Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale
Ultimo aggiornamento: 28/03/2024 15:48:26
Dopo cinque mesi di paralisi, provocata dai veti posti dagli Stati Uniti (ma in un’occasione anche da Cina e Russia), il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che chiede il cessate il fuoco a Gaza fino alla fine di Ramadan e il rilascio degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas. Decisiva, questa volta, l’astensione proprio degli Stati Uniti, mentre tutti gli altri 14 componenti del Consiglio hanno votato a favore. Nonostante il portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale John Kirby abbia precisato che l’astensione non configuri alcun cambio nella politica estera statunitense, sia la reazione di Israele che la maggior parte dei commenti degli esperti lasciano intendere il contrario. Come ha spiegato il Washington Post, secondo il diritto internazionale le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono vincolanti, ma sono anche regolarmente ignorate, e infatti la guerra continua. Il peso politico della decisione americana, tuttavia, è innegabile.
È lo stesso Netanyahu a sottolineare la novità: l’astensione americana delinea «un chiaro allontanamento dalla posizione degli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza dall’inizio della guerra». L’Associated Press, tra gli altri, ha sottolineato come la svolta sia giunta dopo mesi nei quali è stata sempre più evidente l’insofferenza della Casa Bianca, e di Biden in particolare, nei confronti delle politiche di Israele. L’ultimo episodio risale alla settimana scorsa quando, proprio durante una visita del Segretario di Stato americano Antony Blinken, Netanyahu si era rifiutato di riconsiderare la sua intenzione di attaccare Rafah. Ma perché gli Stati Uniti si sono astenuti anziché votare a favore? In primo luogo perché la risoluzione, nell’interpretazione americana, non condanna esplicitamente Hamas. In secondo luogo, per il timore che la decisione dell’ONU limiti la possibilità di raggiungere un accordo più ampio per la cessazione delle ostilità: se fosse messa in atto (e purtroppo non lo sarà), la risoluzione prevedrebbe la pausa dei combattimenti fino al 9 aprile. Solo due settimane di stop. Un timore giustificato dalla reazione israeliana, che il giorno dopo il voto all’ONU ha ritirato la sua delegazione di negoziatori presenti a Doha. Il Times of Israel ha tuttavia indicato che un piccolo gruppo di uomini del Mossad è restato in Qatar e che Majed al-Ansari, portavoce del Ministero degli Esteri dell’emirato, ha dichiarato che i negoziati proseguono, pur senza fornire dettagli su chi sarebbe coinvolto in questa fase. Da parte sua Hamas ha accolto con favore la risoluzione del Consiglio di Sicurezza, ma ha sottolineato che il suo obiettivo è un cessate il fuoco permanente. Dopo i negoziati tra le parti coinvolte nel Consiglio di Sicurezza, e in seguito a diverse proposte di formulazione, la risoluzione parla di un «lasting, sustainable, ceasefire» ma non è chiaro cosa indichi, con precisione, quel lasting.
Nonostante dalla Casa Bianca minimizzino la portata della risoluzione approvata, il risultato secondo Le Monde è chiarissimo: «Israele è esposto e solo». Il Wall Street Journal è estremamente critico nella valutazione dell’operato di Washington: nella risoluzione la richiesta di un cessate il fuoco è slegata dal rilascio degli ostaggi, il secondo non è la condizione per il primo e si tratta di due richieste separate. Il problema secondo il quotidiano finanziario è che «la pressione diplomatica nei confronti di Hamas sarà priva di significato», mentre quella esercitata nei confronti dello Stato ebraico «può essere pericolosa». Netanyahu ha espresso qualcosa di simile: secondo il primo ministro israeliano, la risoluzione fa sorgere in Hamas la speranza che la pressione internazionale possa portare a un cessate il fuoco che non preveda contestualmente il rilascio degli ostaggi. È così che Biden si è allontanato da Israele secondo il WSJ, «un mezzo passo alla volta». Viene da chiedersi se Israele abbia provato a far qualcosa per convincere gli americani a restare sulle sue stesse posizioni anche all’ONU. D’altro canto, c’è da sottolineare che mentre a parole le tensioni aumentano, le policies dicono altro: come ha ricordato Jon Hoffman su Foreign Policy, al di là di prese di posizione simboliche, gli Stati Uniti continuano a fornire un’enorme assistenza militare a Israele. Eppure, più gli Stati Uniti esprimono la loro disapprovazione su alcuni aspetti della politica israeliana, più lo Stato ebraico continua per la sua strada. Uno degli esempi citati da Hoffman è la condanna americana della politica sugli insediamenti israeliani: non appena Washington ha sanzionato alcuni coloni e Biden ha ricordato l’illegalità degli insediamenti dal punto di vista del diritto internazionale, il governo israeliano ha approvato un piano per finanziare altre 3.400 abitazioni in Cisgiordania. Anche la reazione israeliana alla risoluzione è stata durissima, fermo restando che, con ogni probabilità, essa sarà semplicemente ignorata. Netanyahu ha inizialmente cancellato il viaggio a Washington di Ron Dermer, principale figura di collegamento tra Israele e Stati Uniti, e del consigliere per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi, i quali avrebbero dovuto recarsi in America proprio per discutere i dettagli dell’operazione su Rafah. La missione è stata poi riapprovata giovedì. È significativo, però, che un altro membro del governo israeliano si sia recato negli Stati Uniti mentre Dermer e Hanegbi erano bloccati: si tratta del ministro della Difesa Yoav Gallant che, come abbiamo spiegato in una precedente puntata del focus attualità, è una figura chiave per gli equilibri politici all’interno della coalizione di governo. Gallant ha parlato con l’omologo americano e ha avanzato le richieste israeliane per l’acquisto di nuovi armamenti (inclusi aerei da combattimento F35 e F15). Lloyd Austin ha invece comunicato alla controparte che per gli Stati Uniti il bilancio dei morti palestinesi è «troppo alto» e che la Casa Bianca resta contraria all’offensiva su Rafah. Dall’altro lato dello schieramento, il capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh si è recato in visita a Teheran, dove ha incontrato la Guida suprema Ali Khamenei e il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian. Durante il suo colloquio con Khamenei, Haniyeh ha rivendicato la bontà (sic!) dell’attacco del 7 ottobre, che avrebbe «infranto il mito dell’invincibilità del regime sionista». Khamenei ha invece lodato la «resilienza» di Hamas e dei palestinesi, un «fenomeno davvero magnifico». Tuttavia, al di là delle dichiarazioni, il cosiddetto Asse della Resistenza ha diversi problemi di coordinamento. Un fatto avvenuto questa settimana lo testimonia: nonostante la notizia di un accordo appositamente siglato tra Houthi, Russia, Cina e Iran, per salvaguardare i cargo russi e cinesi in transito nel Mar Rosso, in questi giorni una nave cinese è stata bersaglio dei missili lanciati dallo Yemen.
Gallant ha diverse altre preoccupazioni a cui badare: come riportato da Reuters, anche tra alcuni militari israeliani inizia a serpeggiare il malcontento nei confronti della leadership politica del Paese. Il primo a dirlo chiaramente è stato il generale Dan Goldfus, il quale in diretta televisiva ha invitato tutti i politici a unirsi e rifiutare l’estremismo. «Dovete essere degni di noi. Dovete essere degni di quei combattenti che hanno perso la vita» in guerra, ha detto Golffus rivolgendosi ai politici. Le frizioni non riguardano soltanto la definizione di una strategia chiara, che sembra ancora assente, ma anche le «difficoltà economiche cui vanno incontro i riservisti» e, soprattutto, la riforma della coscrizione militare, che secondo la Corte Suprema deve essere approvata entro il 31 marzo. È stato proprio Gallant ad allinearsi con Benny Gantz nella richiesta al governo di una riforma più equa: al momento gli ebrei ultraortodossi, sul cui sostegno si basa la coalizione di governo, sono esclusi dalla leva. Il Gran Rabbino sefardita d’Israele Yitzhak Yosef ha messo in chiaro il punto di vista degli Haredi: «Se costringete [gli ultraortodossi] ad andare nell’esercito, ci trasferiremo tutti all’estero. Lo Stato si fonda sullo studio della Torah e senza la Torah non ci sarebbe stato alcun successo per l’esercito». La nuova bozza proposta dal governo prevede tra le altre cose obiettivi di reclutamento annuali che contribuiscano a un «aumento graduale e significativo» del reclutamento degli ultraortodossi, imponendo sanzioni economiche alle yeshiva i cui studenti non si arruolassero. Una proposta che scontenta tutti, dagli Haredi, che rischiano di dover entrare nell’esercito, all’opposizione che, come ha affermato Benny Gantz, la ritiene un compromesso politico al ribasso e non una soluzione al problema della leva per tutta la società. «Politicamente, questa è la più concreta minaccia al governo» israeliano, ha detto Gilad Malach (Israel Democracy Institute).
Il ritorno dell’ISIS inizia dal “Khorasan” [a cura di Mauro Primavera]
Dopo il grave attentato al Crocus Concert Hall di Mosca rivendicato dallo Stato Islamico (provincia del Khorasan, ISKP), la stampa internazionale si interroga sulle conseguenze politiche che questo evento potrebbe generare in Russia, ma anche sulle sue diramazioni internazionali, dalla supposta connivenza della Turchia al ritorno del terrorismo jihadista sulla scena globale. Le responsabilità del capo dello Stato Vladimir Putin, “riconfermato” a larghissima maggioranza dal voto delle recenti elezioni presidenziali, rappresentano naturalmente il punto centrale della questione. Se The Atlantic definisce la tragedia come l’«umiliazione di Putin», per Politico essa potrebbe rafforzare ulteriormente la sua posizione: in passato Putin aveva “sfruttato” gli attentati terroristici per incrementare il suo potere e la repressione autoritaria del governo. Ancora più severo il commento dell’Economist: «l’attacco rappresenta un colpo basso alla reputazione di Putin e ai suoi apparati di sicurezza. Le modalità dell’assalto, in cui hanno perso la vita almeno 137 persone, non saranno dimenticate così presto». Inoltre il (maldestro) tentativo del presidente di addossare la colpa sull’Ucraina non ha retto alla prova dei fatti.
La testata turca Daily Sabah cerca di smontare le ipotesi di una possibile radicalizzazione degli attentatori del Crocus in Turchia, che è stata «uno dei primi ad aver classificato Daesh, nel 2013, come gruppo terrorista», tanto che ancora adesso viene considerato dal governo come «la seconda minaccia più grave» del Paese. L’articolo smentisce in maniera categorica la pista della radicalizzazione turca, spiegando che il soggiorno del commando tagiko in Turchia è stato troppo breve per poter essere collegato all’operazione terroristica. Piuttosto – osserva la testata – «è interessante notare come lo Stato Islamico, pur definendosi una forza antiamericana, compia periodicamente attacchi nella stessa regione: Turchia, Iran, Afghanistan e Russia». La testata cinese Global Times non scade nel complottismo, ma rimprovera l’Occidente di scarsa collaborazione: «i fatti dimostrano che adottare doppiopesismi e trattare le questioni di antiterrorismo in maniera selettiva permette di fatto l’espansione del fenomeno e mina l’efficacia della cooperazione internazionale sull’adozione delle misure anti-terroristiche». La Casa Bianca fa tuttavia notare come la strategia statunitense, che è riuscita a «tenere sotto controllo la minaccia dell’ISKP anche dopo il ritiro delle truppe dal Medio Oriente», è talmente efficace da essere stata in grado di informare per tempo Mosca di possibili attentati in territorio russo. Per Ria Novosti, una delle agenzie stampa dello Stato russo, è evidente come l’attentato giochi a vantaggio dell’Occidente: esso «non solo distoglie la nostra attenzione dall’Ucraina e dall’Occidente» ma lascia passare un messaggio pericoloso, ossia che il mondo musulmano e il Sud Globale, coi quali la Russia si sta alleando in funzione antioccidentale, non sono affidabili. Un altro articolo della testata da una parte ammette che il «problema dell’immigrazione irregolare» esiste, ma dall’altra nega la matrice jihadista: gli esecutori dell’attacco, infatti, «non sono combattenti ideologizzati, ma dei meri mercenari» che agiscono per denaro. A tal proposito il quotidiano francese Le Monde definisce la narrazione del Cremlino come “terrorismo artificiale”: la motivazione religiosa viene minimizzata, se non del tutto negata, in modo da creare un nesso logico con i “veri mandanti” dell’attentato: l’Ucraina e l’Occidente. Un gioco di contrapposizioni ereditato dalla mentalità sovietica, ma che è fondamentale per mantenere compatto l’establishment e al contempo nascondere le evidenti mancanze degli apparati di sicurezza e intelligence. Dopotutto, le motivazioni che hanno spinto l’ISIS a colpire la Russia ci sono: «oltre a essere un Paese cristiano e ad avere una relazione privilegiata con l’Iran, nemico dello Stato Islamico, Mosca ha combattuto i mujahidin in Afghanistan, Cecenia, Asia Centrale e Sahel».
Quest’ultimo aspetto viene analizzato in dettaglio da Ibrahim al-Marashi, professore di “storia e studi globali” presso la California State University. Per lo studioso, le origini dell’attentato vanno rintracciate nella storia recente dell’Asia centrale. In primo luogo, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, durata dal 1979 al 1989, che destabilizzò a lungo il Paese asiatico, consentendo ad al-Qaida di stringere negli anni Novanta una «tacita alleanza» con il movimento dei Taliban. In secondo luogo, l’intervento russo intervenne nella guerra civile in Tajikistan che aggravò la già precaria situazione socioeconomica del neonato Stato post-sovietico. A partire dal 2015, diversi talebani e qaedisti abbandonarono le loro formazioni per creare la filiale locale dello Stato Islamico, la “Provincia del Khorasan”, dalla marcata postura antirussa, come dimostra l’attentato suicida del settembre 2022 all’ambasciata russa di Kabul e il tentato attacco a una sinagoga moscovita sventato poche settimane fa. «Gli attacchi a Mosca – conclude al-Marashi – evidenziano la marginalità dei tagiki in Russia e come questi rappresentino un gruppo vulnerabile che può essere mobilitato sia dallo Stato russo sia da quello Islamico. I fatti del Crocus segnano, come scrive il giornalista di Newsweek Tom O’Connor, il “ritorno” dell’ISIS sulla scena globale proprio nel momento in cui gli occhi del mondo erano puntati sul conflitto tra Israele e Hamas. E di ritorno parla anche la giornalista australiana Lynne O’Donnel per Foreign Policy a proposito di al-Qaida: l’organizzazione «is back» in Afghanistan e, per finanziarsi, ha avviato una serie di attività molto redditizie, come il narcotraffico e soprattutto lo sfruttamento delle risorse minerarie del Paese. Per dare un’idea della rinnovata forza economica, soltanto l’estrazione di oro e di pietre preziose dalle miniere afghane genera ricavi quantificabili in decine di milioni di dollari alla settimana. Inoltre al-Qaida, proprio come faceva prima dell’11 settembre, ha riaperto dei veri e propri campi di addestramento che attraggono miliziani yemeniti, libici, somali e palestinesi.
Senegal: un presidente di rottura che punta alla riconciliazione [a cura di Claudio Fontana]
La vittoria di Bassirou Diomaye Faye è per certi versi clamorosa. A soli 10 giorni dalle elezioni, Faye era ancora detenuto nella prigione di Cap Manuel, nella zona meridionale di Dakar. Ma non sono solo le tempistiche incredibili a rendere speciale questa elezione. L’eccezionalità della vittoria di Diomaye può essere misurata con le parole di Alex Thurston, professore di Scienza Politica e grande esperto dei sistemi politici africani: «in Africa Occidentale, mi aspetto che la maggior parte delle volte i governanti uscenti vincano, e che i brogli, le intimidazioni e la manipolazione del campo di gioco distorcano i risultati. Ma non è sempre così». Si coglie così il sospiro di sollievo di molti osservatori della regione, i quali, dopo il rinvio delle elezioni disposto dal presidente uscente Macky Sall, temevano per la tenuta della democrazia senegalese. Prima ancora che la commissione elettorale si pronunciasse sull’esito del voto, il principale avversario di Faye, Amadou Ba, espressione di continuità rispetto alla presidenza uscente, si è pubblicamente congratulato con Faye, aprendo la strada a un passaggio di consegne ordinato. Anche Macky Sall ha fatto le sue congratulazioni a Faye, affermando che l’andamento delle elezioni è una «vittoria della democrazia senegalese». Come ricorda il New York Times, l’elezione di Faye è anche un successo per Ousmane Sonko, il principale esponente dell’opposizione senegalese a cui è stato impedito di competere: «Diomaye è Sonko», si leggeva sui cartelloni esposti in Senegal. Secondo Jeune Afrique, la vittoria di Diomaye sublima una tendenza emersa sullo scenario politico senegalese contestualmente alla comparsa sulla scena di Sonko: la volontà degli elettori di cambiare il paradigma della vita politica del Paese. In campagna elettorale Diomaye Faye aveva puntato su aspetti come la necessità di ottenere la sovranità monetaria da parte del Senegal (che adotta il franco CFA) e la rinegoziazione dei contratti con le compagnie petrolifere straniere. Ora Faye ha abbassato i toni: Dakar «resterà il Paese amico e l’alleato sicuro e affidabile di tutti i partner che si coinvolgeranno con noi in una cooperazione virtuosa, rispettosa e mutualmente produttiva». Inoltre, Faye ha sottolineato come la «riconciliazione nazionale» sia una sua priorità. Ma il punto fondamentale è quello evidenziato da Le Monde: la tradizione democratica senegalese era stata messa in pericolo ma, alla fine, il sistema ha retto.