Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 08/11/2024 15:15:47
Le elezioni americane hanno monopolizzato le prime pagine dei quotidiani arabi per tutta la settimana. “Trump è tornato”, titola al-Quds al-‘Arabi e in Medio Oriente c’è chi esulta e chi dispera. Tra i primi si trovano i quotidiani di proprietà saudita. «Un ritorno in grande stile per Donald Trump», «l’uomo della politica diversa», commenta Mashari Althaydi su al-Sharq al-Awsat. La sua speranza è che sia giunto il momento di «voltare la pagina Biden-Harris e dei loro predecessori, Obama e l’obamismo», le cui politiche il giornalista ritiene responsabili della guerra russo-ucraina e dei conflitti in atto in Medio Oriente. «Ci troviamo di fronte a una nuova ed emozionante fase, assisteremo a grandi eventi e trasformazioni. Alcuni “furbi” cercheranno di riposizionarsi compatibilmente con la nuova fase, come avevano già fatto in precedenza, indossando un abito nuovo, un abito dal “design” del momento, un abito che a mio avviso sarà trasparente, non coprirà», conclude il giornalista saudita.
Più sobria la stampa emiratina o filo-emiratina. Il quotidiano al-‘Arab fa alcune previsioni sulla politica estera mediorientale che potrebbe adottare Trump durante il suo mandato. Il tycoon «cercherà di rafforzare le relazioni con i “Paesi arabi moderati” e si vedrà un ritorno agli Accordi di Abramo con Israele, che metteranno fine alle crisi nella regione – in Libano, Siria, Gaza, Yemen e altri Paesi. L’Iran invece si troverà in una posizione difficile e potrebbe essere sottoposto a maggiori pressioni e sanzioni», scrive il giornalista emiratino Mohammad Faysal al-Dosari. Il ritorno di Trump tuttavia desta anche qualche preoccupazione. Molti Paesi vorranno riconsiderare il loro posizionamento regionale con la conseguente nascita di nuovi blocchi e nuove alleanze, che potrebbero provocare uno stato di incertezza internazionale, conclude l’editoriale.
Quest’incertezza è raffigurata sullo stesso quotidiano dal vignettista siriano Yasser Ahmed: un mondo spaventato apre, con molta cautela, un pacco dai tratti trumpiani.
Il quotidiano emiratino al-Ittihad ha invece rappresentato la suspence che ha accompagnato il giorno delle elezioni americane con un’altra vignetta: un gruppo di persone fino a quel momento in lotta tra loro sospendono le ostilità in attesa di conoscere i risultati delle urne, il tempo che passa scandito da una clessidra.
Su Asasmedia Khairallah Khairallah si domanda se Trump manterrà la promessa fatta ai libanesi durante la campagna elettorale («pace e prosperità»), e se si ricorderà «che deve tenere l’Iran e Israele lontani dal Libano». Un messaggio dettato da faccende famigliari più che da un reale interesse per il Paese dei cedri: come spiega Khairallah, una delle figlie del prossimo presidente americano, Tiffany, ha da poco sposato un libanese, Michael Boutros, il cui padre ha svolto un ruolo importante nell’esortare gli arabi americani a votare per il candidato repubblicano.
Su al-Quds al-‘Arabi, lo scrittore Suheil Kiwan offre la prospettiva palestinese, riassunta già nel titolo dell’editoriale: “Non ci dispiace per la sconfitta di Harris e non diamo il benvenuto a Trump”. Kiwan è deluso da Biden ma al tempo stesso non si fa alcuna illusione sul Trump-bis: «I palestinesi non rimpiangeranno la fine dell’era Biden, segnata dalla collaborazione con Netanyahu e la sua banda nella guerra di sterminio del popolo palestinese a Gaza». Biden, continua l’editoriale, «ha dimostrato di essere più sionista di molti sionisti», la sua vice Kamala Harris «si è detta preoccupata per l’uccisione di tanti civili pur continuando a sostenere illimitatamente l’occupazione e i criminali di guerra», e il segretario di Stato Antony Blinken, con «freddezza e sfacciataggine, giustifica lo sterminio di civili». Trump, conclude Kiwan, «non sarà migliore [di Biden], non si sveglierà domani preoccupato dal destino dei palestinesi e non fermerà il genocidio. Ma quanto meno sarà chiaro nella sua ostilità, non cercherà di nasconderla». Esulta invece Netanyahu, per il quale «la vittoria di Trump è un dono dal cielo», il meglio che gli poteva capitare per portare avanti il suo progetto di un «nuovo Medio Oriente», «che significa eliminare una volta per tutte la causa palestinese […] e distruggere le forze che si oppongono all’egemonia sionista sulla regione».
Anche per i siriani l’esito delle elezioni americane non è una buona notizia. Non lo è sicuramente per i curdi, che con l’insediamento di Trump potrebbero perdere il sostegno degli Stati Uniti. È probabile che Washington ritirerà le forze americane dal Paese, scrive il giornalista siriano Alaa Halabi sul quotidiano filo-Hezbollah al-Akhbar, e che volterà le spalle all’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est – la regione a maggioranza curda resasi autonoma de facto nel 2012, e mai riconosciuta dal governo di Damasco. Ad alimentare questa previsione, prosegue l’editoriale, è l’accordo firmato dagli Stati Uniti con l’Iraq, che prevede il ritiro delle forze americane dal Paese entro il 2026. Ciò significa che, anche volendo, gli americani non disporranno più di linee di rifornimento nella regione per alimentare la presenza militare nella vicina Siria. Gli Stati Uniti, prosegue il giornalista, avevano peraltro stanziato 156 milioni di dollari per sostenere le Forze Democratiche Siriane (il braccio militare dell’Amministrazione Autonoma della Siria) ma Trump, «che ragiona con la mentalità del commerciante», potrebbe decidere di chiudere i rubinetti, ritenendo questo investimento uno spreco di denaro.
Che cosa comporterebbe invece il ritiro americano per Bashar al-Asad? Sicuramente non gli gioverebbe, commenta il giornalista siriano Bakr Sidqi su al-Quds al-‘Arabi, perché in tal caso il presidente siriano si troverebbe a dover scegliere tra «scontrarsi con le Forze Democratiche Siriane o cercare un’intesa con queste». Sidqi relativizza le decine di previsioni che vengono fatte dai giornali collocandole nell’ambito della speculazione perchè «non dobbiamo dimenticare che la caratteristica principale di Trump è l’imprevedibilità». Potrebbe addirittura accadere che lo «Stato profondo» riesca a «convincere Trump a rimanere in Siria fino a quando non sarà eliminata la presenza iraniana».
Quale futuro per l’Asse della Resistenza? [a cura di Chiara Pellegrino]
L’uccisione negli ultimi mesi di diversi leader di Hamas e Hezbollah alimenta la riflessione sul futuro dell’Asse della Resistenza. Come potrebbe riconfigurarsi l’alleanza guidata dall’Iran nel medio e lungo periodo? Da quando si è formato dopo gli accordi di Oslo nel 1993 a oggi, l’Asse della Resistenza ha conosciuto molte evoluzioni che lo hanno snaturato e condizionato negativamente, scrive su al-‘Arabi al-Jadid l’ex ministro degli Esteri tunisino Rafik Abdessalem. Inizialmente esso «comprendeva una miscela di forze ufficiali e popolari, tra cui l’Iran, la Siria, il Libano, i movimenti della resistenza in Palestina e in Libano e le correnti islamiche e nazionaliste, sia sunnite che sciite, ma nel tempo ha finito per trasformarsi in un asse confessionale limitato ai soli gruppi sciiti legati all’Iran». Questo sbilanciamento verso Teheran e le forze sciite ha finito per rafforzare la sua controparte, ovvero «l’Asse della moderazione», definito da Abdessalem «una lega di dittature arabe che mette insieme le monarchie arabe assolute». Una lega piena di paradossi: i Paesi che lo compongono sono accomunati da un sentimento di ostilità per le rivoluzioni dei popoli arabi, ritenute un complotto americano, ma al tempo stesso «si adoperano con tutte le loro forze per attuare l’agenda israelo-americana in maniera inedita e provocatoria per le piazze arabe». La polarizzazione sciita dell’Asse della Resistenza ha perciò sortito l’effetto opposto a quello desiderato, consegnando «la regione a un’alleanza araba reazionaria, sostenuta da Israele e dalle principali potenze imperialiste». Che fare allora? Secondo Abdessalem è necessario ricostituire le relazioni arabo-islamiche interrotte e creare un fronte comune con i Paesi che rifiutano la normalizzazione e con le forze popolari attive, in modo che «l’unità delle piazze si trasformi da un centro sciita a un’ampia piazza arabo-islamica». L’Asse della Resistenza immaginato dall’ex ministro «non si limita a giocare un ruolo puramente militare o a opporre resistenza nei luoghi direttamente interessati dal conflitto, come la Palestina e il Libano, ma si estende anche all’ambito della politica, della cultura, del pensiero, dell’economia, nel quadro di un progetto di resistenza arabo-islamico».
Sullo stesso quotidiano il giornalista siriano Tariq Aziza fa delle previsioni su quelli che potrebbero essere gli sviluppi futuri di Hezbollah. Il nuovo segretario del movimento Naim Qasim ha promesso di portare avanti la linea di Hasan Nasrallah, ma ci riuscirà? Gli ostacoli sono tanti e non dipendono solo dalle capacità dal neosegretario. Come spiega Aziza, al di là delle dichiarazioni ufficiali del Partito, che continua a ribadire lo stato di buona salute del movimento per rassicurare la sua base, a oggi non si conosce davvero il numero reale delle perdite in termini di vite umane, armi e attrezzature, ed è presto anche per valutare l’esperienza e il livello di competenza delle persone che hanno sostituito i leader uccisi. Oltre al capitale umano di cui dispone oggi Hezbollah, che potrebbe influire sull’efficacia dell’azione del Partito di Dio, occorre tener conto anche dei cambiamenti sul campo, prosegue l’editoriale. «Lo sviluppo e l’accelerazione degli eventi, spiega Aziza, fa pensare che ci sia stato un cambiamento dei dati su cui Hezbollah aveva costruito il suo approccio sia militarmente che politicamente, e questo si rifletterà inevitabilmente sulla prestazione e sui piani del movimento, anche a livello tattico e strategico». Peraltro, Hezbollah non sta combattendo una battaglia puntuale e delimitata, ma è alle prese con una guerra globale, che mira a renderlo inoffensivo «per lo Stato occupante». Il Partito di Dio, conclude l’editoriale, «potrebbe tornare a essere quello che era nei primi anni, una milizia armata esclusivamente locale, coinvolta nei conflitti interni e sostenuta dall’estero».
Effettivamente anche questa settimana l’esercito israeliano ha colpito la periferia sud di Beirut, in concomitanza del quarto discorso pronunciato in poco più di un mese da Naim Qasim, e diffuso su al-Jazeera e sui media di Hezbollah. Oltre a ribadire l’esistenza di «migliaia di combattenti addestrati per combattere Israele», il segretario generale ha annunciato che «non conta sui risultati delle elezioni americane per fermare l’“aggressione” di Israele» perché ciò che conta è «il campo nelle sue due parti: i combattenti che oppongono resistenza all’esercito israeliano al confine, e il fronte interno».
Qualsiasi discorso possa pronunciare Qasim – «l’uomo dalla personalità sbiadita», come lo definisce Khairallah Khairallah su al-‘Arab, è ormai chiaro a qualsiasi libanese, a prescindere dalla confessione di appartenenza, «che la situazione di Hezbollah è completamente cambiata e difficilmente il movimento potrà riacquistare lo status precedente, alla luce della serie di colpi che gli sono stati inferti» dall’intelligence e dalle forze israeliane.
Su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista palestinese Haithem Ghozlan riflette invece sul destino di Hamas. La morte di Sinwar «getta un’ombra negativa su Hamas, essendo questi una figura storica del movimento, tra i fondatori dell’ala militare, ex prigioniero e punto di convergenza tra l’ala politica e quella militare», ma non è impossibile da superare. Hamas gode di forza e coesione interne, spiega Ghozlan citando una serie di punti forti dell’organizzazione, tra cui la presenza di un consiglio consultivo (shura), l’indipendenza dalle politiche estere e l’assoluta sovranità decisionale delle sue istituzioni, l’adozione del meccanismo delle elezioni per la nomina dei leader a tutti i livelli, e una comunicazione efficace tra la leadership e la base. Dopo l’uccisione di Sinwar, conclude l’editoriale, per Hamas «la situazione è diventata più complessa, e ha spinto il movimento verso un ritorno alle sue origini, con la tendenza a ridurre al minimo (e forse assorbire) le rivalità interne e valorizzare il lavoro collettivo e organizzativo al suo interno».
Assad: «un leone o uno struzzo?» [a cura di Mauro Primavera]
I quotidiani arabi di area filo-qatariota continuano a seguire con molta attenzione la situazione interna della Siria e il suo ruolo all’interno della crisi regionale scaturita dal 7 Ottobre. Su Al-Quds al-‘Arabi, il giornalista marocchino Anas bin Saleh si fa beffe del presidente siriano Bashar al-Assad e, utilizzando una metafora apparsa qualche settimana fa sul al-‘Arabi al-Jadid, titola con sarcasmo: il ra’īs è un leone – gioco di parole basato sul cognome del presidente, che in arabo significa “leone” – oppure uno struzzo? «Nel pantano di fuoco che infiamma la regione mediorientale domina l’impressione, errata, che il regime siriano non si curi di ciò che si ripete – talvolta sottovoce, talvolta a voce alta – sui nuovi piani regionale» che verranno applicati dopo il conflitto a Gaza. Nonostante la Siria «si trovi al centro di questi schemi, siano essi immaginari o reali», il regime non si è espresso a riguardo, assumendo un profilo defilato e fintamente disinteressato. In effetti, sostiene l’articolo, «Damasco si è limitata a mettere la testa sotto la sabbia, nell’attesa che la polvere delle battaglie scompaia, trasformando fin dal 7 Ottobre la Siria, che si trova nel cuore dell’Asse della Resistenza, in un fronte calmo». Un silenzio che seppur comprensibile alla luce di una serie di fattori – dalle fragilità interne al desiderio di proseguire la normalizzazione con il mondo arabo, passando per le tensioni con Hamas – appaiono non solo «ingiustificabili», ma hanno di fatto reso il Paese «il ventre molle» dell’Asse. L’autore infierisce aggiungendo un'altra metafora di puro sarcasmo: «sembra che Bashar al-Assad, che si dice fosse stato un oftalmologo» salito al potere venticinque anni fa «per correggere la vista a Damasco, adesso soffra di daltonismo e non riesca più a distinguere, nei suoi disperati tentativi di uscire dal collo di bottiglia, i nemici dagli amici».
Al-‘Arabi al-Jadid, invece, si concentra sulla difficile iniziativa politica avviata dagli oppositori siriani in esilio. A fine ottobre il Percorso Democratico Siriano ha tenuto, su invito del gruppo delle Forze Democratiche Siriane (SDF) attivo nel nordest del Paese, una conferenza a Bruxelles con l’obiettivo di trovare una soluzione politica alla grave crisi che affligge il Paese da quasi quattrodici anni. Sorprendentemente, il quotidiano ha pubblicato a riguardo due editoriali di segno opposto. Il giornalista siriano Ammar Dauib ha fornito un giudizio assai negativo: la conferenza ha «fallito» nel creare una piattaforma politica democratica e inclusiva a causa del ruolo preponderante degli oppositori arabi rispetto a quelli curdi. Esistono inoltre una serie di questioni da chiarire, come la mancanza di trasparenza nella gestione dei fondi, il rapporto ambiguo con il Partito dei Lavoratori Curdi (PKK) e le relazioni con il regime di Assad. Per contro, la giornalista siriana Samira Musalama ha giudicato l’evento con cauto ottimismo: è vero che nel corso dei lavori della conferenza sono emerse «le continue e crescenti divergenze tra le varie parti», così come è vero che puntualmente sono piovute le accuse sulla longa manus che si cela dietro agli esiliati. Tuttavia, osserva Musalama, l’incontro ha permesso alle SDF di trovare una «propria legittimità politica» e di presentare un piano concreto e inclusivo: ricostruire l’unità statuale implementando una struttura federale che garantisca pieni diritti a ogni minoranza.
La questione è stata trattata pochissimo dalla stampa filo-emiratina e saudita. Curiosamente su Al-‘Arab, vicino alle posizioni di Abu Dhabi, si propongono le stesse soluzioni politiche contenute nel secondo articolo di al-‘Arabi al-Jadid: «riconoscere il pluralismo politico ed etnico, e accettare l’altro è la via per rafforzare l’identità nazionale che comprende tutti senza eccezione. Il pluralismo deve essere una fonte di forza e unità, piuttosto che essere una causa di scontro e discordia».