Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 25/03/2024 16:32:14
Chi sono gli amici della Palestina? Questa domanda, scrive sul quotidiano filo-saudita al-Sharq al-Awsat Nadim Qutaish, emerge ciclicamente ogniqualvolta israeliani e arabi entrano in guerra. Il giornale panarabo ne ha per tutti: critica coloro che sono a favore di “soluzioni umanitarie”, ma che in realtà non fanno altro che appoggiare «né più né meno» Israele; se la prende con i fautori della «resistenza senza quartiere» e la celebrazione della morte e della distruzione. Entrambi gli atteggiamenti sono parte di un manicheismo semplificatore da condannare nella maniera più categorica, anche se il giornale sembra contestare molto di più il fronte palestinese che quello filoisraeliano. «È curioso – nota l’autore con malcelata ironia – che gli “amici della Palestina” invocano il cessate il fuoco […] dimenticando che è stata proprio la Hamas guidata da Yahya Sinwar a rifiutarne uno. Ed è Hamas a scommettere che la guerra proseguirà a lungo, generando rivolte antiisraeliane ancora più ampie. Invece di condannare Hamas, condannano chi si adopera effettivamente per una tregua. Sono quegli stessi “amici della Palestina” che fanno finta di non sapere che i Paesi arabi hanno profuso tutti i loro sforzi dentro e fuori dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il cessate il fuoco». In altre parole, al-Sharq al-Awsat accusa i sostenitori della Resistenza di vedere la situazione in bianco o in nero, bollando sbrigativamente gli attori regionali come amici oppure come nemici della Palestina: «non sono sullo stesso piano chi cerca di far entrare con ogni mezzo gli aiuti a Gaza e chi preferisce far morire di fame la gente se questo gli offre una piattaforma per la mobilitazione politica. Non stanno sullo stesso piano chi cerca una soluzione politica, anche se non dovesse essere quella ideale, e chi trascina i palestinesi verso il peggio, alla ricerca di una giustizia e di un diritto assoluto». Gli fa eco il giornalista iracheno Farouk Youssef, che su al-‘Arab scrive un articolo dal titolo: “Non è vero che gli arabi siano scappati da Gaza”: «non è stato chiesto agli arabi di sostenere Hamas, la quale ha reso pubblica la sua dipendenza dall’Iran. Anzi, gli insulti che sono stati lanciati a questi arabi sin dall’inizio del conflitto non sono nuovi, ma costituiscono una parte del progetto iraniano che mira a separare Gaza dal resto della Palestina e a liberare la questione palestinese dal suo involucro arabo. Alcuni arabi sono scettici su Hamas, ma ciò non implica necessariamente che la loro incapacità di porre fine all’aggressione sia attribuibile al fatto che hanno voltato le spalle alla tragedia degli abitanti di Gaza […]. Piuttosto, i loro sforzi si sono infranti contro la follia israeliana, sostenuta incondizionatamente dagli Stati Uniti e dall’Europa».
Di segno opposto la testata di proprietà qatariota al-‘Arabi al-Jadid. Acido il commento del giornalista egiziano Wael Qandil: «i dirigenti arabi hanno tradito Gaza e la sua gente nel momento in cui si sono accontentati di svolgere il ruolo di obbedienti esecutori dei desiderata e delle intenzioni americane, specialmente per quanto riguarda la cessazione delle uccisioni. Ma questi desiderata collidono con le dichiarazioni delle agenzie delle Nazioni Unite e contrastano con le richieste delle nazioni di tutto il mondo […]. Il tradimento si è verificato anche quando gli arabi hanno ribaltato i risultati dell’unico vertice arabo-islamico tenutosi nel secondo mese dall’aggressione, generando un enorme ginepraio di decisioni e raccomandazioni che all’atto pratico non hanno prodotto niente, come se fossero meri esercizi di acrobazia diplomatica. Proprio come quegli spettacoli aerei che si svolgono sui cieli di Gaza che, facendo cadere pacchi di viveri, uccidono alcuni affamati ancora prima che li possa uccidere la fame». La conclusione è ugualmente sferzante: questi politici dovrebbero «prendere lezioni» da Netanyahu, che all’uopo sa benissimo dire di no agli americani e svincolarsi dalla tutela a stelle e strisce. La testata ne ha anche per Abu Mazen, presidente dell’Olp e leader di Fatah, criticato per la sua scelta di nominare primo ministro il tecnocrate Mohammed Mustafa, inviso ad Hamas: «la cosa peggiore del comunicato con cui venerdì scorso Fatah ha accusato Hamas, in maniera accalorata e con un linguaggio privo di sensibilità politica, è proprio il fatto di provenire da Fatah», l’organizzazione che in teoria dovrebbe essere garante della causa palestinese, ma che nei fatti pensa a salvaguardare sé stessa e a tenersi lontana dalla tragedia (e dalla Resistenza) di Gaza. E infatti il giornale in un altro articolo accusa Abu Mazen di «opporsi al progetto della Resistenza palestinese» e di vantare legami stretti con Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra di Netanyahu. Molto diretto anche il commento della testata islamista Arabi 21 che fa “nomi e cognomi” sui media che hanno denigrato la resistenza palestinese: «dall’inizio del “Diluvio di al-Aqsa” le piattaforme di informazione araba legate all’Asse dei colpi di Stato, soprattutto Arabia Saudita, Egitto, Emirati e Bahrein, hanno descritto l’operazione di liberazione come un’avventura dalle conseguenze impreviste», in particolar modo «Al Arabiya, Sky News Arabiya e quasi tutti i canali egiziani». La tecnica maggiormente impiegata da questi mezzi di informazione consiste nel sottolineare il nesso tra Hamas e la Fratellanza Musulmana, oppure tra Hamas e l’Iran, in modo da raffigurare la Resistenza come un atto selvaggio e barbarico. La conclusione è velata di amara ironia: forse prima di procedere con «la liberazione dei Territori Occupati» occorre «liberarsi dalla tirannia araba, che è la più fida alleata dell’occupazione israeliana, il suo guardiano più leale, violento e crudele».
L’Arabia Saudita rilancia la sua visione di un islam tollerante [a cura di Chiara Pellegrino]
Il 17 e 18 marzo si è tenuta alla Mecca, in Arabia Saudita, la conferenza “Costruire ponti tra le scuole di pensiero e le confessioni islamiche” organizzata dalla Lega musulmana mondiale con il patrocinio di Re Salman (qui un breve video riassuntivo della giornata). L’incontro ha riunito le principali autorità religiose istituzionali del mondo islamico, sunnite e sciite, tra cui il presidente del Consiglio della fatwa degli Emirati bin Bayyah, il Segretario generale dell’Organizzazione della Cooperazione islamica, il ministro degli Affari religiosi egiziano, Muhammad Mukhtar Gomaa, nonché l’Ayatollah Sheikh Ahmed Mobaleghi, membro dell’Assemblea degli Esperti della Repubblica islamica iraniana (assente invece, ed è difficile non notarlo, il Grande Imam di al-Azhar). La conferenza si è conclusa con la firma di una dichiarazione, definita dal quotidiano saudita al-Riyadh «un’estensione del Documento della Mecca», firmato nel 2019. Il documento invita in 28 punti a «realizzare le finalità della sharī‘a» preservando la religione, «perno dell’identità islamica», l’inviolabilità della persona, la cura della mente, il denaro e la patria. La dichiarazione esorta inoltre a perseguire la via della moderazione, mette l’accento sull’«unità religiosa e culturale dei musulmani in quanto dovere religioso radicato nelle coscienze dei popoli musulmani», mette in guardia dall’«invocare fatti e dibattiti del passato o le divergenze al centro del pluralismo confessionale per minare l’unità, la fratellanza e la cooperazione della comunità islamica (umma)», e fa divieto ai musulmani comuni di «lanciare accuse di miscredenza». Il punto 19 contiene un riferimento al conflitto israelo-palestinese e ricorda che i musulmani sono uniti nel «sostenere le cause giuste a livello islamico e mondiale, benedicono la fermezza del popolo palestinese nell’affrontare i crimini di genocidio, e sostengono il suo diritto a istituire il proprio Stato indipendente, con Gerusalemme Est come capitale, e preservare l’identità storica e islamica della città di Gerusalemme». Infine, il documento riconosce il «contributo tangibile» offerto dalla donna «nella realizzazione delle aspirazioni per il bene della comunità islamica», il ruolo giocato dai «media islamici nel rafforzamento della fratellanza e della cooperazione» e mette in guardia dal farne un uso negativo, ciò che può «provocare un’escalation delle controversie e ostilità all’interno dell’islam».
L’incontro è stato oggetto di articoli celebrativi comparsi su diversi quotidiani sauditi, come quello firmato da Muhammad Ali al-Husseini, pubblicato su Okaz. Il chierico sciita libanese, che nel 2021 ha ricevuto la cittadinanza saudita, ha riconosciuto gli sforzi profusi dal Regno e dalla Lega mondiale musulmana «nell’affrontare chi ha un pensiero estremista, nel costruire ponti tra i musulmani e favorire la cooperazione». Le divisioni interne all’islam costituiscono un pericolo per la nazione islamica, scrive il chierico, e «ritornare all’essenza della religione islamica, fondata sul metodo della moderazione e dell’equilibrio, è il modo migliore per ripristinare la coesione tra i musulmani e unire le loro fila in difesa della religione monoteista (al-dīn al-hanīf).
Questo genere di conferenze, ha commentato su al-Sharq al-Awsat l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid, offre un «orientamento generale», che è una delle quattro funzioni a cui devono ottemperare gli ulema insieme all’invocazione dell’unità di credo e di culto, all’insegnamento religioso, e all’emissione di fatwe. Le ultime tre dimensioni sono preponderanti, mentre la prima lo è molto meno a causa della «mancanza di conoscenza ed esperienza, e per i cambiamenti in atto nei tempi e nel mondo». L’apertura di strade che prima erano chiuse e la nascita di partenariati in campo islamico e con il mondo delle religioni e delle culture ha richiesto grandi sforzi, che oggi sono diventati una realtà anche grazie alla Lega musulmana mondiale, ha commentato al-Sayyid.
«Al-Jazeera, uno stato nello Stato del Qatar» Chiara Pellegrino
Il quotidiano panarabo filo-emiratino Al-‘Arab sostiene che negli ultimi mesi si è creato un divario tra la «linea ideologica filo-islamista» di al-Jazeera e le politiche del governo qatariota. Il canale satellitare «è diventato uno stato nello Stato del Qatar», scrive Hamid Qaraman, ed è fonte di imbarazzo per le istituzioni governative. «La politica adottata dal canale satellitare di imporre la propria visione ideologica dei fatti per servire i suoi piani contrasta con gli interessi del Qatar, che vuole preservare la propria influenza politica a livello regionale e globale». Al-Jazeera, commenta l’editorialista, è stata creata dal Qatar negli anni ’90 come strumento di soft power, per consentire a Doha di estendere la sua influenza in Medio Oriente e rafforzare il suo ruolo a livello regionale e internazionale. Ma l’emittente, «con i suoi analisti e l’ideologia filo-islamista ha finito per essere una forza in competizione con lo Stato», arrivando addirittura «a disegnare le politiche e i percorsi della classe dirigente». Ai leader di al-Jazeera l’editorialista rimprovera di aver considerato il Qatar «un mezzo per realizzare il loro progetto da sogno di un “califfato della Fratellanza”». La guerra di Gaza ha reso ancora più evidente questa dinamica nella misura in cui Doha vuole dimostrare di «possedere le chiavi» per aiutare gli Stati Uniti a stabilizzare la regione e si è detta disposta a sacrificare il suo rapporto con Hamas, mentre al-Jazeera «ha utilizzato i suoi strumenti politici e il suo peso mediatico per confermare Hamas nel suo ruolo attivo e trionfante, ingigantendone le capacità, ciò che poi si è riflesso sul comportamento adottato dal movimento durante i negoziati per la tregua». Ad al-Jazeera viene rimproverato di aver fabbricato alcune parti della narrazione per veicolare un’immagine di un movimento integro e forte, e di essere diventato parte attiva del conflitto, perché Hamas «rappresenta l’ultima roccaforte della Fratellanza nella regione». Per il momento, però, «l’addomesticamento di al-Jazeera» si è rivelato fallimentare, commenta l’editorialista; il Qatar «si è reso conto di aver creato un mostro che lo divorerà lentamente con la sua ideologia filo-islamista».
A Khartoum una distruzione simile a quella di Gaza Chiara Pellegrino
Un’altra guerra, quella in Sudan, ha occupato questa settimana le prime pagine dei quotidiani arabi. La notizia che ha contribuito a riportare l’attenzione mediatica su questo Paese è la «vittoria simbolica», così l’ha definita su al-Quds al-‘Arabi Nasser al-Sayed al-Nour, dell’esercito nazionale, che la scorsa settimana ha ripreso il controllo degli edifici della televisione e della radio, sottraendoli alle Forze di Supporto Rapido. lo scrittore sudanese restituisce l’immagine di un Paese sprofondato nella «catastrofe umanitaria e nella carestia», con il 50% degli abitanti sotto la soglia di povertà, un Paese in cui lo Stato è al collasso e dove le parti in guerra sono determinate a continuare a combattere nonostante il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite abbia votato la tregua per il mese di Ramadan. L’esito del conflitto è imprevedibile, scrive l’editorialista, il cui grande timore è che «il Sudan possa diventare un nuovo spazio e un laboratorio efficace per sperimentare armi letali».
Fino a dove sarebbero disposti a spingersi i due generali per arrivare alla vittoria? «Combatteremo fino alla fine o finché verremo annientati», aveva dichiarato al-Burhan, ma per il momento, l’unica «vittoria morale» che quest’ultimo ha ottenuto è stata la riconquista del palazzo della televisione, commenta il ricercatore libico Jibril al-‘Abidi su al-Sharq al-Awsat. In Sudan si sta delineando una situazione per molti versi simile a quella libica: «L’interferenza esterna con il sostegno e il finanziamento di armi a entrambe le parti è diventata evidente […], con la sola differenza del petrolio, che scarseggia in Sudan ed è abbondante in Libia. A parte questo, i due conflitti si somigliano nella forma, nella sostanza e persino nella geografia degli interventisti e dei sostenitori delle due parti in conflitto, l’esercito di Burhan e le forze di Hemedti».
Su al-‘Arabi al-Jadid, il giornalista sudanese Tariq al-Sheikh fa un altro parallelo, questa volta tra l’azione dei due generali in Sudan e quella di Netanyahu a Gaza: «La portata della distruzione di Khartoum, il numero di persone uccise, così come il numero di sfollati e rifugiati sono simili a ciò che è accaduto alla Striscia di Gaza e alla sua popolazione». E questo, commenta l’editorialista, non deve stupire dal momento che i generali sudanesi hanno più volte sottolineato la loro ammirazione per il modello israeliano. Le previsioni future per il Paese africano sono a dir poco fosche, secondo al-Sheikh: al-Burhan coltiva l’idea «ingenua» di riportare al potere l’ancien régime, definisce «“coloni” le Forze di Supporto Rapido e nega loro l’identità sudanese, una visione che porta la guerra verso un’intensa polarizzazione tribale, visto che Hemedti gode di un crescente sostegno da parte delle tribù del Darfur, in particolare dei Rizeigat, la tribù araba a cui appartiene». Il rischio di secessione del Darfur è alto, conclude al-Sheikh.