Netanyahu ha assimilato gli attuali nemici d’Israele agli amaleciti, la tribù che attaccò gli Israeliti dopo la liberazione dalla schiavitù egizia. Il paragone riapre un antico dibattito esegetico, che ha messo la tradizione ebraica davanti a un grande dilemma morale
Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 10:53:33
L’antefatto
Sabato 28 ottobre 2023 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato una “seconda fase della guerra” a Gaza, che si pone come chiari obiettivi «distruggere le capacità militari e di governo di Hamas e riportare a casa i prigionieri». Il suo discorso è stato caratterizzato da forti dicotomie: «agire, o morire»; la battaglia è stata definita «dell’umanità contro la barbarie», per una vittoria «del bene sul male, della luce sulle tenebre, della vita sulla morte».
Netanyahu ha inoltre aggiunto che
«I meravigliosi soldati ed eroi dello straordinario esercito israeliano […] bramano di ricompensare gli assassini per gli atti orribili che hanno perpetrato sui nostri figli, sulle nostre donne, sui nostri genitori e sui nostri amici […] [i nostri soldati] sono impegnati a sradicare questo male dal mondo, per la nostra esistenza, e aggiungo, per il bene di Tutta l’umanità»[1].
Già solo questo passaggio è ricco di spunti di riflessione. La radice ebraica (come d’altronde quella araba e siriaca, k-m-h) di questa “brama” evocata da Netanyahu deriva dall’idea di offuscamento: un desiderio cieco, legato alla perdita della vista e dei sensi; la formulazione di questa “ricompensa” indica esattamente un ripagare con la stessa moneta, un restituire ciò che è stato compiuto; “l’impegno” o “dedizione” dei soldati israeliani contro il male del mondo deriva dalla stessa radice di “obbligo,” e fa pensare alle parole pronunciate dal primo ministro israeliano Golda Meir nel 1969: «Possiamo capire e perdonar loro [agli arabi] l’uccisione di soldati israeliani. Ma non possiamo perdonar loro per averci obbligato a uccidere i loro bambini»[2].
Il passaggio che ha catturato l’attenzione maggiore è stato però quello immediatamente successivo: Netanyahu ha citato Deuteronomio 25,17: «Ricorda ciò che ti hanno fatto gli Amaleciti». E ha aggiunto: «Ricordiamo e combattiamo»[3].
Chi sono gli Amaleciti?
Secondo la Bibbia gli Amaleciti sono una tribù semi-nomade edomita, stabilitasi nel Negev. Mentre Genesi 14,7 sembra collocare il «campo degli Amaleciti» già ai tempi abramitici, e l’oracolo di Balaam parla di loro come «la prima delle nazioni» (Nm 24,20) altri passaggi (Gn 36,12; 1 Cr 1,36) identificano Amalek, capostipite di questa tribù, come figlio di Elifaz e della sua concubina Timna, e perciò nipote di Esaù, il fratello gemello di Giacobbe (uno dei padri dell’Ebraismo, rinominato da Dio proprio “Israele”).
Secondo i racconti biblici (a partire da Esodo 17,8-16), gli Amaleciti sono la prima tribù a muovere guerra agli Israeliti dopo la liberazione di questi ultimi dalla schiavitù egiziana. Quello degli Amaleciti è un attacco apparentemente ingiustificato e ingiustificabile (ribaltando le dichiarazioni del Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, un attacco “venuto dal nulla”). Non solo: è anche un atto crudele e vile: «Ti attaccò per via, piombando da dietro su tutti i deboli che camminavano per ultimi, quando eri già stanco e sfinito, e non temevano Dio» (Dt 25,17-19).
Poiché gli Israeliti vincono questa «prima prova internazionale per la loro nascente comunità»[4], il Signore comanda a Mosè: «Scrivi questo fatto in un libro, perché se ne conservi il ricordo, e fa’ sapere a Giosuè che io cancellerò interamente sotto il cielo la memoria di Amalek», poiché «il Signore farà guerra ad Amalek di generazione in generazione» (Es 17,14-16).
Eppure, in Deuteronomio 25,9-19, il Signore sembra già delegare il compito di cancellare «la memoria di Amalek da sotto il cielo» agli Israeliti stessi, una volta che questi ultimi avranno preso possesso della terra promessa[5]. Un compito accompagnato da un monito: non bisogna comportarsi come il primo re di Israele, Saul. Egli perse il regno e morì per spada di un Amalecita (2 Sam 1,1-10) poiché, in sprezzo al comando divino di «sterminare tutto ciò che gli appartiene […] uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini» (1 Sam 15,3), non distrusse completamente Amalek quando poteva, ma risparmiò il suo re, Agag, «e tutto quel che c’era di buono» (1 Sam 15,9).
Anche se Agag sarà successivamente ucciso (squartato) da Samuele (1 Sam 15,33), gli scontri con gli Amaleciti e i loro discendenti continueranno lungo tutto l’Antico Testamento, e altri personaggi biblici (tra cui Davide e i Simeoniti) li sconfiggeranno ripetutamente.
Anche la tradizione arabo-islamica ci consegna qualche dettaglio sugli Amaleciti (‘amālīq): si tratterebbe di un antico popolo preislamico, non menzionato nel Corano che, secondo i resoconti musulmani, fu tra i primi a parlare l’arabo[6].
Ricordati di dimenticare
Nella storia di Amalek salta subito all’occhio un primo aspetto veramente unico. Come si legge anche nel passaggio citato da Netanyahu, la Bibbia ebraica ordina per due volte agli Israeliti di “cancellare” la memoria (zekher) di Amalek[7].
Allora l’Eterno disse a Mosè: «Scrivi questo fatto [la vittoria contro Amalek] in un libro, perché se ne conservi il ricordo, e fa’ sapere a Giosuè che io cancellerò interamente sotto al cielo la memoria di Amalek». Mosè costruì quindi un altare, al quale pose nome: L’Eterno è la mia bandiera; e disse: «La mano è stata alzata contro il trono dell’Eterno, e l’Eterno farà guerra ad Amalek di generazione in generazione» (Es 17,14-16).
Ricordati di ciò che ti fece Amalec […] cancellerai la memoria di Amalec sotto al cielo: non te ne dimenticare! (Dt 25,17-19)
Il tropo biblico di “ricordare” – soprattutto di passare un insegnamento divino di generazione in generazione – è ben noto (l’imperativo zachor appare 169 volte nella Bibbia ebraica)[8]. Ma, come fa notare lo studioso israelo-americano Leon R. Kass, è la prima volta che nel testo biblico si parla di “scrittura”. In questo caso, si tratta di un ricordare molto serio: non basta la memoria orale (comunque citata in riferimento a Giosuè) ma, per la prima volta, ne serve una scritta[9].
Ed è un ricordare paradossale. Con un simile comando, «l’incongruenza è inevitabile»[10]: non dimenticare di cancellare la memoria del tuo nemico. Ricordati di dimenticare. Ma come dimenticare qualcosa che è stato ordinato di ricordare? E come mai Dio garantisce di cancellare la memoria di Amalek, mentre Mosè parla di un Dio che combatterà Amalek di generazione in generazione?
Tali domande hanno generato esegesi infinite, che spaziano da chi definisce questa memoria un “ricordare con dimenticanza” a chi vede in questo paradosso la difficoltà di ricordare ciò che è stato violento e traumatico, proprio come un tentato genocidio (degli Amaleciti) e un genocidio compiuto (degli Israeliti stessi per autodifesa)[11]. Ciò che è certo di questo comando paradossale, è il risultato: Amalek non scompare, né nell’ambito concreto della storia né in quello astratto della scrittura e della memoria.
Al contrario, è ben presente nella liturgia ebraica, e vi torna ciclicamente. Durante lo Shabbat precedente la festa di Purim (detto appunto lo Shabbat Zachor, “del ricordo”), quando viene letto il libro di Ester, alla menzione di Haman (discendente di Amalek), l’uditorio rumoreggia affinché il nome di questo re malvagio venga sì ricordato/menzionato, ma al contempo sovrastato, dimenticato, relegato all’oblio.
Similmente, Amalek è ben presente nella cultura materiale ebraica: gli scribi, come abituale esercizio di riscaldamento della mano scrivevano la parola “Amalek” per poi cancellarla immediatamente, di solito tirandoci delle righe sopra o incidendo il foglio con un raschietto[12].
Queste pratiche sono giustamente state definite un «colpo di genio della tradizione rabbinica»[13]: lungo tutta la storia di impotenza militare di una popolazione sempre minoritaria, la tradizione ebraica ha saggiamente costruito un Amalek che potesse essere “cancellato” con qualche riga su di un foglio o con un po’ di rumore durante un rito. Ma cosa succede ora, nel momento in cui uno Stato-nazione dotato di un forte esercito come Israele può sterminare un Amalek, qualora potesse e volesse identificarne uno come ha fatto Netanyahu?
Amalek e il problema del Male
Questa storia pone infatti la tradizione ebraica davanti a un problema morale fondamentale: cosa fare di Amalek? Come si risponde al Male?[14] Interpretando il comando divino in modo letterale e fondamentalista, come fa Netanyahu, la «cancellazione della memoria di Amalek da sotto il cielo», pena la propria sconfitta, è un obbligo divino. In termini moderni, Dio comanda di compiere un genocidio. Una tale formulazione non è un’esagerazione: la vicenda di Amalek è infatti stata più volte indicata dalla stessa tradizione ebraica come uno dei passaggi più problematici della Torah, e il cosiddetto “comandamento (mitzvah) del genocidio”, è stato al centro di nutrite discussioni e interpretazioni.
Il rabbino ortodosso Michael J. Harris, nel riassumere queste molteplici interpretazioni, fa notare come la tendenza esegetica predominante – riscontrabile in illustri esegeti “classici” come Rashi (m. 1105), Rashbam (m. 1158) e Shlomo Ephraim Luntschitz (m. 1619) –, sia quella di passare sotto silenzio, quasi a ignorare, le implicazioni genocide di questo passaggio biblico e il conseguente dilemma morale su come trattare Amalek. Secondo Harris, questo silenzio sarebbe un modo di ridimensionare quella che è chiaramente un’ingiunzione dissonante con il messaggio biblico più ampio di un Dio che comanda di non vendicarsi e di non uccidere[15].
Eppure, al di là di questa “tendenza silente”, le posizioni di chi invece affronta il dilemma direttamente sono molte e ben variegate: si passa dall’accettazione totale, all’approvazione, ai tentativi di giustificazione, alla moralizzazione, alla negazione e all’aperta opposizione di questo comandamento[16].
In altre parole, sin dal midrash classico, si nota una tendenza a “espandere” o “contrarre” l’ingiunzione a seconda dell’interpretazione, limitandone la portata o l’applicazione. Ad esempio: se ne espande l’estensione (ogni gruppo che vuole distruggere Israele è Amalek) o la si restringe (si distrugge solo lo “spirito” o “l’opera” di Amalek); oppure se ne contrae il contenuto (l’ingiunzione non è di sterminare, ma di autodifendersi); si “storicizza” Amalek nel passato (non può essere più sterminato perché è già stato sterminato) o lo si “escatologizza” nel futuro (Amalek non può essere sterminato dall’essere umano, ma solo da Dio, alla fine dei tempi)[17].
Una tendenza importante è anche quella spirituale (o simbolica, mitologica, e psicologica), tipica degli insegnamenti cabalistici e chassidici: Amalek non è un’entità esterna, ma interiore. Come tale, è parte di noi, ed è questo male che deve essere estirpato (è naturale qui il parallelismo con la nozione islamica di jihād maggiore-spirituale, opposto al jihād minore-bellico)[18]. Amalek è dunque contrapposto all’“Amalechismo” (Amalekut), o l’Amalek “storico” e originario a quello figurato: sradicare il male non significa sterminare il peccatore ma sradicare il peccato[19].
Ribaltando la prospettiva, alcuni esegeti e studiosi si sono spinti fino a “redimere” (tikkun) Amalek e la sua discendenza[20], ricordando quello sforzo ermeneutico che Edward Said descriveva come il «leggere la Bibbia con gli occhi dei Cananei»[21]: ecco allora che gli Amaleciti non stanno vilmente attaccando, ma si stanno difendendo loro stessi dall’invasione di un popolo di ex-schiavi (gli Israeliti, appunto) che dall’Egitto stava entrando nel Negev[22]; oppure ecco che i discendenti di Amalek e di Haman appaiono in alcuni insegnamenti rabbinici a studiare devotamente la Torah nelle scuole (ultraortodosse) di Bnei Brak[23]; o ancora che gli Amaleciti combattono al fianco di Ephraim (e dunque di Israele) nel canto di Debora (Gdc 5)[24].
Ma il più comune tentativo di redimere gli Amaleciti avviene attraverso la comprensione di questa tribù nel suo vissuto, dal loro punto di vista. La violenza non è certamente giustificata, ma è contestualizzata in un rancore omicida con delle radici ben più profonde (“non dal nulla,” parafrasando Guterres). In questo senso, alcuni commentatori indicano un passaggio del Talmud babilonese (Sanhedrin 99b) in cui si narra del tentativo di conversione di Timna, la madre di Amalek:
Timna cercò di convertirsi. Ella si presentò ad Abramo, Isacco e Giacobbe, ma essi non l’accettarono. Ella allora se ne andò, e divenne concubina di Elifaz, figlio di Esaù. Disse, riferendosi a sé stessa: «È preferibile che sia una serva per questa nazione, e non una nobildonna per un’altra nazione». Da lei sorse infine Amalek, figlio di Elifaz. Quella tribù afflisse il popolo ebraico. Qual è la ragione per cui il popolo ebraico fu punito soffrendo per mano di Amalek? Ciò è dovuto al fatto che non avrebbero dovuto respingere Timna quando ella cercò di convertirsi.
Altri esegeti invece scavano più indietro nel tempo: gli Amaleciti sono parenti di sangue degli Israeliti, dei cugini lontani. Amalek è infatti un edomita, nipote di Esaù, e in quanto tale, sarebbe l’erede del rancore di Esaù nei confronti di Giacobbe (Israele), che gli aveva rubato con un inganno la benedizione del padre Isacco.
Infine – ma si potrebbe continuare a lungo – si è parlato di una «svolta cruciale nella tradizione rabbinica su Amalek»[25] con l’accettazione dell’assoluta impossibilità di identificare con certezza qualsiasi nazione esistente come Amalek a seguito della dispersione delle tribù d’Israele[26].
Come è stato giustamente sintetizzato da Martin S. Jaffee, professore emerito di Religioni comparate dell’Università di Washington, la tradizione ebraica in tutte le sue forme canoniche sembra quasi ossessivamente preoccupata di limitare o ridefinire totalmente le implicazioni letterali dell’obbligo di sterminio dei discendenti di Amalek[27]. Una preoccupazione che non pare essere quella di Netanyahu il quale, avvallando un approccio fondamentalista, ignora volutamente secoli di esegesi.
Dalla “de-nominazione” alla “disumanizzazione”
È esattamente un approccio come quello di Netanyahu – che strizza l’occhio al rinnovato messianismo ebraico – ad aver portato all’associazione di Amalek, nella tradizione ebraica, all’«avversario eterno»[28], all’«eterno antisemita»[29], alla personificazione fisica e spirituale del male[30] e, in definitiva, «all’espediente retorico nell’arsenale dell’Ebraismo per parlare di assoluta spietatezza e disumanità»[31].
Il risultato più problematico di un simile approccio ha generato, nei secoli, un processo di “de-nominazione” attraverso il quale l’antico nemico è stato associato con i nemici (storici) del popolo ebraico[32]. Come riassume il rabbino Wolf Gunther Plaut (m. 2012) nel suo La Torah: Un commento moderno:
L’antico Amalek è apparso e riapparso nella storia ebraica in molte forme e aspetti: indossava l’anello con sigillo del re come Haman; la corona reale come Antioco; l’uniforme del generale come Tito; la toga dell’imperatore come Adriano; la veste sacerdotale come Torquemada; gli stivali del cosacco come Chmielnitzki; o la camicia marrone come Hitler. Tutti loro avevano in comune l’odio verso gli ebrei e il giudaismo, e tutti fallirono nel loro obiettivo di schiacciare la fede e il popolo di Dio[33].
Come una rapida ricerca online può dimostrare, questa lista di arcinemici del popolo ebraico e di rappresentati dell’antisemitismo è in continuo aggiornamento: Amalek è stato il Mufti di Gerusalemme, la Germania prima e dopo l’olocausto, Gamal Abdel Nasser, Yassir Arafat, Saddam Hussein e Bin Laden. Lo stesso Netanyahu è già ricorso in passato alla strumentalizzazione politica di questo personaggio biblico: prima di identificarlo con Hamas, Ahmadinejad e il governo iraniano sono stati per lui il nuovo Amalek. Così come è frequente che l’appellativo Amalek risuoni ancora oggi nei discorsi di alcuni ebrei estremisti come nome in codice per i palestinesi[34] o delle «ONG che chiamano “autodifesa” i crimini di guerra»[35].
Ancor più degno di nota è la considerevole dilatazione registratasi in questo processo di “de-nominazione”, in particolare nell’era post-olocausto, fino al punto di includere i propri correligionari: la storica israelo-argentina Dina Porat ha evidenziato come, tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80, i circoli ultra-ortodossi e anti-sionisti in Israele rilanciarono con fervore la loro campagna di accuse contro il sionismo stesso, definendolo «complice di Amalek» (di Hitler) nella distruzione dell’ebraismo europeo[36]. Similmente, lo “spirito di Amalek” è oggi invocato da voci ebraiche critiche verso l’occupazione israeliana dei territori palestinesi da parte dei coloni[37].
Questo processo di “amalecizzazione” porta però a una «trasformazione demonizzante»[38], a una «spersonalizzazione» e in definitiva a una «disumanizzazione»[39]. L’“amalechismo” diventa perciò il pensiero apolitico che essenzializza il nemico, senza concedergli possibilità di riscatto[40]. Amalek è destinato a rimanere il cuginastro sgradito, la discendenza del fratello non scelto, il “rifiutato”, che specularmente consolida l’Eletto[41]. In maniera ancora più pericolosa (e arrogante), definendo un popolo amalecita, lo si confina fuori dalla portata del perdono divino, e fuori dall’universo dell’obbligo morale: tutto è giustificato e giustificabile se il fine è estirpare il Male[42].
La sindrome di Amalek
Come nota l’ebraista Joel S. Kaminsky, questo processo di “amalecizzazione” (fino all’estrema “sindrome di Amalek”)[43], che eleva i mali storici a mali cosmici, è prima di tutto una strategia di sopravvivenza delle comunità attraverso il bisogno di dare significato a tragedie ricorrenti: Amalek continua a essere utilizzato oggi come il «capro espiatorio psicologico» attraverso il quale si definisce l’autopercezione e si consolida l’autodefinizione di un individuo o di una collettività[44].
Questo processo è brillantemente illustrato dalla professoressa di studi biblici Gili Kugler, dell’Università di Haifa, in un testo apparso sul Journal of Genocide Research, dall’eloquente titolo “Odio metafisico e genocidio sacro: il ruolo discutibile di Amalek nella letteratura biblica”[45]. Secondo Kugler, storie di odio metafisico come quella di Amalek soddisfano un bisogno politico, emotivo e psicologico: è essenziale che il nemico rimanga in vita e continui a riemergere, poiché la sua stessa esistenza minacciosa mantiene l’integrità della sua controparte, la vittima. E d’altro canto, proprio questo nemico speculare è la finestra privilegiata dalla quale comprendere la società che odia e le sue divisioni interne. Attraverso un’attenta esegesi biblica, Kugler dimostra infatti come ad Amalek sia stato assegnato un «ruolo metafisico poco lusinghiero» nell’ambito di una «guerra virtuale» tra gli scrittori davidici e i sostenitori di Saul. In questa lotta di potere, Amalek è divenuto «una misura ritenuta oggettiva delle prestazioni del sovrano preferito».
Kugler conclude perciò che i testi biblici, più che parlarci di chi sia effettivamente Amalek, rivelano qualcosa di molto più significativo sugli avversari degli Amaleciti (cioè gli Israeliti e le loro divisioni interne), che usavano le storie di guerra e di genocidio come mezzi per soddisfare esigenze interne, in particolare per mantenere il potere autoritario e per stabilire una struttura politica. Così come la retorica di Amalek ci parla delle lotte interne tra scrittori biblici di millenni fa, così la de-nominazione di Amalek alimenta gli estremisti dell’attuale conflitto israelo-palestinese, come afferma lo storico ebraista ed esperto di genocidi Henry F. Knight:
La mitizzazione di un conflitto molto difficile non fa altro che peggiorare il conflitto, renderlo più intrattabile, mettendo due gruppi in contrasto tra loro, ognuno dei quali accusa l’altro di essere contrario alla loro reciproca esistenza. Quando ciò accade, ogni gruppo è spinto da queste dinamiche mitiche ad accusare l’altro di essere la sua paura definitiva[46].
Uscire dal paradigma di Amalek
Il “caso Amalek” getta dunque luce sulle strategie ermeneutiche dei grandi pensatori dell’Ebraismo, sulla rilevanza dei presupposti morali dell’individuo nell’interpretazione dei comandamenti della Torah, sul controllo delle emozioni (ad esempio il desiderio di vendetta) di un ebreo osservante, sul volontarismo teologico, e sulle divisioni interne di entrambi le parti in conflitto. Ma non risponde alla domanda più pressante oggi:
La nostra è l’epoca del post-olocausto, l’epoca del jihad e della “pulizia etnica,” l’epoca dei fondamentalisti e degli zeloti religiosi e delle vittime innocenti. Come dovremmo riscrivere la storia di Amalek per i nostri giorni?[47]
Una possibile risposta, felicemente formulata dal rabbino tedesco Samson Raphael Hirsch (m. 1888), figura notevole dell’ebraismo “neo-ortodosso”, è ricordarsi di non diventare Amalek, cioè di non diventare ciò che si è deciso di combattere[48]. Se l’assalto di Amalek al nuovo nomade Israele nel deserto incarna la violenza contro i vulnerabili, allora Amalek serve a ricordare di non opprimere i vulnerabili. Ricordare Amalek è dunque un monito a non diventare come lui.
Come fa notare Kugler, questo monito lo troviamo nell’ultima (cronologicamente) allusione biblica agli Amaleciti, il giorno in cui «avvenne invece tutto il contrario»: il discendente degli Amaleciti Haman non riesce a compiere il suo massacro ma è invece catturato e giustiziato da Mardocheo insieme alla famiglia e a decine di altre persone (Est 9,6). I ruoli si sono invertiti[49].
Questa intercambiabilità dei destini del carnefice e della vittima è racchiusa in quell’ingiunzione talmudica (babilonese) che prevede, durante la festa di Purim, di ubriacarsi fino al punto da non distinguere il cattivo Haman dal buono Mardocheo[50]. Essere consapevoli di questo labile confine spinge allora ad uscire dal “paradigma di Amalek”. Come spiega il filosofo israelo-americano Yoram Hazony nel suo God and Politics in Esther:
Ciò che Amalek rappresenta è la posizione più antica della filosofia morale: la negazione che, tutto sommato, ci sia qualcosa da temere riguardo a qualsiasi linea morale che possa essere tracciata, dal momento che è la stretta aderenza a evidenti interessi personali o politici che premia maggiormente – la tesi che “il crimine paga”. Al contrario, la posizione degli ebrei è che i confini morali non sono solo riconoscibili, ma anche pericolosi: vale a dire che la violazione di tale linea di demarcazione nel proprio comportamento è di per sé, tutto sommato, sufficientemente imprudente da dover essere temuta, rendendo di fatto la vita entro i confini delle linee di limitazione morale una questione di interesse personale e politico in questo mondo - la tesi che “il crimine non paga”[51].
Il “paradigma di Amalek,” ossia non riconoscere i limiti morali, porta in ultima istanza alla distruzione anche dei suoi aderenti in questo mondo. È in quest’ottica che Hazony legge la profezia poetica di Balaam (Nm 24,20): «Amalek è la prima delle nazioni, ma il suo avvenire sarà eterna rovina». Se si parte dalle premesse amalecite, il risultato sarà solo autodistruttivo[52].
Dalla paura alla mitezza
Da storico delle emozioni, mi colpisce un passaggio in particolare della vicenda di Amalek, con il quale desidero concludere. Sappiamo poco degli Amaleciti, ma sappiamo bene che «non temevano Dio» (Dt 25,19).
Hazony osserva sagacemente che non sappiamo se e quale Dio o dei adorassero gli Amaleciti ma, qualunque essi fossero, a essere certo è che essi non temevano alcun limite morale imposto da queste divinità, nemmeno quello di un genocidio. A differenza loro però, quando ancora gli Israeliti erano schiavi in Egitto, due persone che «temono Dio» evitano di compiere un genocidio: sono le due levatrici degli Ebrei, Sifra e Pua. Esse mentono al Faraone, e impediscono il massacro di tutti i bambini israeliti maschi. Anche se non mi spingerei lontano come il rabbino Jack H. Bloom nell’affermare che il testo biblico non specifica se siano gli Israeliti o Amalek a «non temere Dio»[53], riconosco che proprio questo timore di Dio sembra essere il sentimento chiave che spezza il paradigma di Amalek.
“Temere Dio”, nelle tre tradizioni monoteiste, significa principalmente riconoscere la propria finitudine e dunque non sostituirsi a Dio. Le levatrici non si sostituiscono a Dio, come invece comanda loro il sostituto di Dio in terra, il Faraone. Non decidono della morte altrui, poiché non è compito umano. Al contrario, è tenera la bugia che si inventano pur di salvare la vita dei neonati: «Le donne ebree non sono come le egiziane, ma sono piene di vita. Prima che arrivi presso di loro la levatrice, hanno già partorito!» (Es 1,19).
In questo eterno conflitto tra Amalek e gli Israeliti per questa Terra che va dal fiume al mare (Dt 11,24), le persone che riescono a spezzare il paradigma di Amalek non sono i potenti che usano la spada, ma i timorati di Dio che salvano vite. Non è un caso che la ricompensa che Dio dà alle levatrici è quella di diventare a loro volta madri. Vita che genera vita, opposta al paradigma di Amalek di morte che chiama morte.
In tutto il testo biblico la vita è associata con il giusto, la morte con l’empio. Né è un esempio il Salmo 37, che presenta questa dicotomia. A differenza di quella di Netanyahu (male-bene), è una dicotomia che arma gli operatori di pace.
In Salmo ci ricorda infatti che la terra non si conquista, ma si eredita (Salmo 37,11). E non la ereditano gli arroganti, i violenti, i malvagi, gli empi di qualunque fazione. Essi «appassiranno come l’erba verde» (37,2) e «la loro discendenza sarà sterminata», (37,9) in una logica auto-distruttiva. La terra la erediteranno due tipi di persone:
gli anavim, i “miti” (37,11) La stessa radice semitica (ʕnw) che indica gli oppressi e gli afflitti. L’unico punto di partenza politico per «godere di una grande pace» (37,11).
E i saddīqīm, i “giusti” (37,29), coloro che «cessano l’ira, lasciano lo sdegno, non si adirano» poiché sanno che «ciò spingerebbe anche te a compiere il male!» (37,8). Li renderebbe Amalek.
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