Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale
Ultimo aggiornamento: 19/04/2024 16:16:31
Alle prime luci dell’alba di stamattina, gli israeliani hanno deciso di rispondere all’aggressione iraniana della settimana scorsa colpendo un sito militare a Isfahan. Sebbene Teheran abbia minimizzato l’accaduto, sostenendo di non avere intenzione di rispondere, il rischio di escalation resta alto, anche perché l’attacco a mezzo di droni e missili del 13 aprile costituisce l’evento più critico in Medio Oriente da quando è iniziata l’operazione “Diluvio di al-Aqsa” il 7 ottobre. “Promessa Onesta” – così gli iraniani hanno chiamato la loro operazione – rientra nella cosiddetta “nuova equazione”, come il capo dei Guardiani della Rivoluzione, il generale Hossein Salami, ha definito la nuova strategia militare della Repubblica Islamica: «se il regime sionista attacca i nostri interessi, risorse, esponenti e cittadini, ovunque essi siano, noi attaccheremo a nostra volta», immediatamente. Intanto, per tutta la settimana la stampa internazionale ha analizzato le conseguenze di quest’inedita configurazione, interrogandosi innanzitutto sul significato e sulla portata dell’evento del 13 aprile: a chi ha giovato? E quali implicazioni avrà sullo scenario regionale? Per il Carnegie Middle East Center è evidente che l’Iran ne sia uscito tutto sommato indebolito: «ammesso che gli iraniani abbiano a cuore Gaza, la loro operazione potrebbe rappresentare un madornale errore strategico, per diversi motivi. In primo luogo, l’attacco ha oscurato, almeno per il momento, Gaza, violando il detto di Napoleone “mai interrompere il nemico fintantoché sbaglia”». In secondo luogo, Israele sarà adesso più legittimato a compiere operazioni militari contro i membri dell’Asse della Resistenza, a partire da quella di Rafah contro Hamas e dalle incursioni nel sud del Libano contro Hezbollah. L’escalation, infatti, ha avuto l’effetto di allungare la “vita politica” di Netanyahu, fino a poco tempo fa quasi isolato a livello internazionale. Mentre il fronte occidentale si riconsolida attorno a Tel Aviv, l’Asse della Resistenza si mostra in realtà disunito e poco incisivo: come rileva Le Monde, i risultati dei «fronti diversivi» aperti dagli alleati dell’Iran in Siria, Libano, Yemen e Iraq sono stati assai modesti.
Molto severo anche il giudizio degli analisti di Arab News, testata anglofona di proprietà saudita. Scrive Abdulaziz Sager, chairman del Gulf Research Center: «fin dall’inizio, la leadership iraniana ha tentato di presentarsi come la guardiana dei diritti del popolo palestinese e suo difensore nella lotta contro Israele. Questa politica ha portato all’appropriazione della causa palestinese, sfruttandola in maniera del tutto oscura per sostenere l’espansionismo e gli interessi iraniani nella regione […]. I semi delle promesse che l’Iran ha piantato nell’immaginazione dei palestinesi e dei cittadini arabi indifesi sono stati alimentati dall’assunto che Teheran sia l’unica potenza dotata della volontà e della capacità di distruggere Israele […]. Il risultato inevitabile dell’attacco è il crollo del mito e la fine dell’illusione che i leader iraniani hanno dato al mondo arabo, ossia il fatto che sostenere l’Iran, la sua rivoluzione e i suoi leader fosse l’unico modo per affrontare in maniera efficace l’arroganza e l’aggressione israeliana». La giornalista Baria Alamuddin è ancora più tranchant: «dopo tutte le spacconate, le prese di posizione e la retorica, l’Iran ha finalmente fatto del suo peggio […]. Il risultato è stato rovinosamente distruttivo, quasi come una festa coi fuochi d’artificio nel cortile del tuo vicino di casa […]. L’Iran non solo ha innalzato il livello del conflitto, ma, con questi attacchi patetici e imbarazzanti, ha consegnato la vittoria a Benjamin Netanyahu e dato più coraggio ai falchi israeliani che speravano da tempo in un confronto decisivo con Teheran, e che adesso desiderano una forte rappresaglia».
David Hearst, cofondatore e direttore di Middle East Eye, sostiene invece il contrario: «gli eventi del fine settimana hanno dimostrato che Israele ha bisogno di altri Paesi per difendersi e che non è libero di scegliere il tipo di ritorsione». Ma c’è di più: l’aggressione dell’Iran sarebbe un effetto voluto e cercato dal presidente Netanyahu, che in questo modo intende distogliere l’attenzione mediatica (inter)nazionale dalla fallimentare campagna militare nella Striscia di Gaza: «ancora una volta, Israele ha bisogno di fare la parte della vittima, per sostenere il mito secondo cui sta combattendo per la propria esistenza. Quale momento migliore per Netanyahu, il giocatore d’azzardo che lancia i dadi e attacca il consolato iraniano, sapendo benissimo che cosa questo avrebbe comportato?». L’Iran, prosegue Hearst, ha preparato con cura le sue mosse: innanzitutto ha aspettato che al Consiglio di Sicurezza dell’ONU Stati Uniti, Francia e Regno Unito mettessero il veto sulla dichiarazione preparata dalla Russia che condannava l’attacco al consolato; in seguito, ha fatto intendere che non avrebbe dato avvio alla rappresaglia se si fosse concordato il cessate il fuoco a Gaza. L’operazione è stata accuratamente «coreografica», in modo da mandare messaggi a diversi attori regionali e internazionali: a Israele, Teheran vuole far capire che può colpirlo senza innescare guerre regionali, creando un pericoloso precedente; agli Stati Uniti ribadisce il suo essere potenza regionale nel Golfo; infine ai Paesi arabi che si prostrano dinnanzi a Israele, minaccia che qualcosa del genere potrebbe capitare anche a loro. A tal proposito, il giornalista palestinese Daoud Kuttab scrive su Al Jazeera che il mondo arabo è letteralmente «terrorizzato da quello che un’altra guerra regionale potrebbe causare a un Medio Oriente già devastato. E se questo accadrà, non avrà conseguenze solo regionali, ma ripercussioni globali».
Rispondere a Teheran: le opzioni di Israele
Dopo un silenzio stampa durato alcuni giorni il premier Netanyahu, di fronte alle richieste degli alleati che chiedevano di non replicare a “Promessa Onesta”, ha affermato che Israele si sarebbe difeso e avrebbe deciso in autonomia come muoversi. L’attacco alla base di Isfahan avvenuto alle prime luci dell’alba costituisce una sorta di prima risposta in questo senso. Al momento non è chiara l’entità dell’operazione, né si sa con precisione se il complesso di Isfahan, centro nevralgico della produzione missilistica iraniana, sia stata danneggiato; secondo quanto riporta l’agenzia iraniana Fars, la base sarebbe già tornata operativa.
Non è nemmeno chiaro se e come proseguirà la ritorsione israeliana. In questi giorni la stampa ha esaminato le opzioni a disposizione di Israele. Per Foreign Policy ne esistono tre. La prima consiste nel distruggere i siti iraniani preposti allo sviluppo di armi nucleari. Operazione estremamente complessa, dato che queste infrastrutture sono state costruite nel sottosuolo o nella roccia delle montagne, località irraggiungibili anche per le più potenti armi anti-bunker americane. La seconda prevede l’eliminazione di uomini chiave del regime come Ali Hajizadeh (figura di cui si parlerà più avanti), in modo da «prendere tempo» e mantenere un sufficiente grado di deterrenza. La terza contempla un allargamento delle ostilità ai proxy iraniani come Hezbollah (ma questo potrebbe provocare una drammatica escalation di violenza), oppure intraprendere una guerra informatica. Su quest’ultimo punto sempre Foreign Policy pubblica un articolo ad hoc, che analizza, con l’aiuto del direttore del programma di cybersicurezza del Washington Institute Mohammed Soliman, i progressi tecnologici della Repubblica Islamica. Anche se Israele conserva ancora la supremazia tecnologica, l’Iran possiede ottime capacità di sviluppo nel settore, dimostrando di aver appreso molte cose proprio dal suo avversario per eccellenza. Non si tratta solo di produrre missili e droni in serie, ma anche di saper compiere sofisticati attacchi informatici. Se prevarrà la linea della de-escalation, è probabile che il campo virtuale dell’informatica divenga il nuovo (o un altro) campo di battaglia.
Altre opzioni, aggiunge il New York Times, sono: «non fare nulla», favorendo così il consolidamento delle alleanze regionali e internazionali (ma questa ipotesi è già stata superata dagli eventi), oppure ricorrere agli strumenti della diplomazia, magari chiedendo il boicottaggio dell’Iran al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Per L’Orient-Le Jour, la seconda e la terza strada sono in realtà la prosecuzione di quanto è accaduto negli ultimi mesi e confermerebbero la «guerra dell’ombra» intensificatasi dal 7 ottobre. L’opzione diplomatica, invece, appare «poco probabile» viste le pressioni provenienti dall’apparato militare israeliano. Eppure, nota la testata libanese, essa costituisce un «importante vantaggio politico» perché potrebbe rompere l’isolamento internazionale derivato dalla crisi di Gaza. Su L’Orient-Le Jour si può leggere anche un interessante approfondimento proprio sulla figura di Amir Ali Hajizadeh, comandante della forza aerospaziale dei Guardiani della Rivoluzione (CGRI), considerato la “mente” dell’operazione del 13 aprile. Nato a Teheran nel 1961, Hajizadeh entra nell’aeronautica del CGRI nel 1985, ai tempi della guerra contro l’Iraq, e nel 2009 viene nominato a capo del programma aerospaziale. È durante la sua direzione che quest’ultimo viene ampliato e potenziato: «Hajizadeh diviene la figura fondamentale per la ristrutturazione di questo corpo militare e la sua evoluzione in vera e propria forza aerospaziale» che prevede un programma specifico per la costruzione di lanciatori di satelliti. Ciò permette all’Iran di affermare, nel 2013, di essere il sesto Paese al mondo per numero di missili prodotti. Il miglioramento della tecnologia bellica, conclude l’articolo, è dimostrato dal fatto che gli iraniani ora fabbricano droni capaci di coprire settemila chilometri e dispongono del Fattah II, un missile supersonico in grado di “bucare” le difese antibalistiche.
Il Wall Street Journal fa un ragionamento più ampio: quale che sia il tipo di risposta, essa deve essere intelligente, equilibrata, proporzionata e calcolata sulla base dei numerosi rischi presenti. «Israele è alle prese con una serie di delicati calcoli politici. Sta già combattendo su tre fronti: a Gaza contro Hamas, al confine settentrionale contro Hezbollah, e in Cisgiordania per tentare di placare le proteste. Adesso è sotto pressione per ripristinare la deterrenza con l’Iran, tra gli appelli alla moderazione lanciati dagli alleati. I decisori politici devono bilanciare la necessità di una dimostrazione di forza con il desiderio di mantenere una qualche forma di partnership strategica anti-iraniana». Infine, la testata israeliana Haaretz suggerisce un approccio completamente differente: per contenere l’Iran e Hamas, Tel Aviv deve riavviare il processo politico per la creazione dello Stato palestinese. Opzione che al momento non sembra percorribile, come dimostra il veto degli Stati Uniti alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza sul riconoscimento della Palestina come membro a pieno titolo – attualmente è considerato “Stato osservatore non membro” – delle Nazioni Unite.
Il (non) ruolo degli Stati Uniti e l’ipocrisia dell’Occidente
Gli Stati Uniti, preoccupati dagli effetti potenzialmente destabilizzanti dell’operazione “Promessa Onesta”, hanno applicato, con il placet degli alleati europei del G7, nuove sanzioni alla Repubblica Islamica. La lista ora include aziende coinvolte nella fabbricazione di motori e pezzi necessari alla costruzione dei droni. Una misura che, però, non placa le critiche di gran parte della stampa atlantica e dei giornalisti statunitensi sul ruolo regionale di Washington.
Sul New Arab Giorgio Cafiero, analista per diverse testate internazionali, si domanda retoricamente se Washington avrebbe potuto agire diversamente: «niente di quanto accaduto il 13 aprile era inevitabile. I decisori politici americani ed europei avrebbero dovuto attivarsi per scongiurare il verificarsi di questo evento, o almeno diminuire le probabilità che si verificasse». Si tratta infatti dell’ultimo di una serie di errori e fallimenti della politica americana in Medio Oriente, tra cui spicca il rifiuto di Washington di stabilire un canale di dialogo con la Repubblica Islamica al fine di intraprendere un percorso politico differente. Su questo punto Cafiero chiede il parere di Shireen Hunter, accademica e diplomatica iraniana negli ultimi anni del regno dello shah Reza Pahlavi: gli americani «hanno persino ignorato le aperture iraniane, in particolare quella del 2003, attuando invece una politica di pressione e, talvolta, di massima pressione, con la speranza che una rivolta interna avrebbe portato al cambio di regime o persino alla disintegrazione dello Stato. Israele e alcuni alleati arabi hanno sostenuto questo tipo di approccio». Secondo Foreign Policy, l’attacco di Teheran mette a nudo la debolezza della strategia statunitense in Medio Oriente. Partendo dal falso presupposto che la regione fosse “tranquilla come non lo era da decenni”, dopo il “Diluvio di al-Aqsa” i funzionari americani hanno commesso un errore dietro l’altro. L’azione della Casa Bianca si è concentrata su tre ambiti principali: sostegno diretto e incondizionato a Israele, processo di de-escalation, mitigazione della reazione militare israeliana contro Hamas e Gaza. «Questa politica ha fallito perché i suoi obiettivi erano intrinsecamente contraddittori. Offrire sostegno incondizionato a Israele non ha aiutato gli inviti degli USA a rimodulare l’uso della forza, e infatti non sorprende che i leader israeliani li abbiano ignorati». Il fallimento è evidente: Gaza è un cumulo di macerie, la popolazione palestinese è prostrata dalla fame e dai bombardamenti, gli Houthi continuano a interrompere il traffico mercantile nel Mar Rosso, e ora Teheran ha reagito alla provocazione israeliana in maniera diretta. «E siccome gli americani sono abituati a sentirsi dire che l’Iran è l’incarnazione del male, alcuni lettori potrebbero essere inclini ad addossare tutta la colpa su Teheran» visto che «sta gettando benzina su una regione che è già in fiamme. Oltre questa narrazione c’è però dell’altro», ossia i demeriti degli Stati Uniti, anch’essi responsabili, come sta facendo l’Iran oggi, di «aver inondato di armi il Medio Oriente ». Meno critico un articolo del Wall Street Journal: il fatto che Israele sia riuscito, con l’aiuto di Stati Uniti e altri Paesi europei, a neutralizzare il 99% delle minacce è la dimostrazione di una «formidabile» e complessa difesa collettiva. Merito della decisione che il Pentagono prese due anni fa, quando trasferì Israele dall’area di competenza del Comando Europeo a quella del Comando Centrale (Centcom), che include il resto del Medio Oriente. La mossa «ha favorito una maggiore cooperazione militare con i governi arabi» filoamericani della regione. Ciononostante, la piena integrazione militare e di intelligence tra Stato ebraico e Paesi arabi non è stata ancora raggiunta. Eppure, nota la testata, si tratta di un passaggio fondamentale: il sistema di difesa multiplo israeliano ha funzionato bene, ma di fronte a un attacco di droni ancora più massiccio potrebbe venire sopraffatto.
Al Jazeera denuncia, ancora una volta, l’ipocrisia occidentale e la confusione tra “aggredito” e “aggressore”: «dato l’incessante massacro di Gaza, la risposta dell’Occidente ai missili e droni iraniani intercettati è disgustosamente cinica. La patetica affermazione del primo ministro inglese Sunak “nessuno vuole un altro bagno di sangue” è del tutto scollegata dalla realtà, perché finché si tratta di sangue palestinese la cosa è completamente accettabile […]. Nel mentre che i leader continuano a inciampare sulle frasi di solidarietà a Israele dopo questo “attacco senza precedenti”, faremo bene a ricordare che si raccoglie quello che si semina e che qui l’Iran non è l’aggressore».
Le reazioni delle società israeliana e iraniana
Come hanno reagito la società israeliana e quella iraniana? Interessante il ritratto che Le Monde fa della popolazione dello Stato ebraico nelle ore successive all’attacco: «non ci sono state manifestazioni di gioia, o di rabbia, per le strade: domenica mattina ristoranti e negozi hanno riaperto e tutti sono tornati alla propria vita quotidiana. Sugli otto chilometri di pista ciclabile che attraversa Gerusalemme Ovest, gli sportivi recuperavano il tempo perduto. Sui social circolava questa battuta: “i campioni del mondo di angoscia esistenziale si sono trasformati in organizzatori di brunch». Come si spiega questo atteggiamento? Raccogliendo i pareri di cittadini e studiosi, il quotidiano francese spiega che la società israeliana deve convivere da sempre con le minacce esterne: quello del 13 aprile è un «incubo» minore che s’inserisce dentro uno maggiore, rappresentato dal terrorismo di Hamas e dalla questione degli ostaggi. Nelle parole di un giovane musicista israeliano, intervistato a Gerusalemme mentre assisteva a un concerto jazz poche ore dopo la rappresaglia: «so che quello che dico può suonare strano, ma erano solo dei missili. Il 7 ottobre è stato il vero sconvolgimento». Inoltre, secondo un sondaggio dell’Università Ebraica di Gerusalemme, il 74% degli israeliani si è dichiarato a sfavore di un contrattacco in Iran, «se ciò significasse compromettere l’alleanza di sicurezza con gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia e diversi Paesi arabi moderati come la Giordania e l’Arabia Saudita».
La BBC rileva invece gli umori della società iraniana: «preoccupata dalla guerra e dalle sue conseguenze su una economia già in difficoltà, una significativa parte della popolazione iraniana si oppone a quello che considera come uno spericolato avventurismo dei Guardiani della Rivoluzione». La polizia pattuglia le strade della capitale, ufficialmente per controllare se l’obbligo da parte delle donne di indossare il velo venga rispettato, di fatto per prevenire qualsiasi genere di protesta. Il regime ha esibito dei grandi manifesti contenenti frasi alquanto minacciose: «il prossimo schiaffo sarà più forte». Tuttavia, alcuni graffiti comparsi in questi giorni fanno da contraltare alla retorica ufficiale: «Israele, colpisci la Guida Suprema [Khamenei]», oppure «Israele, colpiscili. Non hanno il coraggio di rispondere».
Giordania e soci: non filoisraeliani ma contro l’influenza iraniana [a cura di Claudio Fontana]
L’intercettazione delle centinaia di droni e missili lanciati dall’Iran verso Israele il 13 aprile scorso è stato uno sforzo collettivo: accanto alle forze di difesa israeliane hanno agito americani, inglesi e francesi. Anche alcuni Paesi arabi come la Giordania, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno svolto un ruolo, che va dall’abbattimento dei missili alla meno compromettente condivisione di informazioni. Se da un lato la cooperazione tra occidentali, israeliani e Paesi arabi non va sminuita, dall’altro è fuorviante indugiare in interpretazioni enfatiche (spesso di parte) che descrivono quanto avvenuto come la formazione di una coalizione arabo-israeliana. Come ha sottolineato la studiosa americana Monika Marks, onde evitare di applaudire (o criticare) i Paesi coinvolti solo per il merito (o la colpa) di essersi schierati a favore Israele, è fondamentale comprendere il modo in cui questi Stati considerano i propri interessi. Un ex funzionario arabo l’ha spiegato in termini molto chiari: «si riduce tutto a come gli Stati percepiscono la legittimità di un’azione militare». Mentre nel caso della coalizione anti-Houthi nessun Paese arabo voleva mostrarsi parte di un’iniziativa che sembrava semplicemente difendere Israele, il 13 aprile è stato possibile abbattere droni e missili perché ciò può essere descritto come la difesa del proprio spazio aereo e come il tentativo di evitare una guerra regionale.
Secondo funzionari israeliani sono diversi gli Stati arabi che «hanno contribuito, aprendo i loro cieli o offrendo assistenza di intelligence e di rilevamento precoce». Tuttavia, il Paese che corre rischi maggiori e su cui si è concentrata l’attenzione è la Giordania. Amman ha svolto un ruolo importante nello sventare l’attacco iraniano: molti dei vettori lanciati da Teheran, infatti, sono stati intercettati nello spazio aereo del Regno Hascemita, che inoltre ha contribuito attivamente al loro abbattimento. «La Giordania non diventerà il campo di battaglia tra Israele e Iran, e non permetterà a nessun Paese di violare la sua sovranità o il suo spazio aereo. Ogni nazione ha il diritto di proteggere il suo spazio aereo e la sua sovranità», ha scritto l’analista giordano Nasser Bin Nasser, in passato membro del gabinetto di re Abdallah. Inoltre, «coloro che in Occidente sostengono che la cooperazione araba nell’abbattimento dei droni iraniani sia la prova dell’emergere di un sistema di difesa missilistica arabo-israeliano o di un fronte comune arabo-israeliano contro l’Iran, compiono un atto di wishful thinking o, peggio ancora, stanno strumentalizzando l’incidente a fini di pubbliche relazioni». Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha detto che i missili e droni lanciati dall’Iran ponevano un «reale pericolo» nei confronti della popolazione giordana, da cui la necessità di non rimanere inerti. Ciò non è bastato a evitare che Amman venisse accusata di tradimento sia dall’opinione pubblica giordana che dai media iraniani. Come sottolineato dal Financial Times, la posizione giordana è particolarmente complicata: non soltanto più di due terzi della popolazione giordana ha origini palestinesi, ma «il Regno condivide il confine con lo Stato ebraico ed è il custode della Moschea di al-Aqsa di Gerusalemme, ciò che impone una regolare co-operazione con le autorità israeliane». Ma il vero tema è quello sottolineato da Bin Nasser: considerando il sentimento filopalestinese diffuso in Giordania, «la questione regionale chiave rimane l’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. L’unico modo per realizzare una pace completa e duratura in Medio Oriente è porre fine a questa occupazione attraverso la creazione di uno Stato palestinese indipendente». Una posizione simile a quella espressa dal Kuwait, che all’indomani dell’attacco iraniano ha posto l’enfasi sulla «necessità di affrontare le radici» del conflitto.
L’obiettivo supremo della Giordania, dichiarato apertamente da Re Abdullah durante un colloquio con Biden, è quella di evitare che il Regno diventi il terreno dove si combatte una guerra tra Israele e Iran. Come si legge tra gli altri su Bloomberg, la Giordania è un alleato chiave degli Stati Uniti nella regione, nonché un Paese che gli Stati del Golfo ritengono fondamentale per la loro sicurezza. Secondo Ali Shihabi, commentatore saudita vicino alla Corte reale, per Riyad «la Giordania è un bastione contro un’ulteriore espansione [dell’influenza] iraniana». Sia Giordania che Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono impegnati nel difficile esercizio di bilanciare la necessità di contrastare l’espansionismo della Repubblica Islamica con «il crescente sentimento filopalestinese» della propria popolazione. Non stupisce, dunque, che mentre si sono detti preoccupati per l’escalation, né Abu Dhabi né Riyad abbiano esplicitamente condannato l’Iran. Probabilmente le monarchie del Golfo sarebbero più esplicite se, come ricorda il New York Times, non fossero «preoccupate di non poter più fare affidamento sul governo americano, sempre più concentrato sull’Asia, mentre i gruppi armati sostenuti dall’Iran sono sempre più attivi».
La forza della risposta americana nella difesa di Israele, però, ha anche irritato le capitali arabe del Golfo: quando gli Houthi hanno attaccato le infrastrutture petrolifere saudite (peraltro senza il “preavviso” fornito in questa occasione dagli iraniani), provocando danni molto significativi, gli americani non hanno mosso un dito. «Ciò che i Paesi occidentali, sotto la guida statunitense, hanno fatto per proteggere Israele [dall’attacco iraniano] è precisamente ciò che l’Arabia Saudita vuole per se stessa», ha evidenziato Yasmine Farouk (Carnegie Endowment for International Peace). È su questa visione che converge anche il quotidiano israeliano Kan: «funzionari sauditi ed emiratini hanno indirizzato un messaggio agli Stati Uniti: “se volete che aumenti il nostro ruolo nell’alleanza regionale, noi vogliamo che gli USA garantiscano per la nostra sicurezza, come avviene per Israele”». Per ora, come ha affermato Aziz Alghashian, Riyad non vuole schierarsi apertamente, ma secondo una dichiarazione di Shihabi rilasciata al Financial Times, l’Arabia Saudita potrebbe cambiare la propria posizione sull’Iran qualora gli Stati Uniti si assumessero ufficialmente la responsabilità di proteggerli.
Steven Cook su Foreign Policy cerca di smorzare gli entusiasmi dei commentatori filoisraeliani che hanno salutato la collaborazione araba nella notte di sabato scorso come il segno della nascita di un “nuovo Medio Oriente”. Piuttosto, quanto avvenuto indica la persistenza di due fattori: primo, che nonostante l’approccio «confuso» alla guerra a Gaza e il supposto disimpegno dal Medio Oriente, gli Stati Uniti possono ancora essere il fornitore di sicurezza che molti Paesi dell’area richiedono (e che la Cina non può essere). Secondo, gli accordi firmati da Israele con i Paesi arabi reggono nonostante la guerra. Quest’ultimo aspetto rende evidente, secondo Cook, un punto fondamentale, che lo studioso ritiene essere anche il motivo per cui i palestinesi aborrono gli Accordi di Abramo: «i leader arabi che hanno normalizzato le loro relazioni con Israele danno più importanza a respingere la minaccia iraniana che alla creazione di uno Stato palestinese». È proprio su questo aspetto che ha insistito un’altra analisi di Ali Shihabi, pubblicata sul quotidiano saudita in lingua inglese Arab News: l’Iran, «con il suo continuo sostegno ai proxy ostili al Regno [dell’Arabia Saudita]», non ha convinto nessuno all’interno del Gulf Cooperation Council (GCC) riguardo alle sue presunte buone intenzioni. Per questo motivo, prosegue Shihabi, Teheran «non può aspettarsi che i Paesi del GCC non si integrino ulteriormente in un’alleanza difensiva contro l’Iran guidata dagli Stati Uniti, nonostante la critica seria alle azioni di Israele» in Palestina. Il fatto che l’attacco iraniano sia stato sventato, tuttavia, ha anche un rovescio della medaglia: ha mostrato all’Iran quanto sia difficile colpire Israele, e questo potrebbe far pensare che, nel caso di una guerra aperta, sarebbero proprio i Paesi del Golfo subire l’urto di un eventuale attacco iraniano. Si tratterebbe, come ha ricordato al-Monitor, del peggiore degli scenari per i piani sauditi di sviluppo economico. Un conto però è partecipare a un’alleanza difensiva che tuteli la sicurezza dei Paesi arabi, un altro sarebbe essere associati direttamente o indirettamente ad azioni offensive contro Teheran. Come ha scritto Zvi Bar’el su Haaretz, qualora Israele decidesse di attaccare seriamente l’Iran, rischierebbe di mettere in discussione la vicinanza dei Paesi arabi.
La guerra in Sudan entra nel secondo anno. E si aggrava [a cura di Claudio Fontana]
A un anno esatto dallo scoppio della guerra in Sudan, sono più di otto milioni gli sfollati, sedici milioni di persone soffrono la fame e decine di migliaia sono state uccise. Entrambe le fazioni in lotta, l’esercito sudanese (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF), si sono macchiate di gravi crimini contro i civili: stupri, assassinii e abusi sono all’ordine del giorno, mentre le forniture di aiuti umanitari vengono utilizzate dalle milizie per i propri fini. Eppure, «nessuno si preoccupa di noi», ha detto uno dei rifugiati intervistati dalla CNN. La situazione è destinata a peggiorare: come ha sottolineato Joseph Borrell in un editoriale pubblicato da Arab News, i combattimenti hanno impedito di portare a buon fine la stagione della semina nelle regioni più fertili del Paese.
Mentre inizia il secondo anno di guerra, le attività belliche si sono intensificate: le immagini satellitari rivelano che il numero di insediamenti sudanesi dati alle fiamme è salito a 30 nel solo mese di marzo, il numero più alto finora registrato, ha scritto il Guardian. Buona parte di queste attività, si legge sul quotidiano britannico, è dovuta ai bombardamenti dell’esercito sudanese sulle zone conquistate dagli uomini di Hamdan Dagalo (Hemedti).
La sofferenza cui sono costretti i sudanesi, ha scritto Borrell, è interamente causata dall’uomo e tanto l’esercito sudanese quanto Hemedti sono responsabili del tradimento della rivoluzione del 2019. Ma Borrell ha accusato apertamente anche gli attori esterni: l’Iran, che fornisce «armamenti, tra cui droni alle SAF», e «gli Emirati Arabi Uniti [che] hanno un’influenza diretta sulle RSF, e che dovrebbero utilizzare per porre fine alla guerra. La Russia fa il gioco di entrambe le parti, sperando di avere accesso a infrastrutture e risorse strategiche, anche attraverso compagnie militari private mercenarie, che cercano soprattutto oro e minerali». Intanto a Parigi si è tenuta una conferenza internazionale per raccogliere fondi per gli aiuti umanitari (sono stati promessi 2,1 miliardi di dollari), ma secondo il quotidiano emiratino The National il rischio è che la guerra diventi completamente fuori controllo: secondo un report dell’International Crisis Group citato dagli emiratini, sia al-Burhan (SAF) che Hemedti «potrebbero fare sempre più fatica a mantenere il controllo delle milizie affiliate». Si tratterebbe di una frammentazione della guerra civile che «metterebbe in pericolo gli sforzi per risolvere il conflitto attraverso negoziati di alto livello tra i due leader». Quella sudanese, conclude il giornale del Golfo, è una guerra che nessuno può vincere e per questo va fermata al più presto. Come ha detto Borrell, Abu Dhabi dovrebbe essere tra i primi a contribuire allo sforzo. Nelle prossime settimane riprenderanno i negoziati nella città saudita di Gedda e questi saranno l’occasione per vedere cosa faranno, tra gli altri, gli emiratini.