Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 20/09/2024 18:11:21
A seguito delle due operazioni “pager” (come anche gli arabi chiamano i cercapersone esplosi tra il 17 e il 18 settembre in Libano) compiute dall’intelligence israeliana contro Hezbollah, la stampa araba non può che rilevare il completo fallimento – securitario, ma anche ideologico – del movimento libanese, che negli ultimi mesi ha innalzato il livello di tensione con Israele. La stessa stampa di area filo-qatariota, vicina alla causa palestinese e di orientamento antisraeliano, registra il fallimento del “Partito di Dio”.
Scrive Al Jazeera: «martedì Hezbollah ha avuto la più grave falla alla sicurezza della sua storia […]. Prima che il partito scopra le cause di questa grande falla nell’intelligence, sarà suo dovere prepararsi ad affrontare gli scenari più difficili e che aveva tentato di evitare fin dall’inizio del suo coinvolgimento nella guerra». Anche al-Quds al-‘Arabi non può che ammettere il disastro: «in attesa che Hezbollah fornisca la sua versione degli eventi, l’operazione esprime un evidente fallimento della sicurezza, iniziato dalla mancanza di controlli sulla ditta taiwanese» che fabbricava gli apparecchi elettronici in dotazione ai miliziani. «L’operazione dei “pager” – si legge in un altro articolo della testata – ha fatto raggiungere a Israele diversi obiettivi, difensivi e offensivi allo stesso tempo, e rappresenta un’amara sconfitta per il Partito e per l’Asse iraniano, poiché va ad aggiungersi ad altre operazioni, come l’assassinio del capo militare Fu’ad Shukr l’uccisione di Ismail Hanyeh a Teheran», l’attacco aereo a un deposito di armi iraniano in Siria e, infine, l’attentato al consolato iraniano a Damasco. Al-‘Arabi al-Jadid si concentra appunto sull’insostenibile “silenzio” dell’Iran, che non sembra intenzionato (o forse è impossibilitato) a rispondere agli attacchi dello Stato ebraico nonostante la roboante e infiammata retorica della Repubblica Islamica. La vignetta che campeggia all’inizio dell’articolo è eloquente: un enorme e minaccioso missile terra-aria iraniano si apre come una matrioska, facendo fuoriuscire missili sempre più piccoli; dalla punta dell’ultimo spunta un misero drone che svolazza in direzione dello Stato ebraico. Il pezzo, a firma dello scrittore yemenita Ayman Nabil, non è da meno: «nel momento in cui il conflitto si avvicina, questa retorica iraniana diventa un fardello per la stessa Teheran […]. E poiché la contraddizione è la base di tutte le ironie, la prudenza iraniana appare come una presa in giro». Poco dopo arriva un violento j’accuse: «l’Iran ha inflitto sconfitte al Levante arabo; dal punto di vista umanitario e storico noi parliamo di un annientamento culturale». La domanda sorge spontanea: come è possibile che movimenti arabi come Hamas e Hezbollah si siano alleati con Teheran? «Probabilmente – sostiene Nabil – la Resistenza ha scommesso sul fatto che, aprendo la porta all’Iran (attraverso Hezbollah) quell’operazione [Diluvio di al-Aqsa] avrebbe salvato la causa palestinese dalla sua lenta morte».
Parole di ammirazione per Israele compaiono sul quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat. L’ex direttore ‘Abd al-Rahman al-Rashid propone un parallelismo storico: subito dopo la disfatta araba nella guerra dei Sei Giorni del 1967, fu chiesto al presidente egiziano Nasser di spiegare le cause della sconfitta. La sua risposta fu semplice: Israele aveva un vantaggio militare e tecnologico incolmabile. «Nasser si lamentava della superiorità israeliana cinquant’anni fa, ma questa oggi è raddoppiata […], Ciò che rende Israele così superiore è la sua attenzione nel campo tecnologico, che gli ha assicurato una serie di vittorie fino ad oggi sia in tempo di pace che di guerra». «Invece, Hezbollah e l’Iran – scrive con tono riprovatorio al-Rashid – devono la loro forza al sacrificio dei loro combattenti, al reclutamento di miliziani a basso costo da Libano, Iraq, Afghanistan e Yemen, e alla dotazione di armi che sono l’imitazione di quelle russe e cinesi. Severo anche il giudizio di al-‘Arab, di area filo-emiratina: «con questi attacchi, Hezbollah ha perso uno dei suoi punti più forti, ossia la sicurezza dei movimenti e l’incapacità da parte dei suoi miliziani e leader di operare in segreto». In un altro editoriale si legge che questa operazione «segnala un allargamento del conflitto, un’opzione che Hezbollah e l’Iran stanno cercando di evitare, ma che costringerà il primo a rispondere» dopo le rappresaglie calcolate dei mesi precedenti. Il quotidiano non perde occasione per sottolineare il grande momento di difficoltà di Hezbollah e del suo leader Hassan Nasrallah, che dopo i due attentati ha trasmesso uno dei suoi videomessaggi. Stavolta però, osserva al-‘Arab, i toni sferzanti non riescono a celare l’imbarazzo e la preoccupazione del leader: «Nasrallah appariva scosso mentre parlava alla sua folla. I tratti boriosi, che erano soliti accompagnare le sue parole, sono svaniti».
Passiamo ai giornali libanesi. Al-Akhbar, molto vicino a Hezbollah e all’Asse della Resistenza, dedica una serie di articoli al tema dal titolo “preparativi per rispondere al Nemico”. Il primo articolo denuncia il carattere “malevolo” dell’operazione, che ha coinvolto numerosi civili: «in un sol minuto, il Nemico è riuscito a infliggere il più duro dei suoi colpi al corpo della Resistenza islamica fin dall’inizio della lotta […]. Ciò che ieri il Nemico ha confermato è la sua riluttanza ad attenersi alle regole di ingaggio che vietano di avvicinarsi ai civili o a strutture urbane. Egli non distinguerà più fra un combattente al fronte e un partigiano che lavora in un ufficio lontano». Un altro intervento se la prende con la tecnologia, definita come lo strumento del colonialismo: «in un martedì pomeriggio come altri è accaduto l’inimmaginabile. Mentre centinaia di persone mettevano mano al proprio cercapersone, all’improvviso ogni dispositivo si è trasformato in una entità nemica […]. I recenti eventi in Libano, soprattutto l’attacco alla Resistenza con i dispositivi elettronici, mostrano una dimensione più profonda, che trascende il mero attacco ai membri della Resistenza. Ciononostante, l’obiettivo diretto potrebbe sembrare quello di interrompere le comunicazioni e di menomare le capacità della Resistenza sul campo di battaglia. Un’analisi più attenta, però, mette in mostra il messaggio colonizzatore, che intende confermare che le nuove tecnologie […] rimarranno sotto il suo controllo […]. In questa lotta, tutte le grandi potenze ricordano che la superiorità tecnologica deve rimanere un loro monopolio, e che ogni tentativo di superarla verrà respinto con la forza».
Di segno opposto il commento del quotidiano al-Nahar, che stigmatizza l’operato della formazione libanese sciita: «l’operazione dei cercapersone può essere inserita tra i più grandi attacchi che Israele ha inferto a Hezbollah negli ultimi quattro decenni. È stato veramente un colpo molto più che doloroso. È stato un disastro che investe il Partito su più livelli, da quello securitario e militare a quello organizzativo e sociale». Un’umiliazione del genere invita a fare un esame di coscienza e ad essere onesti intellettualmente: «ci richiede di essere sinceri e di dire ai capi di Hezbollah che è giunta l’ora di uscire da questa guerra assurda in cui si sono andati a cacciare, nonostante il parere negativo di tutti i libanesi, compresi quelli che adulavano Hezbollah. Questa non è la guerra del Libano. Esprimere solidarietà con Gaza e con le milizie che combattono nella Striscia non significa mettere il Libano sull’orlo dell’abisso per più di un anno». Quali sono allora le opzioni che ha il “partito di Dio?” Come recita il titolo del pezzo «quelle più dolci sono amare»: «o risponde in maniera adeguata all’operazione dei pager, ma così scivola rapidamente verso una guerra con Israele di ampia portata e distruttiva, oppure si accontenta di compiere una vendetta simile a quella fatta dopo l’assassinio del capo militare Fu’ad Shukr, ma così aggrava la sua crisi morale legata al contesto in cui si trova, visto che il resto del Paese è furioso per il fatto che Hezbollah si è intromesso da solo nel conflitto […]. La terza opzione è non rispondere, ma ciò sancirebbe una evidente sconfitta morale e militare che sarebbe molto difficile da accettare. In ogni caso, si tratta di scelte difficili e complicate». Su Asas Media, il giornalista libanese Khayrallah Khayrallah lancia un appello affinché si fermi l’escalation: «la grande sfida che sta di fronte al Libano e ai libanesi è quella di fermare questa guerra e togliersi dalla testa, prima che sia troppo tardi, l’idea di una vittoria immaginaria. L’unica vittoria possibile – prosegue con sarcasmo Khayrallah – è che l’Iran approfondisca ulteriormente il suo controllo sul Paese».
Elezioni in Giordania, uno tsunami islamista? [a cura di Davide Ferrazzi]
Lo scorso 10 settembre in Giordania si sono tenute le elezioni parlamentari, a seguito delle quali il Fronte di Azione Islamica, partito espressione della Fratellanza musulmana si è aggiudicato una maggioranza relativa con 31 seggi su 138 totali. Le urne sono state anche lo specchio del malcontento popolare nei confronti delle istituzioni politiche, dato che il 70% circa degli aventi diritto al voto ha optato per l’astensione.
A pochi giorni dallo spoglio, il politologo Oraib al-Rantawi celebra la vittoria del Fronte di Azione Islamica su al-Jazeera, il network di informazione qatariota notoriamente filo-islamista. Con un linguaggio espressivo ed efficace, al-Rantawi inneggia allo «tsunami» islamista, attaccando «sedicenti analisti ed esperti che dubitavano che questo risultato potesse verificarsi», ed evidenzia il nesso tra il conflitto a Gaza e l’esito elettorale: «Il partito e la Fratellanza hanno seguito la guerra israeliana contro Gaza sin dal suo primo giorno, e finanche nel momento del “silenzio elettorale”.[…]Gli islamisti hanno vinto per Gaza e per le scatole di munizioni che la Resistenza ha svuotato contro l’esercito neonazista. I giordani hanno vinto per loro alle urne». Questo marcato sentimento filopalestinese si ritrova, secondo l’editorialista, nella preferenza espressa da alcuni gruppi storicamente rivali delle fazioni islamiste, che questa volta hanno optato per un voto «a dispetto»: «Comunisti, esponenti di sinistra, liberali ed ex nazionalisti, ma anche i cristiani, i cui nobili sentimenti nazionalisti sono esplosi per l’impatto dei massacri quotidiani commessi contro il popolo della Striscia».
La rabbia riversata nelle urne per la sorte di Gaza è stata percepita anche dagli analisti ostili all’islam politico. “Il voto al ritmo del diluvio” titola, per esempio, la testata filo-emiratina Asasmedia. L’editoriale, firmato dal giornalista e commentatore politico libanese Mohamad Kawas, fa riferimento all’operazione «Diluvio di al-Aqsa» del 7 ottobre scorso, e mette in luce come «gli elettori abbiano votato per il partito che è maggiore espressione della rabbia contro le forze di occupazione israeliana», senza la quale «probabilmente non si sarebbero verificati gli stessi risultati». Secondo il giornalista, il successo del Fronte di Azione Islamica è parzialmente motivato dalle affermazioni (controverse) di alcuni esponenti politici israeliani, per i quali «la Giordania è una patria alternativa per i palestinesi, ciò che renderebbe legittimo sfollare la Cisgiordania trasferendone la popolazione verso la Transgiordania con la forza, l’uccisione e la distruzione». I cittadini giordani, molti dei quali di origine palestinese, vedono necessariamente «qualsiasi evento in Palestina come una questione familiare», riversando nelle urne tutta la loro rabbia. Kawas riconosce inoltre come il successo islamista sia frutto di un attento calcolo strategico del Fronte di Azione Islamica, che ha approfittato degli eventi per «tirare acqua al proprio mulino». Gli esponenti del Fronte, per esempio, hanno adottato il «logo triangolare, simbolo delle Brigate Izz al-Din al-Qassam» e «si sono precipitati agli accampamenti della tribù Huwaytat, nella città di Ma‘n, per rendere omaggio al suo martire Maher al-Jazi», il cittadino giordano ucciso l’8 settembre scorso dalle forze di sicurezza israeliane per aver a sua volta ucciso tre civili israeliani al confine fra Cisgiordania e Giordania. È vero però, scrive Kawas, che la percentuale degli astenuti è stata molto alta (circa il 70% degli aventi diritto al voto). La «maggioranza silenziosa», come la definisce l’editorialista, non si è recato alle urne per due ragioni: da un lato, ritiene che vi sia «uno scollamento tra le istituzioni e la realtà», dall’altro nutre «sfiducia nella possibilità di creare un parlamento che sappia essere espressione delle esigenze della popolazione».
Sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, Hamid Qurman ridimensiona la vittoria islamista e accusa «la macchina propagandistica e mediatica dei Fratelli musulmani» di aver «ingigantito la vittoria dei candidati del gruppo» presentandola come «un risultato legato a dossier regionali e internazionali, un po’ per combattere i piani del regime israeliano di destra guidato da Benjamin Netanyahu un po’per prepararsi a contrastare le pressioni americane nel caso in cui dovesse ritornare [al potere] il candidato repubblicano, l’ex Presidente Donald Trump». Da un lato, il giornalista riconosce l’abilità degli islamisti nel mobilitare i propri sostenitori «toccando la corda» dei sentimenti antisraeliani e antiamericani, dall’altro lancia un monito: «Oggi la Fratellanza ha davanti a sé un realtà piena di grandi sfide, se non le saprà affrontare bene assisterà al crollo della sua base popolare nel Regno, come è accaduto per le altre ideologie intellettuali nel Regno, che sono scomparse davanti alla forza dello Stato profondo giordano».
Di segno opposto è l’editoriale apparso su al-Quds al-‘Arabi lo scorso 12 settembre, che ha elogiato il successo di un partito ritenuto «ostile» alla monarchia come segno della stabilità politica giordana. Il fatto che i Fratelli musulmani abbiano ottenuto tutti quei seggi, nonostante si vociferasse che il governo li volesse eliminare, dimostra «l’integrità delle elezioni» e «la credibilità delle autorità giordane». Allo stesso tempo, l’editoriale critica l’ingerenza occidentale negli affari dei Paesi arabi: «Come in ogni luogo in cui si pratica la democrazia, anche nelle poche esperienze democratiche arabe l’ascesa o la caduta degli islamisti è legata ai risultati che si ottengono in Parlamento o al governo. Tuttavia, la negazione del loro diritto di esistere e le orribili ingerenze dell’Occidente, che sostiene l’ascesa dei regimi golpisti militari a danno degli islamisti, e prima di loro dei comunisti […] sono alla base della grande catastrofe che il mondo arabo sta vivendo oggi».
Più scettico è il giornalista giordano Sameh Mahariq, che sullo stesso quotidiano solleva qualche dubbio sull’effettiva capacità degli islamisti di dare risposte alle sfide della politica interna giordana. Un’ampia fetta della classe media del Paese ha perso la fiducia nelle istituzioni del Paese. Per dimostrarlo Mahariq lascia spazio alla satira riportando alcuni commenti sarcastici in cui si è imbattuto nei giorni dopo lo spoglio: «Ho dovuto dire a mia madre che non poteva più sedersi sul balcone perché i Fratelli musulmani avevano preso tutti i posti». L’ironia è segno del sentimento di sfiducia che prevale verso la politica, e lo stesso giornalista è una delle voci di questo coro: «Per ragioni storiche, io, come un ampio segmento della classe media, non ho piena fiducia nella capacità della Fratellanza di liberarsi dell’ideologia e impegnarsi nelle numerose e complesse questioni economiche e amministrative».
Paradossalmente, questo scetticismo prevale anche in alcuni articoli pubblicati su ‘Arabi21, un quotidiano notoriamente islamista. In uno di questi editoriali, Mamdouh Almonir ridimensiona la «grande vittoria islamista», ricordando che «la percentuale ottenuta dal braccio politico dei Fratelli musulmani non supera un quarto dei seggi, ciò che non consente loro di approvare o bloccare alcuna legge in Parlamento». Inoltre, «anche se la Fratellanza controllasse il 100% dei seggi in Parlamento e formasse il Governo, non potrebbe approvare una sola legge senza il consenso della seconda camera del Parlamento (il Senato), di cui il re nomina i membri». E anche volendo presumere che la Fratellanza abbia «uno strumento magico per persuadere i membri del Senato ad approvare una legge, il Re avrebbe ancora il potere di respingere la legge o richiederne la modifica». Quale futuro si prospetta allora per il Fronte di Azione Islamica? Il giornalista considera tre opzioni: fare un’opposizione di facciata, senza esercitare alcuna reale influenza sul campo; fare un’opposizione vera aprendo un confronto effettivo in Parlamento; «tenere la barra dal centro», ovvero dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte.
In morte di Elias Khoury, scrittore libanese, palestinese, siriano [a cura di Chiara Pellegrino]
La stampa araba ha celebrato il ricordo di Elias Khoury, uno dei maggiori intellettuali libanesi contemporanei, autore di sedici romanzi tradotti anche in diverse lingue occidentali, morto lo scorso 15 settembre.
Su al-Sharq al-Awsat lo scrittore libanese Samir Atallah ricorda l’ultima volta che lo vide, o meglio lo «intravvide, durante la rivoluzione del 2019 in piazza Burj, mentre cercava di scappare dai lacrimogeni di Michel Aoun» – in quella che l’editorialista definisce «una scena tipica delle storie di una piccola nazione: grandi intellettuali sotto i lacrimogeni per salvare il Libano dalla repubblica di Gebran Bassil». Atallah ricorda anche i dubbi che vennero sollevati quando Khoury assunse la direzione del supplemento letterario di al-Nahar, uno dei maggiori quotidiani libanesi, «scatenando un grande dibattito nei corridoi della letteratura: che cosa ne sarà di una pubblicazione chiaramente liberale, finita sotto l’egida di uno scrittore impegnato, incline all’opposizione?» Ma il tempo avrebbe finito per dissipare le perplessità; sotto la sua guida il supplemento ha attratto «un pubblico che amava e rispettava il nuovo scrittore, sia che concordasse con lui, sia che dissentisse». Khoury, spiega Atallah, rimase molto attivo a livello personale, e fu «un membro di spicco dell’élite dell’opposizione, tra le cui stelle spiccavano Samir Kassir, Giselle Khoury e Joseph Samaha».
Ma l’opera di Khoury non era confinata al Libano, tutt’altro. È raro, scrive il giornalista Said Abu Mualla su al-Quds al-‘Arabi, che «la scena culturale e letteraria palestinese si occupi di uno scrittore arabo come se questi fosse palestinese al cento per cento». Eppure, Khoury, «palestinese per identità e passione», c’è riuscito, come dimostrano le decine di messaggi di cordoglio da parte di intellettuali, accademici, istituzioni e associazioni culturali della Palestina. «Figlio della causa palestinese», lo definisce l’editorialista ricordandone l’attivismo da cui, peraltro, sono nati il romanzo La porta del sole e la trilogia I ragazzi del ghetto. Khoury, scrive Abu Mualla, è stato «uno dei più grandi narratori contemporanei in lingua araba», «una persona che incarnava ciò che di meglio abbiamo nel mondo arabo», un «combattente che amava ed era amato».
Anche il mondo culturale siriano ha reso omaggio all’intellettuale libanese. Sul sito indipendente al-Mudun, il poeta e regista Ali Safar celebra «Elias Khoury, il siriano», ricordando il suo impegno anche per la causa siriana. Con senso di riconoscenza, Safar ricorda quando Khoury, alla direzione del quotidiano libanese al-Safir e poi del supplemento culturale di al-Nahar, diede spazio agli intellettuali dell’opposizione siriana, incurante dell’«egemonia che il regime siriano esercitava sullo spazio pubblico libanese attraverso l’intervento militare nel Paese». «Portavoce delle voci civili democratiche del Paese», ricorda Safar, nell’ultimo anno Khoury si era schierato in difesa dei rifugiati siriani in Libano, al centro di «un’intensa campagna di demonizzazione lanciata da uno Stato in procinto di collassare», ma che anziché assumersi la responsabilità del disastro preferisce riversare tutte le colpe sui profughi. «Chi sono io?» – si domandava nel 2014 Khoury: «Un siriano, insieme al popolo sofferente, che ha deciso di affrontare da solo la tirannia e ha pagato il prezzo più alto, ha opposto resistenza a un regime che ha trasformato la barbarie in uno stile di vita. Un siriano insieme alle donne e agli uomini siriani che il mondo, le loro élite e i loro leader hanno tradito. La loro rivoluzione è stata consegnata alle forze dell’oscurità, dell’immoralità e della tirannia, grazie all’alleanza con il Golfo e l’Iran, in lotta per guidare la regione verso il pantano del conflitto confessionale sunnita-sciita».
Anche il quotidiano filo-Hezbollah al-Akhbar ha commemorato lo scrittore libanese, mettendo l’accento sul suo impegno a favore della causa palestinese, simboleggiato più di ogni altra cosa dal romanzo La porta del sole, edito nel 1998. Incentrato sulla Nakba, l’esodo forzato di centinaia di migliaia di palestinesi dalla loro terra, l’opera nel 2004 è diventata anche un film, diretto dal regista egiziano Yousry Nasrallah. Lo stesso libro, prosegue l’articolo, ha peraltro anche ispirato un gruppo di attivisti palestinesi che nel 2013 hanno costruito un campo profughi chiamandolo «Qarya Bab al-Shams» – letteralmente “Il villaggio della porta del sole” – in segno di protesta contro «l’espansione di Israele attraverso la costruzione di insediamenti e gli sfratti forzati nella Cisgiordania occupata».
Il legame profondo con la Palestina e con le sofferenze del suo popolo è il tema dell’ultimo articolo pubblicato da Khoury su al-Quds al-‘Arabi, scritto dal letto di ospedale lo scorso 15 luglio. «Un anno di dolori», s’intitolava l’editoriale. Khoury s’interrogava sul mistero profondo del dolore a cui faticava a trovare un significato – «non vi riporterò alle sofferenze di Gesù Cristo o ai dolori di Maria Maddalena, ma vi dirò che è un’esperienza grande e io vivo in mezzo ad essa. Conosci qualcuno che ha scritto del dolore? Conducimi a lui, affinché io possa familiarizzare con lui nel viaggio del tormento che sto affrontando da solo. Me lo hanno mandato perché potessi leggergli la mia storia e ascoltare la sua». Schiacciato dalla sofferenza fisica – «una quantità di dolore che sgretola la roccia e fa perdere alla vita il significato», Khoury concludeva che solo «chi soffre di una quantità infinita di dolore può crearne il significato». «Anche Gaza e la Palestina vengono brutalmente attaccate da quasi un anno, ma lottano e non scappano. Sono loro il modello da cui imparo ogni giorno ad amare la vita».
Su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista palestinese Mueen Taer ricorda lo scrittore libanese, a cui lo legava un profondo rapporto di amicizia, con un’immagine tratta da “Il regno degli stranieri”, romanzo che Khoury scrisse negli anni ’90. L’editorialista immagina gli ultimi istanti di vita del suo amico e ripensa alla descrizione che Khoury fece, nel suo romanzo, della morte, quando il personaggio Ali Abu Touq spirò tra le braccia del medico, morendo «martire nel campo di Shatila»: «La sua anima si sollevò, come se non volesse lasciare il suo corpo, fu sorpresa dalla morte e voleva rifiutarla. Poi, all’improvviso, la crudeltà scomparve dal suo viso, ritornato umido e tremante come quello di un bambino che la madre ha appena partorito. Dopo la pazienza e la sofferenza per la crudeltà della malattia, tu, Elias, sei ridiventato un bambino piccolo, che corre verso il sole, salendo verso i suoi raggi attraverso la porta che avevi disegnato». Taer ripercorre gli anni della giovinezza e dell’attivismo di Khoury, quando «dopo la guerra del 1967, all’età di diciotto anni, iscritto al primo anno di università, si unì alle basi dei guerriglieri nella Valle del Giordano, portando un fucile in una mano e la letteratura e le raccolte di poesie nell’altra», o quando durante la guerra civile libanese fu costretto a lasciare la sua casa nel quartiere di Achrafieh a Beirut senza riuscire a salutare la madre e a partecipare al suo funerale. Erano gli anni in cui un giovane Elias Khoury bussava alle «porte della libertà», libertà dal confessionalismo, dalla povertà e dall’ingiustizia, conclude Taer, e si accingeva a prendere la strada verso la «porta del sole».