lineare in cui l’Occidente ci precede e noi lo seguiamo». Sheikh lamenta il fatto che gli islamisti siano spesso considerati l’origine di ogni male, «il principale ostacolo al futuro» e l’idea per cui «una volta sterminati, il mondo arabo possa passare dal Medioevo all’epoca moderna, e attraverso la loro uccisione diventare un popolo pio e rispettato», sulla scia del versetto coranico che recita: «Uccidete Giuseppe, o scacciatelo in una terra lontana, e allora gli sguardi di vostro padre saran solo per voi e gli succederete, gente pia e rispettata, alla sua morte».

 

Attacchi agli islamisti che arrivano puntuali su al-‘Arab, testata notoriamente ostile all’islam politico, nell’editoriale firmato da Abdel Mohimmat, giornalista sudanese residente negli Emirati (Paese che sostiene le FSR contro Burhan). L’editorialista accusa i Fratelli musulmani sudanesi di «sfruttare la religione per consolidare il loro potere nel Paese». L’islam, scrive, «è un elemento centrale nel pensiero politico del governo Burhan [...]. La religione viene utilizzata non solo come strumento per catalizzare il sostegno popolare, ma anche come mezzo per giustificare politiche e pratiche governative potenzialmente controverse». Un esempio su tutti è la fatwa che autorizza il bombardamento dei civili qualora le Forze di Supporto Rapido dovessero utilizzare come rifugio le zone residenziali. L’uso dell’islam è inteso anche per «promuovere la stabilità interna, cercando di catalizzare il consenso tra il governo e le persone che condividono la stessa ideologia» e rafforzare la legittimità del governo – «facendo riferimento ai principi islamici e promuovendo l’adesione alla religione, il governo cerca di radicare la propria autorità in modo coerente con i valori religiosi del popolo sudanese». Il sostegno degli sheikh in questo contesto è fondamentale, continua l’editoriale, perché «rafforza l’immagine pubblica del governo come protettore dei valori religiosi». Infine, la strumentalizzazione dell’islam è funzionale alla gestione dei conflitti esterni conclude il giornalista: «Sottolineando la dimensione religiosa dei conflitti con Stati o potenze esterne, un governo può rafforzare la propria posizione interna e sostenere le proprie strategie diplomatiche e militari. In questo caso la religione viene utilizzata come mezzo per giustificare la politica estera e confermare il Sudan come potenza che adotta i valori islamici nell’affrontare le sfide internazionali».

 

Su al-Quds al-‘Arabi lo scrittore e attivista sudanese Elshafie Khidir solleva l’attenzione sull’emergenza umanitaria che vive il suo Paese ormai da diversi mesi. La situazione è particolarmente grave nella città di Al-Fashir, capitale storica del Darfur, che conta più di un milione e mezzo di abitanti. Ultima roccaforte delle forze armate sudanesi nel Darfur, questa città è sotto continuo bombardamento delle FSR, che da diversi mesi l’hanno cinta d’assedio. Con conseguenze nefaste per le 800.000 persone in fuga dalla guerra che vivono nei tre campi profughi della città, spiega Khidir. Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedevano di liberare al-Fashir sono cadute nel vuoto, lasciando spazio all’iniziativa di Abdul Wahid Mohamed Nur, capo del Movimento di Liberazione del Sudan, che ha lanciato un appello firmato da centinaia di persone (tra cui l’editorialista), in cui si chiedeva all’Esercito sudanese e alle FSR di rispettare i principi del diritto internazionale umanitario e garantire i diritti dei civili. 

 

Tunisia: «il dittatore è nudo» [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Il prossimo 6 ottobre in Tunisia si terranno le elezioni presidenziali. Parte della stampa panaraba da anni denuncia la deriva autoritaria del presidente Kais Saied e anche quest’ultima settimana l’ha accusato di «tenersi aggrappato al potere a qualsiasi costo». Su al-Quds al-‘Arabi, l’anchorman di al-Jazeera Mhamed Krichen parla di un «ennesimo colpo di Stato» commesso dall’Alta Commissione elettorale indipendente, che ha rifiutato di riammettere alla corsa elettorale tre candidati inizialmente esclusi, a favore della cui reintegrazione si era però espresso il Tribunale amministrativo, l’unica autorità preposta a dirimere le controversie relative alle candidature. Il rifiuto, spiega l’editorialista, è legato al fatto che i membri della Commissione sono stati nominati direttamente da Kais Saied, contrariamente a quanto avveniva prima, quando venivano eletti dal Parlamento, e quindi fanno il gioco del presidente. La vicenda «dimostra che la lealtà della Commissione va a chi l’ha nominata e ha fatto sì che il suo presidente, Farouk Bouasker, potesse godere dei privilegi di un ministro, mentre il rispetto del primato della legge e della necessità di neutralità e indipendenza è del tutto secondario», prosegue l’editoriale.

 

Sul quotidiano londinese al-‘Arab, tradizionalmente schierato su posizioni più filo-Saied, lo scrittore e giornalista Mokhtar al-Dababi sostiene che con la sua decisione la Commissione ha fatto un favore all’opposizione più che al presidente, il quale comunque era il candidato favorito: «L’opposizione, in tutto il suo spettro – islamisti, sinistra, organizzazioni civili, giudici, avvocati e media – si è compattata contro la Commissione, senza neanche il bisogno di convocare i giornalisti». La decisione, continua l’editoriale, ha inoltre fornito a Ennahda «un’occasione d’oro per riposizionarsi sulla scena» in un momento in cui il movimento islamista era in forte difficoltà, e lo stesso è accaduto con i sindacati, scomparsi dall’orizzonte da mesi e riapparsi in questi giorni con un comunicato di denuncia della Commissione.

 

Su al-Arabi al-Jadid il giornalista marocchino Ali Anouzla definisce Saied un «dittatore fallito». «Essere un dittatore di successo non è facile, scrive l’editorialista, e chi lo è stato nella storia era un genio del suo tempo. […] I dittatori di successo sono stati capaci di costruire i loro Paesi ed elevare lo status dei loro popoli tra le nazioni», ma Saied non ha fatto nulla di tutto ciò. E «non ha trovato altro modo per restare al potere che far incarcerare i suoi rivali ed escluderli dalla corsa elettorale con accuse presunte o inventate». Al momento i candidati in lizza per la prossima tornata elettorale sono soltanto due – erano tre, ma il terzo è stato arrestato, «una sorte che potrebbe toccare anche all’unico coniglio rimasto nell’arena della competizione», prosegue l’editoriale. Le prossime presidenziali «saranno simili a un referendum generale per giurare fedeltà a Saied», commenta Anouzla, invitando i tunisini a boicottare le urne «per smascherare il dittatore». Soltanto allora «il dittatore sarà nudo, davanti al suo popolo e al mondo».

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