Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:45:20
La notizia della morte in un raid israeliano del giornalista di al-Jazeera Hamza al-Dahdouh ha catalizzato l’attenzione di tutti i quotidiani vicini alla causa palestinese. Hamza era il figlio di Wael al-Dahdouh, volto noto di al-Jazeera che dallo scorso 7 ottobre copre quotidianamente il conflitto israelo-palestinese da Gaza e che nei mesi scorsi aveva già perso la moglie, due figli e un nipote in un attacco israeliano. Questa settimana diversi media hanno celebrato la resilienza di un padre che ha perso il figlio primogenito e che ha scelto «di continuare a combattere anziché abbandonarsi alla disperazione nichilista». Un uomo diventato «un simbolo della tenacia e della pazienza palestinese, e un’icona dei media arabi». Come ricorda al-Quds al-‘Arabi, infatti, Wael al-Dahdouh ha ricevuto il premio egiziano per la Libertà di stampa 2024, in quanto «simbolo della tenacia dei giornalisti palestinesi di fronte alla violenta aggressione sionista e alla sua brutale macchina da guerra».
«Al-Dahdouh assomiglia a Gaza, e lei a lui», commenta sul quotidiano panarabo londinese al-‘Arabi al-Jadid il giornalista libanese Pierre Akiki. Una terra e un uomo feriti che non si arrendono: al-Dahdouh continua a «raccontare la storia del più grande genocidio del secolo commesso contro i civili di una piccola area del Medio Oriente»; mentre il popolo palestinese continua a opporre resistenza, perché la sua «determinazione […] è ben più forte della volontà di un soldato israeliano, che conta i giorni per ritornare al suo insediamento». La sopravvivenza, scrive Akiki, «non è dei più forti, ma di chi sa adattarsi» alle condizioni mutevoli, ciò che i palestinesi hanno da anni imparato a fare.
Al-Jazeera ha pubblicato una lettera indirizzata a Wael al-Dahdouh, in cui esprime la vicinanza degli arabi a un padre che ha perso il figlio primogenito, «morto da martire» in un raid israeliano che ha colpito l’auto sulla quale il giovane viaggiava insieme a un collega. La lettera celebra la forza d’animo di «Wail al-Sābir – Wail il Sopportatore» che, nonostante le prove a cui la vita l’ha sottoposto, «continua a far conoscere la verità, i crimini e i massacri continui commessi ai danni dei palestinesi a Gaza, per far sì che le loro grida giungano alle orecchie del mondo». Il tema della sopportazione, della pazienza (al-sabr) – una delle virtù che nella tradizione islamica qualifica il buon musulmano – ricorre anche in altri articoli: «Chi sopporta più di te», domanda in maniera retorica un altro editoriale sullo stesso quotidiano, che in un attimo hai dovuto dire «addio a tre generazioni: alla moglie (il passato), al figlio (il presente) e al nipote (il futuro)»?
Sempre su al-Jazeera Fayed Abu Shamala lancia un’invettiva contro le istituzioni internazionali che combattono per i diritti dei giornalisti, accusandole di rimanere in silenzio di fronte «al massacro a cui sono sottoposti i giornalisti di Gaza». In pochi mesi nella Striscia hanno perso la vita 110 giornalisti e l’editorialista domanda perché questi numeri non suscitino alcuna reazione da parte internazionale. L’editoriale prosegue con una serie di commenti provocatori e domande incalzanti rivolte a queste istituzioni: «avete fallito nel vostro compito oppure la vostra è semplicemente una cospirazione?»; «in Ucraina avete inviato delegazioni su delegazioni, squadre di supporto, strumenti e tutte le attrezzature necessarie per la protezione dei giornalisti. […] Avete criticato duramente Putin e la Russia per quello che è successo ai giornalisti là, ma questo è niente in confronto a ciò che l’occupazione criminale ha fatto ai nostri giornalisti a Gaza». E ancora, «perché non scrivete dei crimini commessi dall’occupazione? Perché non avete incoraggiato i vostri inviati a venire a Gaza per coprire la guerra?»
I quotidiani panarabi vicino alle posizioni emiratine e saudite sono invece rimasti molto defilati sulla morte del giornalista, preferendo concentrarsi su altri aspetti del conflitto. Su al-‘Arab, per esempio, lo scrittore e giornalista egiziano Hisham al-Najjar riflette sul futuro di Hamas, a cui secondo lui toccherebbe la stessa sorte toccata ad al-Qaida dopo l’11 settembre: «sconfitta e latitanza in Iran». Un destino comune a due organizzazioni che hanno commesso lo stesso tipo di errore: credere che gli Stati Uniti non sarebbero scesi in campo, ciò che denoterebbe «una comprensione naive delle relazioni internazionali da parte delle leadership di al-Qaida e di Hamas, che li ha portati a calcolare male le conseguenze dei due attacchi più importanti della loro storia». Nella loro «percezione immaginaria», l’11 settembre e il 7 ottobre avrebbero dovuto «eliminare il sistema internazionale contemporaneo fondato sugli Stati-nazione sostituendolo con l’autorità della nazione islamica (umma). [Ciò sarebbe stato possibile] sferrando un colpo decisivo a Washington (nell’immaginario di al-Qaida), e ponendo fine all’occupazione israeliana (nell’immaginario di Hamas)». Entrambe le operazioni sono fallite, scrive l’editorialista, anche perché si fondavano sulla speranza (poi disattesa) di riuscire a coinvolgere nel grande progetto i musulmani di tutto il mondo (al-Qaida) e le forze dell’Asse della Resistenza (Hamas).
Mentre una parte del giornalismo arabo dà Hamas per vinto, Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico del movimento, questa settimana ha invitato «la nazione islamica (umma) a sostenere la Resistenza con le armi». Intervenendo alla conferenza organizzata a Doha dall’Unione mondiale degli Ulema, una delle principali istituzioni islamiste del mondo arabo, Haniyeh ha chiesto «alla umma e agli ulema di implicarsi maggiormente nel sostegno della Resistenza» perché «questa è la battaglia di al-Aqsa, non del solo popolo palestinese».
Sui quotidiani sono inoltre comparsi alcuni articoli di commento alla denuncia presentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia contro Israele, accusato di compiere un genocidio a Gaza. La domanda ricorrente è: dove erano gli Stati arabi mentre il Sudafrica presentava la denuncia? «Nascosti», risponde il giornalista egiziano Wail Qandil su al-Arabi al-Jadid. E la cosa grave, continua l’editoriale, è che la denuncia sia stata sporta da uno Stato non-arabo, quindi non direttamente toccato dalla causa palestinese. «Se gli arabi fossero stati davvero arabi, avrebbero dovuto essere loro a prendere l’iniziativa, e il Sudafrica essere la parte che esprimeva solidarietà», non il contrario. «Dov’erano gli arabi quando il Sudafrica si cingeva la vita con la cintura delle virtù arabe cavalleresche, della virilità, del coraggio – virtù provenienti dall’antichità araba, dai tempi di ‘Antara, Imru’ al-Qais [poeti preislamici] e al-Mu‘tasim [Califfo abbaside] – e percorreva, con fermezza e determinazione, la strada verso L’Aia, nel tentativo di salvare il popolo palestinese dall’annientamento e dallo sterminio?» Erano impegnati a ricevere Blinken, «sionista per sua stessa ammissione», conclude Qandil.
Su Asas Media l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid ritorna sugli eventi del 7 ottobre scorso e riapre un dibattito che in questi mesi ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro. L’attacco di Hamas contro Israele è lecito dal punto di vista della giurisprudenza islamica? Pur ritenendo personalmente che questo attacco sia sbagliato per le conseguenze che ha innescato, al-Sayyid ne constata la legittimità dal punto di vista giuridico, «perché la Palestina è occupata, Gaza è assediata, gli israeliani continuano a uccidere la popolazione ed erodere la terra, e non ci sono soluzioni all’orizzonte». Per quanto lecita, però, quella di Hamas non è stata «un’operazione saggia», scrive l’editorialista, perché ha causato una «guerra di sterminio». E se lo scorso autunno l’autore riteneva che dietro l’attacco ci fosse la mano lunga dell’Iran, in questo articolo al-Sayyid, per sua stessa ammissione, ritorna sui propri passi, sostenendo l’estraneità iraniana ai fatti e operando un distinguo netto tra Hamas, che concentra le sue azioni nel contesto locale palestinese, e le milizie sostenute dall’Iran, che operano nel mondo arabo portando avanti l’agenda di Teheran. Ma il grande timore di al-Sayyid è che Hamas possa fare reclute in Libano: ciò provocherebbe un’espansione del conflitto.
L’intellettuale e dissidente siriano Yasin al-Hajj Saleh, fa una riflessione su come la storia recente del Medio Oriente abbia influito sull’evoluzione del pensiero arabo. Le correnti intellettuali e culturali arabe contemporanee, scrive, sono legate indissolubilmente a due sequenze di date: quelle relative alle guerre arabo-israeliane, e le date che segnano i maggiori eventi sociopolitici occorsi a livello locale nei diversi Paesi arabi. La lista che stila dei secondi è molto lunga, inizia con la rivoluzione degli Ufficiali liberi in Egitto (1952), e include, tra gli altri grandi eventi, l’indipendenza dell’Algeria (1962), l’occupazione della Grande Moschea di Mecca (1979), la fondazione di Hezbollah (1983), la prima Intifada (1987), l’uccisione di Rafiq Hariri (2005), le Primavere arabe (2011), la nascita dell’Isis, per arrivare all’attuale conflitto israelo-palestinese. Tutti questi eventi «hanno suscitato grandi emozioni collettive e cambiamenti nel pensiero e nella sensibilità, al punto che sarebbe impossibile raccontare il pensiero arabo contemporaneo a prescindere da esse». Però, spiega l’editorialista, il susseguirsi rapido di questi eventi storici non ha davvero consentito «l’emergere di correnti di pensiero, letterarie e artistiche mature», e sono rimaste perlopiù espressione del singolo intellettuale. Tutta la produzione è intrisa di «una profonda depressione» e segnata da una «crisi spirituale permanente». Questo perché durante tutta la vita, la maggior parte degli arabi si è trovata «oppressa, impossibilitata a incontrarsi e ad agire, ad esprimersi e a viaggiare».
2024: anno nuovo, vecchi problemi [a cura di Mauro Primavera]
Un anno fa scrivevamo come nel Golfo si respirasse aria di ottimismo grazie alla distensione politica, agli investimenti nel settore tecnologico e ai flussi commerciali dei i Paesi del GCC. Le previsioni della stampa araba per il 2024, per via di quanto accaduto in Medio Oriente tra catastrofi umane e naturali, sono comprensibilmente molto più fosche. Al-Quds al-‘Arabi individua un problema di metodo, ossia il fatto che i Paesi arabi non riescano a “fare squadra” e a costituire un blocco geopolitico compatto e capace di affrontare le grandi sfide del presente, prima fra tutte la crisi di Gaza. Per la testata filo-qatariota, la responsabilità di questo fallimento va imputata all’inerzia della Lega Araba: «è possibile parlare di ulteriori passi di fusione, accentramento dei poteri e maggior ruolo [politico] della Lega mentre il Consiglio di Cooperazione del Golfo ha un problema legato al fatto che alcuni suoi Paesi membri stanno normalizzando le loro relazioni con l’entità sionista, mentre altri si sono astenuti dal farlo?». Senza contare che quello che doveva essere il più grande successo del 2023, la riammissione della Siria come Stato membro, non ha dato i frutti sperati, visto che il Paese versa in condizioni disperate. Anche il quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat commenta con preoccupazione i recenti sviluppi regionali: «ciò che succede oggi nel mondo riflette con chiarezza la realtà delle sfide poste dallo scoppio delle guerre in Ucraina, Sudan e Gaza. Guerre che erano accompagnate da grandi scommesse e obiettivi basati però su calcoli irrealistici o fondati su visioni errate […]. Il 2024 è il proseguimento di quello precedente […]. Sembra che la politica globale abbia preso decisioni inappropriate». Leggermente diversa l’analisi della testata emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya: lo scenario internazionale potrebbe venire stravolto dalle elezioni presidenziali statunitensi e dalle manovre militari cinesi; per quanto riguarda il quadrante mediorientale, invece, «non si prevedono grandi cambiamenti: l’attuale crisi di Gaza non verrà risolta» rapidamente, considerato l’alto numero di variabili presenti, dagli affari interni israeliani al ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese. L’articolo conclude la sua disamina tracciando due scenari futuri: uno “ottimista”, in cui gli Stati arabi imparano a convivere con l’instabilità e le crisi in atto, e uno pessimista, caratterizzato dall’emergere di nuove guerre e crisi in Medio Oriente e non solo.
Il “coma” della rivoluzione siriana [a cura di Mauro Primavera]
Come menzionato nel paragrafo precedente, la Siria rappresenta l’emblema del fallimento della politica della Lega Araba. Il problema non riguarda soltanto il processo di “normalizzazione” promosso dal regime di Assad, ma anche la (pessima) condizione dell’opposizione siriana, aggravata dalla recente scomparsa di Riyad al-Turk, storico leader dell’area riformista e socialdemocratica. La testata al-Quds al-‘Arabi si chiede con fare retorico se la rivoluzione del 2011 sia morta oppure si trovi in «sala rianimazione»: persino nei territori controllati dalle milizie anti-Assad (il governatorato di Idlib) «l’opinione pubblica sta ritirando il suo appoggio alla rivoluzione» a causa del malgoverno delle sigle salafite-jihadiste presenti sul territorio. Per l’articolo quest’ultime sarebbero «finte autorità che, pur vestendo i panni della rivoluzione, sono in realtà gruppi di trafficanti che hanno deviato dalla rivoluzione». Anche al-‘Arabi al-Jadid ricorre alle metafore di ambito medico per descrivere la situazione della Siria ormai entrata in uno «stato comatoso», al punto che persino gli eventi della vicina guerra di Gaza sembrano echi lontani: «la Siria dà l’impressione di essere indifferente, come se fosse in una bolla, ripiegata su sé stessa». Per al-‘Ayn al-Ikhbariyya la normalizzazione di Damasco è invece ancora in fieri: lo dimostrerebbe l’ennesimo tentativo di rapprochement con Ankara che, secondo la testata emiratina, non è in grado di far fronte da sola alla questione securitaria dei territori al confine con la Siria (dove sono presenti Tahrir al-Sham e le sigle curde) e per questo potrebbe trovare in Assad un prezioso alleato.
Ennahda cambia nome? [a cura di Mauro Primavera]
In vista delle elezioni presidenziali tunisine che dovrebbero svolgersi il prossimo ottobre Lajmi Lourimi, segretario generale di Ennahda, ha lanciato l’idea di cambiare nome al movimento islamista, senza però fornire ulteriori dettagli in merito. Il partito politico non è nuovo ai rebranding: fondato all’inizio degli anni Ottanta da Rachid Ghannouchi come “Tendenza Islamica”, nel 1989 assunse la denominazione attuale per stemperare i riferimenti alla religione e ottenere il riconoscimento di partito dal regime di Ben ‘Ali. Per il Middle East Online la mossa di Lourimi va interpretata come un tentativo di far uscire il partito dall’influenza di Ghannouchi, attualmente detenuto nelle carceri tunisine. Oltre a sostituire “Ennahda”, il segretario avrebbe intenzione di rinominare il “Consiglio della Shura”, uno dei più importanti organi del movimento, in “Consiglio Nazionale”: si tratta del «tentativo del movimento islamista di assomigliare a un partito laico che separa la religione dalla politica, lasciando intendere che il Consiglio, dominato dagli estremisti, è un organo consultivo e di coordinamento che fa gli interessi della nazione e non quelli dell’agenda ideologica». Per il quotidiano filo-emiratino al-‘Arab il movimento, oggi come allora, promuove un cambiamento di facciata piuttosto che di sostanza: «se davvero Ennahda avesse voluto mutare la sua natura e diventare una formazione autenticamente laica, lo avrebbe fatto dopo la rivoluzione [del 2011] sia con il suo nome attuale sia con uno diverso». Infatti, prosegue l’articolo, la mossa è sintomo di un malessere interno, legato al declino politico di un partito che sta «arretrando, scegliendo di rimanere in silenzio e di fare da spettatore, soprattutto dopo l’arresto nei mesi scorsi della sua leadership storica». Ancora più critico al-‘Ayn al-Ikhbariyya, totalmente ostile all’Islam politico e alla Fratellanza Musulmana, che commenta la notizia con una metafora di grande impatto: «è possibile per un serpente fare a meno del suo veleno anche quando esce dalla sua pelle assumendone una diversa per nascondere con l’inganno le sue origini? È quello che sta facendo invano la Fratellanza di Tunisi che è in crisi totale, stretta tra il rifiuto popolare e le divisioni interne».