Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 28/06/2024 16:35:03

Nelle ultime settimane è salito il livello di tensione tra Israele e Hezbollah e si sono intensificate le accuse e le minacce reciproche. Da Israele arrivano segnali contrastanti, analizzati dal politologo libanese Gilbert Achcar per il quotidiano panarabo londinese al-Quds al-‘Arabi. A parole Netanyahu si dice pronto a lanciare una «guerra totale» contro il “Partito di Dio”, ma i fatti lasciano intendere altro. Bibi è consapevole che aprire un fronte di guerra con il sud del Libano sarebbe molto dispendioso in termini economici, militari e di vite umane, scrive Achcar. Combattere contro Hezbollah richiederebbe infatti un tipo di armi e un equipaggiamento diverso rispetto a quelli utilizzati a Gaza, che Tel Aviv potrebbe procurarsi soltanto con l’aiuto degli Stati Uniti. Al momento però, i rapporti tra Netanyahu e Biden sono molto tesi, «l’improvvisa escalation della retorica di Netanyahu contro l’amministrazione Biden negli ultimi giorni» lascia intendere che Bibi non ha intenzione di chiedere un ulteriore aiuto all’America. Peraltro, aprire il fronte di guerra con il Libano significherebbe anche chiamare in causa l’Iran, con un conseguente ulteriore allargamento del conflitto, scrive l’editorialista. Bibi è già proiettato verso le presidenziali americane che si terranno il prossimo novembre e scommette sulla vittoria di Donald Trump. Il politologo paragona il Primo ministro israeliano a un «giocatore d’azzardo, che ha deciso di puntare tutto ciò che ha per raddoppiare i suoi guadagni o uscire dal gioco». Ma secondo le previsioni di Achcar, per il momento «il rullo dei tamburi di guerra sul fronte libanese» non sembra davvero annunciare la guerra totale.

 

Un conflitto armato con Hezbollah potrebbe in realtà avere effetti positivi per il Primo ministro israeliano, scrive sullo stesso quotidiano il politologo egiziano Amr Hamzawi. Nella fattispecie, «potrebbe essere un modo per Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich di mantenere la coesione del loro governo e allontanare lo spettro delle elezioni anticipate», oltre a essere una risposta ai 100.000 sfollati israeliani che vivono al confine con il Paese dei cedri e nelle ultime settimane sono stati costretti a lasciare le loro case per motivi sicuritari.

 

“Hezbollah e l’entità sionista verso lo scontro totale”, titola al-‘Arabi al-Jadid. Secondo lo scrittore e attivista politico siriano Ali al-‘Abdullah, l’apertura del fronte libanese non è un’opzione così remota e impossibile: «L’attacco lanciato dall’esercito sionista ai villaggi nel sud del Libano e nella Bekaa con bombe incendiarie e fosforo bianco, vietato a livello internazionale, riflette una tendenza all’escalation che rischia di trasformare gli scontri in una guerra totale». Nel gioco delle parti, i leader dell’esercito israeliano hanno minacciato Hezbollah dicendo loro di «aver usato, al momento, solo il 15% della loro forza distruttiva», mentre il Segretario generale del Partito di Dio, Hassan Narsrallah, ha già promesso una guerra senza esclusione di colpi: «Aspettateci via mare, via area e via terra; se guerra dovrà essere, noi combatteremo senza regole e senza rispettare alcun limite». Peraltro, ricorda l’editoriale, la settimana scorsa Nasrallah ha minacciato Cipro di ritorsioni nel caso in cui Nicosia dovesse consentire all’«esercito dell’entità sionista» di utilizzare le basi militari dell’isola per attaccare Hezbollah, e ha diffuso un video in cui venivano ripresi dall’alto siti militari e civili israeliani con le relative coordinate, che verrebbero presi di mira nel caso in cui dovesse scoppiare il conflitto.

 

Se lo «scontro totale» dovesse materializzarsi, per il Libano sarebbe una catastrofe, scrive su al-Sharq al-Aswat la giornalista libanese Huda al-Huseini. Secondo i dati pubblicati dal centro di ricerca Policy Initiative di Beirut, «la guerra costerebbe al Libano perdite per circa 7,7 miliardi di dollari l’anno» a fronte di un PIL che è sceso a 16 miliardi di dollari l’anno.

 

In Libano intanto è in atto una campagna di boicottaggio «a sostegno di Gaza» dei prodotti americani. Nelle ultime ore sono circolati diversi video che riprendono gruppi di libanesi nell’atto di rovesciare in mare bevande di produzione americana, distruggere casse intere di bottiglie di Coca-Cola lanciandole da un suv (di produzione americana!!) e impedire ai camion carichi di merci di raggiungere alcune zone del Paese. Ma come scrive il quotidiano londinese filo-emiratino al-‘Arab, questa campagna «è imposta da Hezbollah», il «Partito di Satana», per riprendere l’appellativo usato dal politologo libanese Khalil Almukdad per definire il «Partito di Dio». Il quotidiano denuncia con sarcasmo alcune scene paradossali: chi boicotta la Pepsi non sapendo che è prodotta da un’azienda libanese e, così facendo, danneggia l’economia libanese anziché quella americana, e chi distrugge platealmente cibi e bottiglie d’importazione ma poi continua a utilizzare la tecnologia americana e smania per i dollari.

 

Oltre al fronte meridionale, preoccupa anche la minaccia rivolta da Nasrallah a Cipro, che ha alimentato diversi commenti in particolare sul sito d’informazione libanese Asasmedia, vicino alle posizioni sunnite.

 

Secondo il giornalista libanese Nadim Koteich questa minaccia «sorprendente» deve essere letta «nel contesto dei tentativi di isolare Israele nella regione» e rappresenta un’escalation delle dichiarazioni rilasciate dai leader dell’Iran e di Hamas nei mesi scorsi. All’indomani del 7 ottobre Ali Khamenei disse che «l’attacco [di Hamas] era necessario per la regione» e in un tweet scritto in ebraico aggiunse che «stiamo assistendo all’inizio della fine dell’entità sionista. Questa entità si sta gradualmente dissolvendo davanti agli occhi del mondo». Qualche tempo dopo il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, ha minacciato di «isolare con violenza Israele». Hezbollah, spiega Koteich, spera di costringere l’Unione Europea a svolgere un ruolo maggiore nella ricerca di soluzioni politiche alla guerra di Gaza, e «minacciando di espandere la portata del conflitto esistente mira a fare della guerra a Gaza una questione legata alla sicurezza e alla stabilità dell’Europa», superando l’idea diffusa per cui sarebbe «solo una scaramuccia regionale». Inoltre, scrive l’editorialista, le dichiarazioni di Nasrallah riflettono la strategia regionale dell’Iran: «Utilizzare la stabilità di Cipro nell’equazione del conflitto con Israele aiuta Teheran a dimostrare la sua forze e la sua influenza» nell’area mediterranea. Il giornalista, ostile all’Iran, mette in guardia l’Occidente dalle mire espansionistiche di Teheran, che «punta a estendere la propria influenza alle rotte marittime del Mediterraneo», volontà che sarebbe stata confermata dall’annuncio degli Houthi qualche settimana fa di aver effettuato per la prima volta due attacchi nel Mare Nostrum ai danni di navi legate a Israele e agli Stati Uniti. Nasrallah, scrive ancora Koteich, «scommette sul fatto che l’America è concentrata sulle elezioni presidenziali e sulla confusione che vige nell’amministrazione Biden attorno al dossier della guerra a Gaza». L’atteggiamento del leader di Hezbollah tuttavia è controproducente, perché «aumenterà l’isolamento del partito e del Libano, dissiperà quel poco di compassione internazionale rimasta per il Libano e il suo popolo, e fornirà la prova evidente che il Paese è diventato un’anomalia e necessita di soluzioni radicali», conclude l’editoriale.

 

L’attivista politico Ayman Yezzini commenta sarcasticamente le dichiarazioni di Nasrallah citando, modificandolo, un versetto del poeta palestinese Mahmoud Darwish – «Beirut è la nostra stella e la nostra tenda» – dove il nome della capitale libanese è sostituito con Cipro. «La Cipro greca è diventata la stella dell’“impero” annunciato da Nasrallah nel suo recente discorso». Ma come ricorda Yezzini, non è la prima volta che Cipro finisce nel mirino dei desideri arabi: già il leader del Partito nazional-socialista siriano Antoun Saadeh l’aveva scelta come «stella della “Mezzaluna fertile”», pur non riuscendo mai ad annetterla alla geografia araba. La domanda, perciò, è se Nasrallah farà di Cipro la stella dell’«Impero del Libano in espansione».

 

Le minacce di Nasrallah hanno ispirato anche una riflessione su Theodor Herzl, ideatore alla fine dell’Ottocento del sionismo politico. Sul quotidiano filo-Hezbollah al-Akhbar Hicham Safieddine, professore di Storia ed economia libanese  all’Università della British Columbia, ripercorre la vicenda del «progetto Cipro». Proposto da Herzl, esso prevedeva «la creazione di una grande colonia ebraica nel Mediterraneo orientale», con sede proprio a Cipro. All’epoca, spiega l’editorialista, l’isola era sotto la tutela britannica, «ciò che nella logica coloniale la rendeva una terra passibile di acquisizione e colonizzazione, previo consenso di Londra». Peraltro, racconta Safieddine, in una versione ampliata del piano, il «progetto Cipro» includeva anche la richiesta di colonizzare il Sinai. «Il progetto di insediamento sionista a Cipro fallì», ma nei decenni Nicosia e Tel Aviv hanno consolidato le loro relazioni, soprattutto a livello economico e militare: «Cipro ha aderito al Forum del gas del Mediterraneo orientale, un forum di Paesi che hanno riconosciuto Israele e che comprende, insieme all’entità sionista, Egitto, Giordania, Grecia, Italia e l’Autorità di Ramallah. A livello militare, Nicosia conduce periodicamente manovre terrestri, marittime e aeree con Israele». Nel 2022 queste manovre includevano la simulazione di una guerra contro Hezbollah perciò, conclude Safieddine, Nasrallah ha ragione a minacciare Nicosia, «che fa l’interesse d’Israele anziché rassicurare la Resistenza e proteggere il Libano». I regimi arabi e «il Libano ufficiale» fanno il gioco di Netanyahu, e sono «sprofondati in un profondo sonno sovrano».

 

Sudan, l’altra guerra che nessuno sa fermare [a cura di Mauro Primavera]

 

Come già avvenuto in passato, la stampa araba richiama l’attenzione della comunità internazionale, focalizzata sulla crisi di Gaza e sulla possibile guerra tra Israele e Hezbollah, sul dramma del Sudan, devastato dalla guerra civile scoppiata nell’aprile del 2023. Toni infervorati da parte dei quotidiani di area emiratina. La testata al-‘Ayn al-Ikhbariyya replica al duro attacco del comandante dell’esercito regolare sudanese Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, che ha accusato gli Emirati di sostenere le milizie antigovernative delle Forze di Supporto Rapido, comandate dal generale Dagalo: «sono espressioni forti che mirano a destabilizzare la posizione di Abu Dhabi sulla scena internazionale. Ma gli Emirati, grazie alla loro abilità diplomatica, hanno bollato queste accuse come ridicole e false, affermando che esse non poggiano su alcuna prova e che si tratta di tentativi disperati dell’esercito sudanese di coprire le sue sconfitte». Dopo la solita stoccata al ruolo della Fratellanza Musulmana – la cui branca sudanese è nota come al-Kizan – per aver contribuito alla destabilizzazione del Paese, al-‘Ayn menziona la longa manus che a suo dire si celerebbe dietro ai disordini attuali: «mentre l’esercito sudanese non riesce a provare le accuse agli Emirati, il sostegno militare offerto dall’Iran è diventato evidente». Invece di puntare il dito contro gli attori esterni, conclude in maniera velenosa al-‘Ayn, il regime di Khartoum farebbe meglio a cercare la soluzione all’interno del Paese, «fermando i combattimenti e sedendosi al tavolo dei negoziati con intenzioni sincere». Toni identici da parte del quotidiano panarabo filo-emiratino al-‘Arab: «queste accuse sono nientemeno che parole vuote, e vanno inquadrate all’interno del progetto di riesportare la Fratellanza, per far ridiventare il Sudan un corridoio del terrorismo come lo era ai tempi del regime di Bashir». Anche la ricetta anticrisi suona più o meno la stessa di al-‘Ayn: «le soluzioni in Sudan richiedono la comprensione delle radici della crisi e di complesse interazioni. La cosa più importante da tenere a mente è il ruolo negativo di al-Kizan; i negoziati richiedono invece la comprensione dei meccanismi precedenti, fissando obiettivi chiari e in accordo con le dinamiche del conflitto, senza schierarsi con una parte a scapito dell’altra. L’obiettivo finale consiste nel far ritornare i civili al potere, nel riportare la stabilità nel Sudan ponendolo sulla via dello sviluppo continuo senza dare ad al-Kizan l’opportunità di prendere tempo e di fuggire dalle sue responsabilità. Gli Emirati continueranno a supervisionare l’invio di aiuti umanitari e a garantire la sicurezza e la stabilità, per quanto al-Kizan tenti di innescare le crisi!».   

 

Anche Othman Mirghani, giornalista sudanese ed ex vicedirettore di al-Sharq al-Awsat insiste sul percorso negoziale: «a mio giudizio solo due Stati sono disposti ad accogliere le diverse parti in causa per ospitare i negoziati intra-sudanesi: l’Arabia Saudita, che ha ospitato la piattaforma di Gedda, e l’Egitto, che ha tenuto diversi incontri e conferenze delle forze civili sudanesi, prendendo l’iniziativa, durante i primi mesi di guerra, a tenere un vertice dei Paesi confinanti [con il Sudan]. La conferenza delle forze politiche civili organizzato dall’Egitto potrebbe essere […] un’opportunità e un punto di inizio per tornare, in modo più chiaro, alla piattaforma di Gedda e per contribuire al raggiungimento di un accordo per la cessazione delle ostilità». Ma la sua visione del negoziato è diversa da quella dei quotidiani emiratini: «molti ritengono che per porre fine alla guerra occorra iniziare dai negoziati tra l’esercito e le Forze di Supporto Rapido, ma ciò finora non ha avuto successo. A mio parere, il vero punto di partenza sarebbe organizzare negoziati che comprendano e mettano d’accordo le forze sudanesi civili e politiche, risolvendo le complesse cause scatenanti di questo conflitto». Questo progetto, per il quotidiano di proprietà qatariota al-Quds al-‘Arabi, è ormai una missione impossibile: di fronte a un disastro di tali proporzioni, «è difficile prevedere che cosa potrebbe salvare un accomodamento politico o la proposta di un coordinamento politico collettivo». Anche «riproporre la tradizionale mappa politica, con i suoi partiti, sindacati e formazioni di destra e di sinistra» non ha più senso, visto che questa «si è adattata alle logiche della guerra; le regole del gioco sono cambiate». Ciononostante, in un altro articolo la testata propone una bozza di piano per uscire dalla crisi. Per cominciare, gli attori regionali e internazionali dovrebbero proporre «nuovi metodi» per il soccorso umanitario, sull’esempio delle iniziative avviate tra il 2016-17 nelle province sudanesi del Kordofan e del Nilo Azzurro. Per quanto riguarda i negoziati, invece, occorre prima avviare dei colloqui preparatori e separati sia con le Forze di Rapido Supporto che con l’esercito regolare: «ciò spianerebbe la strada a negoziati sul cessate il fuoco più fruttuosi, non appena le parti saranno pronte ad entrare nei negoziati».      

 

Su Al Jazeera, lo scrittore e politico sudanese Gamal Abdel-Al Khojali fa un distinguo sullo scenario interno: «le forze del Paese sono divise tra una fazione interessata a tutti i costi a salire al potere e una coalizione –  che include le Forze della Libertà e del Cambiamento, il partito del Congresso Nazionale e un altro gruppo – che crede nell’opzione democratica e nella necessità di indire le elezioni». Al momento, però, è la prima fazione a prevalere, a cui va aggiunta la «bramosia per il potere» di al-Burhan, per nulla intenzionato a lasciare la leadership del consiglio militare che governa il Sudan.

 

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