Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 07/02/2025 14:32:36
Le ultime dichiarazioni di Trump, che è tornato a ribadire la sua idea di espellere i palestinesi dalla Striscia di Gaza trasformandola nella “riviera del Medio Oriente”, indignano i media arabi.
La posizione egiziana al riguardo è stata chiarita dal presidente al-Sisi: «La deportazione e lo sfollamento del popolo palestinese sono un’ingiustizia a cui non possiamo prendere parte». Se Trump pensa di costringere gli egiziani ad accettare di trasferire milioni di palestinesi nel loro Paese si sbaglia di grosso, commenta Khaled Abdul Monem sul quotidiano filo-governativo al-Ahram. Gli egiziani, prosegue l’editoriale, sostengono il loro presidente e non sono disposti a scendere a compromessi.
Il «rapace che grida fuori dallo stormo», scrive di Trump il politico e diplomatico egiziano Mostafa El Feky sempre sul quotidiano al-Ahram, «ha idee strane, che paiono fuori contesto». Tuttavia, «un uomo così forte schierato contro di noi e fortemente allineato con i nostri nemici può rappresentare una grande opportunità per rompere lo stallo dei negoziati». El Feky, più indulgente rispetto ai suoi colleghi giornalisti, ricorda che tra il presidente americano e quello egiziano c’è una «chimica personale» e un «riconoscimento reciproco», e questo fa sperare che l’Egitto possa giocare un ruolo più efficace e influente nella regione. Secondo il diplomatico, «un governante severo è più propenso a ottenere i risultati rispetto a uno che sembra indulgente, ma non si rende conto del significato vero della responsabilità storica che ha su di sé». El Feky cita anche un detto dell’Imam Ahmad ibn Hanbal secondo cui «un governante che ha alcuni difetti ma che giova alla gente e a se stesso è migliore di chi non giova a nessuno».
Paragonare la «riviera del Medio Oriente» alla Costa Azzurra, come ha fatto Trump, è folle e «supera l’immaginazione di qualsiasi persona sana di mente», commenta Hamdy Rizk su al-Masry al-Youm. Il giornalista ricorda che gli egiziani non sono ingenui, né credono alle favole e paragona Trump a «Babbo Natale, che ci fa visita una volta ogni quattro anni, portandoci le ghirlande di Capodanno e le buone notizie del paradiso promesso americano». Ma Gaza è «un territorio palestinese e tale resterà finché Dio non erediterà la terra e tutto ciò che essa contiene. Gaza è palestinese, non è una provincia americana. Cambiare la geografia non cambia la storia, e la storia vi maledirà nel suo libro». Ma «l’avventura assurda di un cowboy americano dai capelli rossi», prosegue Rizk, è molto pericolosa; Trump cammina su un «campo di spine» e rischia di pentirsene amaramente. Il Presidente americano, prosegue l’articolo, «sta aprendo le porte dell’inferno, proprio come il Custode dell’Inferno di tanto in tanto spalanca le porte per arieggiare, così che i mali si disseminano in faccia al mondo, incendiandolo». L’«idea malvagia» di Trump e del genero Jared Kushner non si realizzerà, promette Rizk, e la «Nakba del ’48 non si ripeterà».
Sulla stessa testata Mohammad Amin accusa Trump di aver detto delle «assurdità» nel suo «stupido discorso», oltre che falsità rispetto alla posizione dell’Arabia Saudita, lasciando intendere che Riyad sarebbe disposta a normalizzare i suoi rapporti con Israele rinunciando alla soluzione a due Stati. Ma è impensabile credere che ci possa essere una pace duratura senza che al popolo palestinese vengano riconosciuti i suoi diritti, conclude l’editoriale.
Il rancore verso Trump domina anche la stampa giordana. Sul quotidiano filo-governativo al-Dustur il giornalista Naseem Anizat avanza l’ipotesi di convocare un incontro tra gli Stati arabi per elaborare una posizione unitaria che respinga questo piano, che «il presidente americano non avrebbe adottato se non fosse stato per la debolezza e la frammentazione delle posizioni arabe». Di qui la necessità di mobilitare il sostegno internazionale, aprire un dialogo con gli europei e con la Cina, «arrabbiata per le intenzioni degli americani di colpire la sua economia», chiedere l’intervento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, mobilitare le masse arabe affinché scendano in strada a manifestare e chiedere ai media arabi di intensificare le campagne di denuncia del piano americano.
“La ricetta di Trump per la pace: il caos e la follia”, titola il quotidiano giordano liberale al-Ghad. Per la prima volta Netanyahu «si ritrova accanto a un presidente – e che presidente! – le cui ambizioni e i cui progetti superano il sogno sionista in Palestina», scrive Fahd al-Khitan.
Altrettanto critica è la stampa panaraba. “Trump, il ‘Leone dell’ebraismo’: pulizia etnica e occupazione americana di Gaza!”, titola al-Quds al-Arabi, “La Gerusalemme araba”. Trump ha superato il limite dell’«America first» e «i sogni dei terroristi, dei criminali e degli estremisti dei movimenti ebraici sionisti, diventando lui stesso il leone ebraico che fa sentire il suo ruggito nella regione». L’editoriale rileva inoltre l’incoerenza del presidente americano, che dice di voler «porre fine alle guerre» nel mondo, ma poi con la sua politica estera «getta le basi per unire i movimenti di estrema destra occidentali con l’estremismo israeliano, le cui acque finiscono per defluire nelle condutture dei regimi autoritari ed estremisti del mondo».
Molto eloquente la vignetta pubblicata dal quotidiano di proprietà qatariota al-Arabi al-Jadid, che coglie Trump e Netanyahu nell’atto di sostenere una targa uguale nella forma a quella che campeggiava all’ingresso del campo di concentramento di Aushwitz, e sulla quale compare la scritta “Il piano di Trump per Gaza”, alludendo alla natura nazista della proposta avanzata dal presidente americano. Sullo sfondo, un elicottero militare stradica un edificio dalla Striscia.
Maen Albayari, direttore di al-Arabi al-Jadid, invita gli Stati arabi a compiere un passo in più, perché «l’indignazione è utile ma non sufficiente». Le parole devono «essere accompagnate da un grande progetto palestinese, arabo, regionale (e internazionale), che acceleri i soccorsi agli abitanti di Gaza assediata e assicuri loro una rete di supporto e aiuto perenne, evitando che cadano preda degli inganni statunitensi».
Ugualmente esasperati i toni su al-Jazeera, per la quale «il progetto della “Terra Promessa” […] non è più solo un sogno religioso, ma si è trasformato in un obiettivo geopolitico». La soluzione non è sedersi al tavolo dei negoziati, scrive Abdallah Marouf, ex responsabile della comunicazione della Moschea al-Aqsa, ma «costruire alleanze regionali ampie e forti». L’Egitto e la Giordania sono consapevoli che accogliere i palestinesi sfollati significherebbe «commettere il più grande errore della loro storia» e li metterebbe «in una posizione imperdonabile agli occhi del mondo islamico». Peraltro, prosegue l’editoriale, accogliendo milioni di persone entrambi i Paesi scivolerebbero nell’instabilità facendo il gioco di Israele e degli Stati Uniti, che «avrebbero una giustificazione per intervenire per “ragioni di sicurezza” e potrebbero occupare parti dei loro territori». A cascata, continua l’articolo, la Siria verrebbe costretta a cedere il Golan e la regione dell’Hermon, ricca d’acqua, i Paesi del Golfo a vendere energia a Israele, e nel Mediterraneo orientale aumenterebbe la pressione per dispiegare maggiori truppe statunitensi a Cipro. Il giornalista auspica un’alleanza dei «Paesi della civiltà mediterranea, che condividono un ricco patrimonio culturale e storico, e che possono utilizzare questi denominatori comuni per contrastare le ambizioni espansionistiche degli Stati Uniti e di Israele».
“Bonjour, riviera di Gaza”, titola un po’ ironicamente il quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat. Il giornalista Mishar Althaydi relega le dichiarazioni di Trump alla sfera del sogno bello ma impossibile, perché Gaza «è parte di uno scontro di civiltà, storico, politico, umano e religioso. Uno scontro che non coinvolge solo la popolazione di Gaza o solo i palestinesi, ma riguarda e tocca nel profondo tutti gli ebrei, i cristiani e i musulmani». L’unica soluzione, scrive Althaydi è ritornare alla soluzione dei due Stati, altrimenti ci saranno «sangue, lacrime e distruzione… e un ambiente avvelenato che produce figuri come Hamas e il gruppo di Fathi Shaqaqi [fondatore del Jihad islamico in Palestina], Ben-Gvir e Smotrich, e bonjour riviera». Il giornalista fa peraltro notare che l’idea di Trump era già stata avanzata a più riprese in passato: dopo gli Accordi di Oslo nel 1993 era circolata l’idea di trasformare Gaza in una «Singapore dell’est», pensiero ripreso alla fine degli anni ’90 anche da Shimon Peres.
Forte e chiaro il messaggio lanciato dall’Arabia Saudita, commenta sullo stesso quotidiano lo scrittore e attivista libanese Mustafa Fahs facendo riferimento all’intervista rilasciata alla CNN nei giorni scorsi dal principe Turki al-Faysal, ex capo dei servizi segreti sauditi ed ex ambasciatore saudita negli USA. In questa occasione il principe ha dismesso lo shemagh, il copricapo tradizionale saudita bianco e rosso, preferendogli la kefiah, il copricapo palestinese bianco e nero. La vicenda, spiega lo scrittore, ricorda la posizione del principe Bandar bin Sultan durante i negoziati di Madrid nel 1991, quando la delegazione israeliana chiese a un membro della delegazione palestinese di togliersi la kefiah e il principe saudita rispose: «Avete preso la loro terra e lui non può nemmeno indossare la kefiah? Se questo giovane palestinese non entra, io e Abdullah Bishara [politico del Kuwait, primo segretario generale del Consiglio di Cooperazione del Golfo] ci ritireremo». Poi, prosegue l’articolo, Bandar bin Sultan si offrì di togliere personalmente la kefiah al palestinese se i membri della delegazione israeliana avessero tolto la loro kippah.
«I discorsi sconclusionati di Trump, che lo fanno sembrare pazzo» sono la misura del livello di sottomissione del presidente americano a Israele, scrive su al-‘Arab (quotidiano filo-emiratino) il giornalista iracheno Farouk Youssef. Sfortunatamente per lui, «Gaza non è Sharm el-Sheikh» e il discorso sulla «riviera di Gaza» potrebbe essere declassato a «presa in giro di ciò che abbiamo fatto a noi stessi o di ciò che gli agenti dell’Iran ci hanno fatto. Altroché riviera del Medio Oriente, Gaza è una terra devastata».