Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale
Ultimo aggiornamento: 28/03/2024 10:33:51
Nella sera di venerdì 22 marzo la Russia è stata colpita da un terribile attentato: uomini armati hanno fatto irruzione nell’auditorium Crocus City Hall, situato nella periferia di Mosca, a circa 20km dal Cremlino. Gli assalitori hanno aperto il fuoco sul pubblico e appiccato il fuoco al teatro, il cui tetto è crollato in seguito all’incendio. Il bilancio dell’attacco è terribile: 137 morti, più di 100 feriti di cui almeno 60 in gravi condizioni. Tra i morti, ha scritto la BBC, ci sono anche tre bambini. Quattordici ore dopo l’attentato, i servizi di sicurezza russi hanno fatto sapere di aver arrestato undici persone, tra i quali anche i quattro direttamente coinvolti nel terribile attacco, di nazionalità tagika.
Nonostante nel discorso alla nazione il presidente Putin non abbia fatto menzione di ISIS, puntando invece il dito sull’Ucraina, la rivendicazione da parte dello Stato Islamico non si è fatta attendere. In particolare, sarebbe la sua “provincia” afghana, ISIS-K, ad aver agito. In un secondo momento, attraverso l’“agenzia di stampa” Amaq, ISIS ha rilasciato i video dell’assalto. Bruce Hoffman (Council of Foreign Relations) non ha dubbi: «il modus operandi è il classico di ISIS», ma – come hanno sottolineato gli analisti di The Soufan Center – ricorda da vicino anche gli attacchi ceceni degli anni 2000, tra cui quello al teatro Dubrovka. Lunedì anche Putin ha confermato la matrice islamista dell’attacco. Secondo il presidente russo però, i jihadisti sarebbero legati in qualche modo (non specificato) all’Ucraina.
Dopo la fine della sua esistenza come entità territoriale (durante la quale il russo era la seconda lingua più parlata nelle scuole del Califfato), ISIS ha assunto una forma “classica” da movimento terroristico globale, metastatizzato in un network clandestino distribuito dall’Africa occidentale fino al sud-est asiatico. Il ritiro americano dall’Afghanistan, e il ritorno al potere dei Talebani, hanno ridato vigore a ISIS-K: non perché i Talebani lo appoggino, anzi, quanto piuttosto perché le risorse di questi ultimi sono probabilmente inferiori a quelle di Washington, come inferiore è la capacità di svolgere attività di contro-terrorismo. Il generale Kurilla, capo del CENTCOM americano, ha recentemente affermato davanti a una commissione del Congresso, che ISIS-K «conserva le capacità e la volontà di attaccare obiettivi americani e occidentali». «L’attacco di Mosca è un altro segno che il ramo afghano dello Stato Islamico sta ricostruendo la sua capacità operativa estera e rimane forse il più potente» tra gli affiliati alla rete globale di ISIS, ha scritto TSC. Nell’ultimo anno, effettivamente, le attività del gruppo terroristico sono state in crescita: numerosi attentati in Afghanistan e Pakistan oltre a quello sanguinoso in Iran lo scorso gennaio. Ma, secondo il New York Times, «un numero crescente di piani [per colpire] anche in Europa». Una costante sembra essere la nazionalità delle persone che hanno compiuto (o hanno tentato di compiere) questi attacchi: in Germania e Olanda furono arrestati tagiki, turkmeni e kirghisi, mentre in seguito all’attentato a una chiesa cattolica di Istanbul le autorità turche hanno arrestato 47 persone, la maggior parte delle quali proveniente da nazioni dell’Asia centrale. Proprio come nel caso della Crocus Hall, i cui attentatori provengono dal Tajikistan.
Ma Perché ISIS-K prenderebbe di mira la Russia? Secondo Michael Kugelman (Wilson Center) ISIS-K la ritiene «complice di attività che opprimono regolarmente i musulmani». I luoghi in cui la Russia è presente con i suoi militari, o con i mercenari della Wagner, sono spesso gli stessi in cui, in effetti, opera ISIS: è così nel Sahel, dove le forze francesi e americane sono state soppiantate da quelle russe, ed è così in Siria, dove Mosca ha attivamente combattuto al fianco di Bashar Assad proprio contro ISIS. Il Cremlino, ha ricordato Colin P. Clarke, è accusato da ISIS-K di avere «sangue musulmano sulle mani». Per Daniel Byman (CSIS) questa accusa non è legata soltanto alle azioni russe di questi ultimi anni, ma anche ad un passato più lontano: «si può risalire fino alla conquista russa del Caucaso, o alla deportazione della popolazione musulmana» durante il periodo sovietico, senza scordare le guerre in Cecenia, una repubblica russa a maggioranza islamica e l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979.
Un altro dato emerge con chiarezza: seguendo la politica americana nota come “duty to warn”, poche settimane fa gli Stati Uniti avevano messo in guardia da un potenziale attacco terroristico in Russia, ma Mosca aveva etichettato la comunicazione dell’intelligence americana come falsa propaganda. Si può dunque parlare di un fallimento dell’intelligence russa? Vera Mironova (Harvard) ha dichiarato al Financial Times che è molto significativo che il gruppo terroristico sia riuscito a colpire Mosca mentre la Russia è in guerra, e che addirittura sia stato relativamente semplice farlo. Anche alcuni media cinesi si sono espressi su questo argomento: il Global Times ha riconosciuto il tentativo americano di avvertire i russi dei pericoli in atto, pur ricordando anche come in passato Washington «abbia usato organizzazioni terroristiche per combattere i propri nemici». D’altro canto, però, è significativo che il Global Times scriva che l’attentato è una «wake up call» che mostra la necessità, almeno per le grandi potenze, di far fronte comune contro il terrorismo.
Sull’orlo della carestia. E, anche a nord, Hamas resiste
Venerdì il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha bocciato una risoluzione, proposta dagli Stati Uniti, che chiedeva l’immediato cessate-il-fuoco. Decisivo il veto di Russia e Cina. Secondo l’ambasciatore russo Vasily Nebenzya, quello messo in atto da Washington sarebbe uno «spettacolo ipocrita» e questo giustificherebbe l’opposizione alla risoluzione e l’ennesima paralisi del Consiglio. Ieri il Consiglio di Sicurezza ha approvato una nuova risoluzione che chiede il cessate-il-fuoco (ne parleremo più approfonditamente nel Focus attualità di giovedì). Intanto però si continua a morire ed è arrivato l’ennesimo allarme: secondo un rapporto pubblicato dal World Food Program, il 70% della popolazione della Striscia di Gaza soffre «livelli catastrofici» di fame. L’inizio della carestia vera e propria è previsto per il periodo compreso tra metà marzo e maggio 2024. La situazione ha portato Joseph Borrell ad accusare Israele di usare la «fame come arma di guerra». Secondo il ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas, sono almeno 25 i morti per denutrizione e disidratazione nel nord della Striscia, tra i quali diversi bambini e neonati. Mentre non è stata in grado di confermare i dati diffusi dal ministero, Reuters ha mostrato che nella zona meridionale di Gaza la situazione non è migliore: un reportage in un centro medico a Rafah permette di comprenderne la gravità, anche grazie a numerose e dure immagini. Secondo il World Food Program l’unica soluzione per evitare la carestia è un cessate-il-fuoco che permetta il massiccio afflusso di aiuti umanitari dal confine nord. Infatti, sebbene secondo diverse voci citate dal quotidiano saudita Arab News il porto galleggiante proposto dagli Stati Uniti sia una soluzione interessante per la consegna di beni di prima necessità, gli aiuti scaricati da Open Arms (e pagati dagli Emirati Arabi Uniti) corrispondono grossomodo al carico di 12 camion. Una piccolissima porzione rispetto ai circa 500 camion che ogni giorno entravano nella Striscia prima del 7 ottobre. Una cifra a cui non ci si avvicina anche contando i pochi camion a cui Israele permette di entrare nell’enclave dopo lunghe procedure di controllo. Inoltre, secondo il quotidiano libanese L’Orient-Le Jour, Israele sta cercando di utilizzare la distribuzione degli aiuti umanitari per favorire lo sviluppo di un’autorità politica diversa da Hamas: al momento la sicurezza dei convogli che entrano nella Striscia di Gaza è gestita dai miliziani del movimento islamista, e per sostituirli Tel Aviv ha esplorato diverse soluzioni, che vanno dall’armare alcuni clan locali a fare ricorso agli uomini di Fatah, fino a rivolgersi a gruppi paramilitari internazionali. Nessuna ha funzionato e l’unico risultato è stato complicare ulteriormente la consegna degli aiuti.
Mentre ha ribadito l’intenzione di attaccare Rafah, Israele continua le operazioni anche a nord, dove ha nuovamente attaccato l’ospedale al-Shifa. Lunedì le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno iniziato l’operazione all’ospedale, durata fino a mercoledì. Al termine, le IDF hanno comunicato di aver ucciso 90 membri di Hamas. Cifra smentita dal movimento islamista, che accusa Israele di aver ucciso pazienti e civili. Ma al di là di come sia stata condotta l’operazione, e quali vittime abbia provocato, emerge chiaramente un dato: il fatto che le forze israeliane siano tornate, a quattro mesi dalla precedente operazione, a intervenire nella zona dimostra che anche nel nord di Gaza Hamas è lungi dall’arrendersi. Il giornalista di Haaretz Amos Arel ha ricordato che quella è un’area dove le IDF avevano dichiarato «di avere pienamente smantellato le capacità militari dell’organizzazione» terrorista. Il punto, sostiene Arel, è che mentre «brigate e battaglioni [di Hamas] sono stati smobilitati», essi sono stati sostituiti «da piccole reti terroristiche che gradualmente riemergono, cercando di prepararsi a ulteriori scontri con le IDF». Inoltre, anche una notizia importante come l’uccisione di Marwan Issa, vicecomandante dell’ala militare di Hamas nonché una delle menti dell’attacco del 7 ottobre, potrebbe avere pochi effetti concreti sulla capacità operativa del gruppo palestinese (è quanto si legge, per esempio, sul New York Times). Non è un caso che, nonostante le pressioni contrarie degli americani, il governo israeliano continui a ritenere essenziale procedere all’offensiva di terra su Rafah. «Non vediamo alcun modo per eliminare militarmente Hamas senza distruggere questi battaglioni rimanenti» a Rafah, ha dichiarato il primo ministro. La «vittoria totale» passa attraverso l’offensiva sulla città, riporta l’Associated Press.
L’offensiva su Rafah e la crisi nelle relazioni con gli Stati Uniti sono alcuni dei temi più spinosi per il governo israeliano, ma non gli unici. Puntualmente, i ragionamenti sul “giorno dopo” riemergono. Una delle ipotesi più controverse riguarda la colonizzazione della Striscia di Gaza: Jared Kushner ha elogiato il potenziale «molto prezioso» delle «proprietà sul lungomare» di Gaza e ha suggerito che Israele rimuova i civili mentre «ripulisce» Gaza. È importante comprendere che non si tratta dell’idea estrema di una persona che, peraltro, non vive in Israele. Non è semplicemente l’opinione di un “outsider”. Lo conferma Daniella Weiss, ex sindaco di un insediamento, la quale non ha usato mezzi termini: «tutti gli arabi se ne andranno da Gaza e Gaza sarà un’area ebraica. Lasciateli andare in Africa, in Turchia o in Scozia. Quando non saranno così concentrati in un unico luogo, forse staranno meglio». Passando dagli insediamenti potenziali a quelli già esistenti, sono le attività dei coloni in Cisgiordania a preoccupare. Un’inchiesta pubblicata da al-Jazeera ha mostrato che da ottobre 2023 a gennaio 2024 «i coloni nella Cisgiordania occupata hanno costruito almeno 15 avamposti e 18 strade – illegali sia secondo la legge israeliana che per il diritto internazionale. Inoltre, i coloni hanno costruito centinaia di metri di recinzioni e molteplici posti di blocco, limitando ulteriormente i movimenti dei palestinesi». Secondo gli esperti citati dall’emittente qatarina, l’obiettivo sarebbe duplice: cambiare la composizione demografica nella West Bank e interrompere la continuità di un territorio che dovrebbe essere la «spina dorsale» del futuro (eventuale) Stato palestinese. A poco servono le sanzioni attuate da alcuni Paesi occidentali, come Stati Uniti e Regno Unito, nei confronti di alcuni coloni responsabili di violenze e atti illegali: «non aveva intenzione di visitare Buckingham Palace», ha detto ironicamente il padre di una delle persone sanzionate dal governo britannico. Una spavalderia che trae la sua forza anche dal fatto che due ministri israeliani, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, sostengono le attività dei coloni perché «credono nel loro diritto divino alla terra e si oppongono con veemenza [alla creazione] di uno Stato palestinese», ha scritto il Financial Times.
Anche alla luce di quanto finora descritto non stupisce troppo che gli indici democratici in Israele siano in peggioramento. Il rapporto V-Dem 2024 sullo Stato della democrazia ha cambiato il ranking dello Stato ebraico: Israele non rientra più nella fascia delle “democrazie liberali” ed è stato declassato a “democrazia elettorale”, in una scala che include anche le “autocrazie elettorali” e le “autocrazie chiuse”. Come ha ricordato Haaretz è la prima volta in oltre 50 anni che Israele esce dal “club” delle democrazie liberali. I principali motivi citati da V-Dem sono gli attacchi all’indipendenza della magistratura e la riforma della giustizia voluta dal governo Netanyahu. Secondo la classificazione di V-Dem, le “democrazie elettorali” sono regimi nei quali «il diritto di voto è preservato, ma non l’impegno [a garantire] eguaglianza, diritti delle minoranze, libertà di espressione e lo stato di diritto». Elementi come «l’indipendenza della magistratura, il livello di libertà accademica, l’apertura della società civile e la libertà di espressione nei mass media» concorrono alla definizione del livello assegnato da V-Dem.
La ripresa dei negoziati. Ma come conciliare esigenze agli antipodi?
Nel contesto di una situazione umanitaria disastrosa, sono ripresi i colloqui diplomatici. Emissari israeliani sono giunti lunedì in Qatar, mentre il Segretario di Stato americano Antony Blinken è partito alla volta del Medio Oriente per la sesta volta dall’inizio del conflitto a Gaza. La delegazione israeliana era guidata da David Barnea, capo del Mossad, e rispetto a precedenti occasioni – riporta il New York Times – i negoziatori erano autorizzati a discutere più in profondità i dettagli di un eventuale accordo con le controparti egiziane e qatarine (nota a margine: non sono mai presenti gli iraniani, e come ha sottolineato Zvi Bar’el ciò dovrebbe portare a «riesaminare» la natura dei legami tra l’Iran e il movimento islamista). Un accordo appare tutt’altro che imminente: due fonti israeliane citate dal quotidiano americano «hanno evidenziato di aspettarsi che serva molto tempo» per finalizzarlo. La novità che ha contribuito alla ripresa dei colloqui è lo stralcio da parte di Hamas di alcune delle richieste avanzate in precedenza. In particolare, il gruppo islamista non chiede più un immediato cessate-il-fuoco permanente come condizione per avviare il rilascio degli ostaggi. Tuttavia, da parte israeliana si sottolinea che anche la nuova proposta contiene richieste del tutto inaccettabili per lo Stato ebraico. Ciononostante, il portavoce del ministero degli Esteri qatarino ha mostrato «cauto ottimismo». Il punto cruciale che mostra la difficoltà dei negoziati è stato efficacemente sintetizzato dal Wall Street Journal: da un lato ci sono «i negoziatori israeliani che cercano non solo il rilascio di decine di ostaggi presi il 7 ottobre, ma anche la libertà di riprendere una campagna militare per schiacciare Hamas una volta per tutte dopo la fine di qualsiasi cessate-il-fuoco»; dall’altro, «al contrario, Hamas sta essenzialmente negoziando per la sua sopravvivenza, cercando una tregua duratura e [la possibilità] di rimanere influente nella Gaza post-bellica». Due obiettivi difficilmente conciliabili.
Blinken ha ribadito che è «assolutamente necessario» che Israele permetta agli aiuti di raggiungere la Striscia di Gaza, ma durante il viaggio che l’ha visto prima in Arabia Saudita, poi in Israele ed Egitto, il Segretario di Stato si è focalizzato anche sui piani per un nuovo ordine mediorientale successivo alla fine delle ostilità. Parlando con i giornalisti, Blinken ha infatti affermato che avrebbe utilizzato il suo viaggio per «discutere la giusta architettura per una pace regionale durevole». Mentre aumentano i morti a Gaza, cresce sempre più la pressione esercitata su Israele affinché lo Stato ebraico si impegni maggiormente a favore dei civili palestinesi. È in quest’ottica che il Canada, prima nazione occidentale a farlo, ha deciso di sospendere la vendita di armi a Israele. Se dal punto di vista della prosecuzione della guerra la mossa canadese non è certo un punto di svolta, essa non è nemmeno ininfluente se prendiamo per vere le parole del ministro degli Esteri israeliano Israel Katz, il quale ha affermato che Ottawa «ha compiuto un passo che mina il diritto di Israele all’autodifesa». È dal punto di vista politico, tuttavia, che la decisione del governo di Justin Trudeau ha un peso maggiore: il leader dell’opposizione Yair Lapid ha da un lato criticato la decisione canadese ma dall’altro ha immediatamente sottolineato come le politiche del governo Netanyahu abbiano portato a «un collasso delle relazioni internazionali» dello Stato ebraico. A oltre cinque mesi dall’inizio del conflitto, «Benjamin Netanyahu non ha alcuna idea degli obiettivi di guerra raggiungibili, ma è risoluto e coerente su una cosa: dire di no a tutto, cullandosi nell’indignazione, accusando tutti, dal presidente Biden, all’IDF e a un mondo ostile», ha scritto Alon Pinkas su Haaretz. «Quando pensi che bombardare sia la strategia, finisci con l’isolamento internazionale e un fervente sentimento anti-israeliano», ha aggiunto il giornalista israeliano.
Quella statunitense non è l’unica diplomazia in movimento. Il ministro degli Esteri cinese Wang Kejian si è recato in Medio Oriente, ha visitato l’Egitto e l’Arabia Saudita, ma soprattutto ha fatto tappa a Ramallah e a Doha, dove ha incontrato il capo dell’ala politica di Hamas, Ismail Haniyeh. Il viaggio è stato l’occasione per ribadire la posizione cinese di sostegno a un cessate-il-fuoco e alla creazione di uno Stato palestinese. Una posizione che probabilmente ha contribuito al raggiungimento di un accordo tra la Cina, la Russia, e gli Houthi: secondo quanto riportato da Bloomberg i diplomatici di Mosca e Pechino di stanza in Oman hanno avuto colloqui con Mohammed Abdel Salam, una delle figure di spicco del gruppo yemenita, durante i quali hanno ricevuto assicurazioni sulla tutela delle navi battenti bandiera cinese e russa di passaggio nel Mar Rosso. In cambio, gli Houthi riceverebbero una non specificata copertura diplomatica in sede Onu da parte dei due Paesi che godono del diritto di veto in Consiglio di Sicurezza. Per tutti gli altri Paesi, proteggersi dagli attacchi degli Houthi è sempre più un problema: altre navi sono state attaccate, mentre per la prima volta un missile lanciato dallo Yemen ha penetrato le difese aeree israeliane nella zona di Eilat. Gli Houthi hanno anche tranciato dei cavi sottomarini per la trasmissione di dati ed è sempre più evidente che le missioni internazionali e i bombardamenti in Yemen non raggiungono lo scopo previsto di interrompere le ostilità. Secondo Marc Champion (Bloomberg) «i progressi nella produzione di missili e droni hanno democratizzato armi estremamente potenti che fino a poco tempo fa erano disponibili solo per gli Stati più ricchi. Il giubbotto suicida e l’ordigno esplosivo improvvisato sono stati sostituiti dal drone suicida e dal missile di precisione». A questo si aggiunge quella che Champion definisce «asimmetria delle vulnerabilità»: le nazioni sviluppate sono «ricche di obiettivi […]. Società ricche e complesse come gli Stati Uniti, che alla fine dello scorso anno avevano un PIL pro capite superiore a 76.000 dollari, hanno molto più da attaccare (e da perdere) di una Nazione come lo Yemen, con un PIL pro capite di 650 dollari. [Inoltre] in un’economia globalizzata, gran parte delle infrastrutture che supportano la creazione di ricchezza sono offshore. Quindi, quando gli Houthi interrompono il 12% circa del traffico marittimo globale che passa attraverso lo stretto di Bab al-Mandeb […], questo ha un impatto sui consumatori europei e sui produttori asiatici, ma non sullo Yemen». Un discorso diverso è quello relativo all’ambiente: l’affondamento della Rubymar da parte degli Houthi rischia di innescare un disastro ecologico. Il carico di fertilizzante e il carburante si diffonderanno nel Mar Rosso provocando enormi danni, questi sì anche alle popolazioni della regione. Ma come ha scritto Elizabeth Braw su Foreign Policy, «poiché gli Houthi non hanno alcun riguardo per l’ambiente, è probabile che si verifichino altri disastri di questo tipo».
Mal comune mezzo gaudio. I francesi commentano la “cacciata” degli americani dal Niger [a cura di Mauro Primavera]
In Niger la giunta militare denominata Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria (CNSP), salita al potere dopo il colpo di Stato che tra il 26 e il 28 luglio 2023 ha deposto il presidente Mohamed Bazoum, si allontana ancora di più dall’Occidente. Dopo il ritiro delle truppe francesi alla fine dello scorso anno, il gruppo di ufficiali guidato dal generale Tchiani ha annullato il 16 marzo l’accordo militare siglato con Washington nel 2012, che permetteva alle truppe statunitensi, circa un migliaio di uomini, di operare in due basi militari presenti nel Paese africano. Decisione che, come rileva il Financial Times, diminuisce ulteriormente l’influenza occidentale nell’Africa nordoccidentale e, contestualmente, aumenta quella russa. Ma i mercenari della Wagner (ora rinominatisi Africa Corps) non costituiscono l’unica minaccia: anche l’Iran, interessato a sfruttare i giacimenti di uranio nel Niger, è pronto a riempire il vuoto lasciato dagli americani. Consapevole delle conseguenze geopolitiche di questi sviluppi, l’amministrazione Biden per ora non ha ordinato l’evacuazione del proprio personale. Washington sta di fatto prendendo tempo e intanto cerca, attraverso il proprio corpo diplomatico a Niamey, un dialogo con i nigerini, segnale che (forse) un compromesso è ancora possibile. La disamina del Wall Street Journal è severa: «è un brutto colpo per i tentativi dell’amministrazione Biden, di contenere la vasta insurrezione islamista nel Sahel […]. Potrebbe coinvolgere una base [quella di Agadez] costruita dagli americani e costata 110 milioni di dollari, che ha il compito di monitorare i cieli dell’Africa Occidentale». C’è poi la questione dell’interesse iraniano per l’uranio nigerino: Teheran dispone di riserve sufficienti per completare il suo attuale programma nucleare, ma non per gli ambiziosi sviluppi del suo settore energetico, che richiederanno consistenti importazioni dall’estero. Il timore, per gli americani, è che l’uranio nigerino serva all’Iran per produrre la bomba atomica. Ma i pericoli, prosegue l’articolo, riguardano anche la Francia: l’ex potenza coloniale importa dal Paese grandi quantità di questo metallo attraverso la sua compagnia di Stato Orano, ma il nuovo corso politico potrebbe portare alla fine dell’accordo commerciale. Fatto che rappresenterebbe, nelle parole dell’amministratore delegato della Orano, «il peggiore degli scenari peggiori» per il Niger.
A tal proposito, è piuttosto interessante passare in rassegna le reazioni della stampa francofona, particolarmente sensibile al tema, strettamente collegato alla perdita di influenza geopolitica e di prestigio culturale nelle ex colonie africane di Parigi. La fine dell’accordo militare – commenta L’Opinion – rappresenta nientemeno che l’«umiliazione del secolo» per gli Stati Uniti. Il commento è impietoso, quasi intriso di Schadenfreude verso gli alleati occidentali: «è una profonda sconfessione per la Casa Bianca, che aveva scommesso sulla continuità dopo il colpo di Stato con l’intento di mantenere la base aerea di Agadez, utilizzata soprattutto per l’osservazione dei movimenti in Libia. I dirigenti del terzultimo Paese al mondo in termini di sviluppo umano hanno dato un clamoroso schiaffo alla prima potenza economica e militare del mondo». Più analitico il pezzo di Jeune Afrique, che prova individuare, con l’aiuto di una fonte nigerina, le ragioni che hanno spinto la giunta a prendere questa decisione. Per cominciare, la permanenza degli americani sul suolo del Paese sarebbe stata semplicemente infruttuosa e senza alcun tipo di vantaggio per il Niger: «è da anni che Niamey lamenta un insufficiente scambio di informazioni con i servizi segreti occidentali nel Sahel. È stato questo il caso dei francesi, ma anche degli americani. La CIA raccoglie informazioni sui gruppi criminali nello spazio del Sahel, dal Mali alla Libia, passando per l’Algeria. Ma la nigerina DGDSE [Direction générale de la documentation et de la sécurité extérieure], ne ricava qualche beneficio?». La concessione della base di Agadez è stata quindi interpretata come un affronto alla sovranità nazionale di Niamey, mentre l’irritazione degli americani a causa dei colloqui tra nigerini, russi e iraniani è stata percepita come una vera e propria ingerenza negli affari interni del Paese: «il CNSP ha negato di aver concluso accordi segreti sull’uranio con l’Iran e considera le accuse americane come “false” e “demonizzatrici”. È in questo contesto di sfiducia che si è allargato il divario tra Washington e Niamey nelle ultime settimane. “Gli americani stanno ripetendo quanto fatto in Iraq, dove iniziarono una guerra inventandosi delle falsità sul Paese di Saddam Hussein”, la denuncia di un attivista vicino al Consiglio Nazionale». Ugualmente dura France 24 che critica l’atteggiamento eccessivamente accondiscendente degli americani nei confronti del CNSP dopo il golpe, a differenza della coerenza e intransigenza dei francesi: «mentre Parigi e l’ECOWAS (Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale) avevano denunciato con fermezza il colpo di Stato e richiesto il reinsediamento immediato del premier Bazoum, ancora l’8 agosto gli Stati Uniti definivano la situazione come un “tentativo di presa del potere da parte dei militari”. Approccio cauto a dir poco», dovuto alla partnership stretta con l’esercito nigerino. Sulla stessa linea il quotidiano Le Monde: «chiedendo agli americani di andarsene, il Niger ribalta le sue alleanze. Per molti mesi gli Stati Uniti avevano sperato di non subire la stessa sorte della Francia. Dal golpe del 26 luglio i due Paesi avevano adottato posizioni diverse che hanno dato a incomprensioni e tensioni tra due Stati in teoria alleati nella regione».
Per il giornalista e ricercatore del Sufan Center Wassim Nasr, intervistato sul canale televisivo di France 24, un esito del genere era in realtà inevitabile, dal momento che la stessa dinamica era avvenuta sia in Mali che in Burkina Faso (i cui regimi non a caso si sono congratulati con il presidente russo Vladimir Putin per aver vinto le elezioni presidenziali). L’esperto ha poi aggiunto che la base di Agadez giocava un ruolo cruciale nel garantire l’intera architettura securitaria del Sahel: con il definitivo ritiro delle truppe occidentali la regione diventerà un terreno di scontro tra al-Qaida e lo Stato Islamico.
Acqua, sabbia e agrumi: il cambiamento climatico in Medio Oriente
Questa settimana la stampa internazionale ha prestato grande attenzione ai cambiamenti climatici, i cui disastrosi effetti stanno interessando Paesi già colpiti da profonde e croniche crisi socioeconomiche. Il governo del Sud Sudan ha infatti deciso di chiudere le scuole in previsione di una inconsueta ondata di calore che investirà il Paese, facendo salire il termometro fino a 45 gradi. In Sudan, invece, la crisi climatica si assomma alla guerra civile scoppiata un anno fa. Le Forze di Supporto Rapido (RSF) guidate dal generale Mohamed Dagalo sono entrate nella Jazira, provincia del centro considerata come il “granaio” del Paese. Ottenuto il controllo della catena di approvvigionamento, i miliziani, approfittando del concomitante periodo di carestia, hanno costretto gli abitanti locali ad arruolarsi e a combattere per loro; l’alternativa è morire. Le RSF hanno inoltre saccheggiato i magazzini contenenti viveri e aiuti umanitari, mettendo a rischio la vita di circa sette milioni di sudanesi.
The New Arab analizza il caso di due Paesi levantini. Il primo è il Libano, colpito negli ultimi inverni da intense alluvioni che hanno creato considerevoli disagi nei grandi centri urbani. Come spiega Nadim Farajalla, professore dell’Università Americana di Beirut, non è ancora chiaro il legame che intercorre tra le precipitazioni e il cambiamento climatico in Libano. È tuttavia dimostrato il fatto che le piogge stiano aumentando di intensità, rendendo i sistemi di contenimento delle acque e gli argini fluviali del tutto insufficienti. Inoltre, l’urbanizzazione intensiva e l’obsolescenza dei sistemi fognari hanno contribuito ad acuire il problema delle inondazioni. Il secondo caso è quello della Giordania, affetta da una grave siccità e scarsità idrica. Emblematico il caso della valle del Giordano, in cui gli agricoltori stanno piantando limoni, aranci e altri agrumi, alberi che hanno un fabbisogno idrico inferiore rispetto ad altri tipi di frutta e verdura. Anche in questo caso, il cambiamento climatico è aggravato da vecchi e noti problemi di natura geo e idropolitica: «Molti contadini danno la colpa a Israele di tutto ciò. Nel 1964 lo Stato ebraico costruì dighe a monte del Giordano, deviando l’acqua verso i propri terreni agricoli e poi smaltendo le acque reflue industriali e agricole nel fiume. La Siria fece lo stesso sullo Yarmuk, un affluente del Giordano. Il risultato è che il fiume santo ha perso fino al 98% della sua portata ed è contaminato da metalli pesanti».
La testata statunitense Bloomberg si sofferma sul caso degli Emirati Arabi Uniti, e in particolare di Dubai, che ha edificato un quartiere residenziale il cui nome è un programma: Città Sostenibile. Tuttavia, osserva l’articolo, questa “città modello” rappresenta un «unicum in un Paese ancora privo delle infrastrutture» necessarie per realizzare gli obiettivi climatici previsti dall’agenda di Dubai. La posa della prima pietra è avvenuta nel 2017, ma «sette anni e 354 milioni di dollari dopo, soltanto una parte del progetto è stata realizzata […]. Città Sostenibile doveva avviare un circolo virtuoso. Nonostante la spinta per uno sviluppo più ecologico e le grandi promesse fatte l’anno scorso alla conferenza delle Nazioni Unite a Dubai, gli Emirati hanno una carenza cronica di edifici e comunità che aderiscono agli obiettivi dell’ambientalismo. Città Sostenibile doveva essere un marchio di fabbrica, e invece è soltanto un’anomalia». Il pensiero corre subito a un altro avveniristico e visionario progetto urbanistico, quello di Masdar City che, annunciato nel 2006, avrebbe dovuto dar vita alla prima città del mondo a emissioni zero. A causa della crisi economica del 2007, però, Masdar finì ben presto sull’orlo della bancarotta e perse consistenti capitali e facoltosi investitori.
Il quotidiano francese Le Monde analizza il binomio che lega cambiamento climatico e attuali dinamiche geopolitiche in quanto principali fattori di destabilizzazione delle rotte commerciali marittime: da una parte gli attacchi degli Houthi hanno ridotto i flussi nel Mar Rosso, dall’altra il clima secco e arido ha fatto abbassare i livelli delle acque del Canale di Panama. Infine, il New York Times ha pubblicato un dossier sulla prolungata siccità in Afghanistan, descrivendo le condizioni critiche di contadini e pastori. Senza più acqua e bestiame, queste persone, che oltretutto non hanno ricevuto alcun sostegno da parte del governo dei Talebani, sono costrette ad abbandonare le loro terre e a migrare in Iran.
Le tormentate elezioni in Senegal
Si avvicinano le elezioni in Senegal ed è tempo di bilanci sull’operato del presidente in carica, Macky Sall, il cui mandato è iniziato nel 2012. Nonostante la retorica di Sall faccia continuo riferimento ai valori democratici, Al Jazeera solleva diversi interrogativi sull’operato del presidente senegalese: una serie di «controversie, dagli scandali finanziari alla repressione dei diritti civili passando per un’economia vacillante, hanno oscurato la sua eredità e il suo contributo allo sviluppo del Paese». Per quanto riguarda la situazione politica, se è vero che il Senegal non è stato toccato dall’ondata di golpe che ha investito gran parte del Sahel, Sall avrebbe, secondo l’emittente qatariota, tentato di compiere un “colpo di Stato costituzionale” rinviando l’appuntamento elettorale. France 24 spiega in dettaglio il caos che si è generato in queste settimane sulla data del voto: inizialmente la tornata era stata fissata al 25 febbraio, ma Sall, nel discorso alla nazione del 3 febbraio tenuto a poche ore dall’inizio della campagna, ha rinviato sine die l’appuntamento a causa di presunti casi di corruzione in cui erano coinvolti alcuni giudici, fatto che a suo dire avrebbe compromesso la validità del voto. Da quel momento il clima politico è diventato sempre più confuso: il parlamento ha fissato la nuova data elettorale al 25 agosto, immediatamente posticipata al 15 dicembre per evitare la stagione delle piogge. Ciò ha però avuto l’effetto di estendere il mandato di Sall di altri dieci mesi, scatenando le proteste delle opposizioni e di una parte della società civile che è scesa in piazza a manifestare. La Corte Costituzionale ha provato a rimettere ordine: pronunciatasi sul caso, ha dichiarato non valida e incostituzionale la decisione del presidente di posticipare le elezioni a dicembre, invitando i partiti a riprogrammarle il prima possibile. La compagine filogovernativa ha allora proposto il 2 giugno, data nuovamente bocciata dalla Corte, la quale ha specificato che le urne devono chiudersi prima della scadenza del mandato di Sall (2 aprile). Si è così arrivati al 24 marzo, ma il clima è surreale: «domenica il Senegal sperimenterà una nuova fase del suo dramma elettorale. Circa sette milioni di elettori si recheranno alle urne per eleggere il loro prossimo presidente. Le elezioni sono importanti sotto diversi aspetti, non ultimo perché segnano la fine dei dodici anni al potere del presidente Macky Sall. Dal momento che si sono 17 candidati in lizza per succedergli, si tratta del voto presidenziale più aperto da quando il Senegal ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1960». Jeune Afrique descrive la campagna elettorale come una “guerra per procura”: Amandou Ba, esponente del blocco governativo, e Bassirou Diomaye Faye, leader del PASTEF (Patriotes africains du Sénégal pour le travail, l'éthique et la fraternité) sono i due principali candidati. Tuttavia, riporta la testata, questo duello elettorale ne riflette uno politico molto più duraturo e importante: quello tra il presidente in carica, Sall, e Ousmane Sonko, leader del PASTEF uscito di prigione pochissimo tempo fa.
In breve
Un attentato suicida rivendicato dallo Stato Islamico ha provocato almeno tre morti e 12 feriti a Kandahar, in Afghanistan (AP News). Le relazioni del Paese guidato dai Talebani con il vicino Pakistan sono intanto sempre più tese (Al-Jazeera).
Il reclutamento delle Forze di Supporto Rapido in Sudan è favorito dalla paura, dalle minacce di morte e da un’imminente carestia (CNN).
Il governo iracheno ha forzato la chiusura anticipata della missione ONU che indagava sui crimini commessi dall’ISIS (Reuters).
Secondo Reuters gli Emirati Arabi stanno spingendo affinché l’Unione Europea avvii negoziati bilaterali per raggiungere un accordo di libero scambio, bypassando il Gulf Cooperation Council.
I gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda hanno colpito il Mali. Nell’ultima settimana gli aeroporti di Gao, Timbuctu e Kidal sono stati attaccati. Anche Kati, situata nel centro del potere dei militari, è stata presa di mira (France 24).