Il celebre mistico persiano, fondatore dell’ordine dei dervisci, si confronta con la tradizione pittorica bizantina, che continuò a fiorire in Anatolia anche dopo la conquista islamica
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:15
Questo articolo inaugura la serie “L’angolo dei giovani studiosi”, che raccoglie contributi scritti da promettenti neo-laureati a partire dalle loro tesi.
Martino Masolo ha conseguito nel luglio 2020 la Laurea triennale in Lingue, Culture e Società dell'Asia e dell’Africa Mediterranea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con la tesi “Rūmī e l’icona. Considerazioni riguardo alla cultura visuale nel sultanato di Rum”, relatore: prof. Stefano Pellò.
La penisola anatolica, strappata dai turchi selgiuchidi ai bizantini, venne conosciuta per tutto il Medioevo come “le terre di Rūm”. Il nome deriva da Rōmaios (pronuncia Roméos), “Romano”, nome che i sudditi dell’Impero d’Oriente, di etnia greca, mantennero con orgoglio anche dopo la caduta dell’impero. Da qui deriva il termine arabo-persiano rūmī, “originario dell’Anatolia”, con cui viene soprattutto ricordato il poeta e mistico persiano Jalāl al-Dīn Rūmī, uno dei più grandi maestri sufi della storia. Nato nel 1207 a Balkh, nell’odierno Afghanistan, all’età 12 anni fuggì al seguito del padre dagli eserciti mongoli di Gengis Khan e si stabilì a Konya, l’antica Iconio dei viaggi paolini che, dopo la battaglia di Manzicerta del 1071, era divenuta capitale del Sultanato di Rūm, governato da una dinastia turca selgiuchide.
Dopo la morte del padre, Rūmī si trasferì in Siria per approfondire la sua formazione di giurista e teologo, quindi, tornato a Konya, assunse il ruolo di maestro della comunità sufi lasciata dal padre, dando vita alla confraternita della Mawlawīyya (in turco Mevleviyye). Nel 1244 avviene l’incontro decisivo con colui che diverrà il suo maestro spirituale, Shams-i Tabrīzī (“il Sole di Tabriz”). Il Dīvān-i Shams-i Tabrīzī, dedicato a questo misterioso sufi, è una raccolta di poesie attribuibili con certezza a Rūmī e conta più di 35.000 versi[1]. Dopo la morte di Shams-i Tabrīzī, e cedendo alle richieste dei suoi discepoli, Rūmī cominciò la stesura del suo Masnavī-yi Ma‘navī, “i Distici Spirituali”, un’opera imponente (tra i 27.700 e i 32.000 versi), scritta in distici rimati (appunto masnavī) e strutturata in diverse cornici narrative innestate l’una nell’altra[2]. La vastità oceanica degli argomenti e degli insegnamenti e la profonda religiosità mistica che questo libro contiene gli sono valsi il soprannome di “Corano in lingua persiana”.
Un ambiente multi-religioso
Il sultanato di Konya era all’epoca caratterizzato da una grande vivacità culturale, dovuta al mecenatismo dei selgiuchidi: poeti e pensatori del calibro dei mistici Ibn al-‘Arabī, Yūnus Emre, ‘Irāqī e Hājjī Bektāsh Walī, oltre che lo stesso Rūmī, avevano trovato rifugio alla loro corte fuggendo dai Mongoli, o da mecenati con posizioni più rigide. Inoltre i sovrani di Rum trattarono i nuovi sudditi greci, che rappresentavano ancora la maggioranza della popolazione, con grande tolleranza, favorendo un clima disteso. La stretta intimità dei sultani con le comunità cristiane assume proporzioni del tutto nuove se si considera che molti di essi crebbero a Costantinopoli, oppure ebbero madri e mogli cristiane, ad esempio Tamar, principesse georgiana, che fu tra l’altro ammiratrice di Rūmī.
Nella capitale, in cui i cristiani rappresentavano una parte consistente della popolazione, se non la maggioranza, la produzione di immagini a tema religioso era ancora viva e fiorente e Rūmī ebbe la possibilità di confrontarsi con questa realtà. Nelle sue biografie agiografiche sono presenti in particolare i nomi di due artisti di icone locali suoi contemporanei e che avevano stretto legami d’amicizia con il poeta; del resto, la presenza dei cristiani in Anatolia resterà realtà fino ai genocidi del Ventesimo secolo e agli scambi di popolazione tra Grecia e Turchia.
Lo scandalo del visibile
L’iconografia bizantina è erede della tradizione pittorica ellenistica e tardoantica[3]. Per essa l’apparenza esteriore di un uomo deve descriverne esaustivamente l’essenza. Il principio traspare già nella più antica icona conservata, l’icona del Cristo Pantocratore risalente al V secolo e conservata presso il monastero di Santa Caterina del Sinai. Dipinta con la perduta tecnica dell’encausto, è una rappresentazione del volto di Cristo che vuole dare una prova tangibile sia della sua umanità sia della sua divinità, nella diversificazione simmetrica dei tratti del volto. Come emerso dalla grande crisi iconoclasta che scosse Bisanzio tra l’Ottavo e il Nono secolo, la ragione d’essere dell’icona è il mistero dell’Incarnazione. Il fatto che «abbiamo veduto con i nostri occhi il Verbo della Vita» (1Gv 1,1) fonda nel Cristianesimo la possibilità di un’arte sacra figurativa.
Ed è esattamente questo elemento a sollevare un problema per Rūmī, in piena consonanza con la tradizione islamica. Laddove i cristiani fanno uso di un medium visibile per facilitare il distacco dell’anima dal mondo terreno, lo shaykh di Konya insiste sul dovere morale di “distruggere i propri idoli interiori ed esteriori” perché solo nell’assenza totale di distrazioni si raggiunge l’unità con Dio. Questo tema è ad esempio centrale in un aneddoto biografico in cui il maestro sufi rimprovera un pittore cristiano per aver trascorso un anno a Costantinopoli a servizio di un monastero in attesa del momento propizio per impossessarsi di un’icona di Maria e Gesù, ai suoi occhi semplice oggetto inanimato.
In un passaggio del Masnavī che è probabilmente un unicum, Rūmī fa un riferimento diretto ad alcuni monasteri cristiani – probabilmente osservati da lui in persona – e alle loro decorazioni:
Gli infedeli sono soddisfatti delle immagini dei profeti
Che sono dipinte dentro ai monasteri;
La nostra [mente] è luminosa [e libera] da queste nebbie lontane,
Nessuno di noi ha desiderio del dipinto di un’ombra[4].
Successivamente elenca quello che potrebbe essere un Cristo pantocratore e possibili scene del Vangelo.
Questo è un dipinto di lui seduto sul mondo,
E quest’altra è l’immagine di lui come una luna nel cielo;
Questa è la sua bocca eloquente con i compagni,
E quest’altra è lui in colloquio intimo con Dio.
Il maestro sufi era amico dei monaci del monastero locale di san Caritone (Akmanastır), oggi abbandonato, ed è probabile che proprio lì abbia potuto vedere queste icone.
A una lettura più profonda dei versi, si può notare che il concetto di “ombra” non è da intendere come completamente negativo; dopotutto il Profeta dell’Islam e i califfi sono stati considerati come “l’ombra di Dio sulla terra”. A Rūmī però interessa sottolineare che i cristiani non dovrebbero “accontentarsi” dei riflessi quando possono godere della luce divina in toto.
Un fascino inspiegabile
A prima vista, insomma, parrebbe che la visione rumiana dell’immagine dipinta e dell’icona sia quella dell’Islam classico, sebbene il suo approccio non sia severo come quello di un giurista alla Ibn Taymiyya. Talora però Rūmī adotta un altro registro e attribuisce all’arte pittorica una connotazione nettamente positiva, in passi spesso metaforici e allegorici:
I pittori si sono lasciati cadere il pennello di mano, poiché l’anima mia ormai è ebbra;
La bellezza multiforme è sorta dalle loro belle illustrazioni[5].
Nella letteratura islamica, l’associazione formale tra opera d’arte e idolo è molto comune: la rappresentazione di figure umane è proibita, soprattutto se è un tentativo di rappresentare Dio. Addirittura, in poesia, un’opera d’arte qualsiasi viene spesso indicata come “idolo”, per metonimia. In altri casi però Dio è “il Pittore” per eccellenza. È detto nel Corano (29,19) che Dio crea in ogni istante. E proprio questo versetto è riecheggiato da Rūmī in chiave artistica: “Il Pittore dell’eternità dipinge ogni secondo”[6].
Sii come un’icona davanti al Pittore di icone;
dacché tutte le forme e i colori li hai avuti da lui.
E se chiede: “Che immagine bisogna che tu sia?”
Dì: “Qualsiasi immagine che vuoi tracciare”[7]
Miriadi di immagini Egli origina, come [quando fece] Adamo ed Eva;
il mondo adora questi dipinti ma non il loro Autore.[8]
Le più belle metafore che chiamano in causa la pittura sono comunque quelle che descrivono il rapporto di dipendenza dell’opera d’arte dal volere del suo creatore, sia per il risultato finale, sia per il destino che le riserva.
Se il corpo fosse un dipinto, tu scegli di appartenere al Pittore;
E se questo corpo venisse distrutto, diventa spirito perfetto.[9]
Le tele e i pennelli appesi nel laboratorio del Pittore
Sono deboli e impotenti come un bambino nell’utero.[10]
Non sfugge dunque a Rūmī il rapporto tra opera d’arte e creatura, tra artista e Creatore, né il prezioso e velato simbolismo che permea ogni rappresentazione figurativa. Va aggiunto anzi che nella storia successiva della confraternita, già a partire dalla decorazione del mausoleo di Rūmī a Konya, l’arte pittorica sarà da subito apprezzata.
In conclusione, grazie al misticismo e alla gnoseologia “del cuore” che gli è propria, Jalāl al-Dīn Rūmī non può fare a meno di investigare tutta la realtà per trovare le tracce dell’irrintracciabile; e nonostante non riesca a comprendere il modo in cui la rappresentazione di figure umane rimandi i cristiani a Dio, allo stesso tempo riconosce il fascino di un metodo artistico così diverso dal suo, eppure non meno umano. Anche l’iconografia cristiana gli appare come un modo di conoscere il Pittore perfetto.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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