Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 13/09/2024 15:49:11

Le elezioni presidenziali tenutesi in Algeria il 7 settembre hanno assegnato la vittoria al presidente uscente Abdelmajid Tebboune, che ha ottenuto un indice di gradimento altissimo, aggiudicandosi il 94,65% delle preferenze. Questo plebiscito, però, non è stato giudicato positivamente dalla stampa araba che, per una volta all’unisono, ha accusato Algeri di essere incapace di rinnovare le sue istituzioni e di non favorire le condizioni per la nascita di un sistema democratico.

 

I quotidiani di area filo-qatariota  mostrano perplessità e dubbi sullo svolgimento delle elezioni. Al-‘Arabi al-Jadid fa una disamina sullo stato di salute della “democrazia araba” con una delle sue efficaci vignette: l’urna elettorale si trasforma in un “teatrino”, in senso letterale e figurato, in cui i militari recitano un copione prestabilito: fingere di organizzare una competizione elettorale equa e libera. Di fatto, però, essi sono gli unici “attori” a occupare il palcoscenico (politico) e addirittura ringraziano con profondi inchini la platea, ossia la popolazione, per avergli riconfermato la fiducia per l’ennesima volta. L’articolo che segue, a firma dell’accademico egiziano Mo‘taz al-Fajiri, sottolinea come anche nei sistemi autoritari l’elezione rappresenti un momento importante, in quanto può costituire «uno strumento di cambiamento politico». Purtroppo la situazione nel mondo arabo è talmente disastrosa che nemmeno questa opzione appare possibile: «la repressione e il deterioramento dello stato di diritto nelle repubbliche arabe in cui le Primavere Arabe hanno subito una battuta d’arresto ha raggiunto livelli senza precedenti, che cancellano la possibilità di far emergere un candidato o una coalizione con i numeri necessari per competere alla corsa elettorale e sfidare lo status quo. Questa situazione è completamente diversa rispetto agli anni precedenti lo scoppio delle Primavere Arabe, quando alcuni regimi concedevano un minimo di spazio alle opposizioni e alla società civile». 

 

Venendo al caso algerino, al-‘Arabi osserva con preoccupazione: «lo shock più grave riguarda il grado di astensionismo e l’incapacità dei partiti e delle organizzazioni di radunare le persone e portarle ai seggi. Le promesse dei candidati, le loro uscite in pubblico e le attività degli altri partiti che sostenevano Tebboune non hanno sortito alcun beneficio, così come il gruppo di organizzazioni locali vicine al presidente, che non sono riuscite a convincere i cittadini della necessità di esercitare il proprio diritto di voto. Non solo, la buffonata da parte di certi membri della classe politica ha portato al fallimento della propaganda elettorale, anzi spesso quest’ultima è stata la causa dell’astensionismo. E come dice uno di questi sostenitori: “alla fine Tebboune poteva vincere senza di loro”». C’è poi da considerare il pasticcio sul conteggio dei votanti: «il comitato elettorale indipendente non ha fornito i dati sull’affluenza, un dato fondamentale per la valutazione dei risultati», ma soltanto una «strana “media percentuale di partecipazione”, che ha prodotto una «lampante discrepanza» tra i numeri forniti dalla propaganda governativa e quelli effettivi. A tal proposito la testata suggerisce che la priorità del governo dovrebbe essere la «risoluzione della questione dell’astensionismo», che implica «l’allargamento dello spazio politico pubblico, la concessione di maggiori libertà e trasparenza», avendo cura di coinvolgere in questo processo i giovani. «Era chiaro – conclude l’articolo – che il calo dell’affluenza ha diverse motivazioni politiche, economiche e sociali, e che tutti, potere e classe politica, devono fare una scrupolosa autocritica per dare credibilità alle elezioni e superare lo spettro dell’astensionismo, costruendo istituzioni solide che possano affrontare le sfide e realizzare lo sviluppo».

 

Ugualmente esplicito il parere del politologo franco-libanese Gilbert Achcar, che dalle colonne di al-Quds al-‘Arabi scrive: «nonostante la confusione che ha accompagnato i risultati della tornata, una cosa è chiara e certa, ossia il rifiuto della stragrande maggioranza popolo algerino del governo militare, dopo che il movimento Hirak chiese cinque anni fa la fine di questo governo e la sua sostituzione con un’autorità civile e democratica». La rielezione di Tebboune va dunque contro la volontà degli algerini e dimostra quanto i governi autoritari arabi siano sordi di fronte alle richieste di cambiamento: «il risultato è che questi regimi non hanno tratto alcuna lezione dalle ondate di proteste del 2011 e del 2019, a parte quella di opprimere e stringere ancora di più la presa sulle società. Così facendo, non si fa altro che innescare sollevazioni ancora più grandi e pericolose di quelle che la regione ha visto finora». In un altro articolo, al-Quds rimbrotta anche i due avversari che «“hanno sfidato”» Tebboune: Abdelaali Hassani Cherif, candidato del partito islamista Movimento della Società per la Pace, e Youcef Aouchiche, leader del Fronte delle Forze Socialiste. Le loro accuse di brogli elettorali sono infatti poco serie e dimostrano una certa ingenuità: «le proteste di Hassani e Aouchiche sui dati del voto non sono credibili […]. Entrambi avevano scelto di giocare una partita già decisa e che gli algerini conoscevano a memoria. Era chiaro fin dal primo momento che sarebbe finita così».  

 

Il giudizio del quotidiano di area filo-emiratina al-‘Arab evidenzia il paradosso di una tornata che, pur «non venendo boicottata da nessun partito», è terminata con un plebiscito che lascia pochi dubbi sulla scorrettezza delle procedure di voto. Ciò mette in luce «la “povertà [della partecipazione] popolare” nel ciclo vitale del regime», come dimostra la bassissima affluenza (poco più di cinque milioni di votanti su 23 aventi diritto). «Non ci si aspettava che le presidenziali algerine fossero uno spazio, un’apertura, o che portassero alla nascita della democrazia» spiega l’autore del pezzo, il giornalista marocchino Tali’ al-Sa‘ud al-Atlasi, dato che «Tebboune, candidandosi come indipendente, ha marginalizzato il pluralismo partitico». Il problema dell’Algeria è infatti intrinseco alla natura del suo regime, che non riesce a raggiungere «la maturità democratica a causa della sua natura militare». Sempre su al-‘Arab, il giornalista libanese Khayrallah Khayrallah riserva parole sferzanti per il capo di Stato algerino: «Tebboune vive in un mondo tutto suo! Le parole di cambiamento in Algeria sono inapplicabili se non si comincia a puntare sullo sviluppo del cittadino algerino innalzando il livello di istruzione e diversificando l’economia di un Paese che possiede enormi ricchezze ma che si rifiuta di sfruttarle, fatta eccezione per il petrolio e il gas». La rielezione non fa altro che confermare la staticità del Paese nordafricano: «niente di nuovo in Algeria con la vittoria di Tebboune. Si tratta del tentativo delle istituzioni militari di mostrare che l’Algeria è uno Stato democratico in cui è ammessa la competizione alle presidenziali. Ma il 94,65% delle preferenze, alla luce dell’ampio boicottaggio della popolazione, ha fatto fallire questo tentativo, o, nel migliore dei casi, mirava a imbellettare il volto del regime. A seguito delle elezioni, il cui risultato era conosciuto già in anticipo, è emerso con chiarezza che il cittadino algerino non sembrava avere alcun entusiasmo per il voto; la mentalità del regime non cambia con uno schiocco di dita. I militari hanno deciso di confermare Tebboune, che ha dimostrato negli ultimi anni una piena collaborazione con loro». Alla luce di ciò, «è chiaro che non vi è ombra di dubbio sul fatto che il regime è incapace di cambiare pelle». E così è costretto a ricorre ai soliti escamotage: «comprare la pace sociale con gas e petrolio e fuggire dalla crisi interna» occupandosi di questioni regionali, tra cui spicca la questione del Sahara Occidentale e la disputa con il vicino Marocco.

 

Vediamo infine la reazione dei quotidiani algerini, gli unici entusiasti del voto. La pagine di El Chaab enfatizzano e celebrano la vittoria di Tebboune: «Completa fiducia al Presidente»; «gli algerini scelgono di preservare le vittorie e di proseguire con i successi»; «nella nuova Algeria il treno del cambiamento e delle riforme non si arresterà». Echorouk intervista l’ex leader dell’Associazione degli Ulema algerini Abderrezak Guessoum per analizzare il significato delle congratulazioni che Yahya Sinwar ha inviato a Tebboune: secondo Guessoum, le parole del leader di Hamas contengono «tre messaggi importanti. Il primo è che la Resistenza sa chi è con lei è chi è contro di lei. Il secondo ha a che vedere con la consapevolezza di Sinwar del ruolo dell’Algeria e del suo impegno politico profuso nelle istituzioni internazionali. Il terzo riguarda l’attenzione di Algeri a seguire tutto quello che le succede intorno nel mondo». 

 

Il «Furto del secolo» e il confessionalismo scuotono l’Iraq [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Da diversi mesi i giornalisti arabi che scrivono d’Iraq mettono in luce le criticità connesse con la ripartizione etnica e confessionale su cui si fonda il sistema politico del Paese. La Costituzione, spiega Adham Ibrahim su al-‘Arab, quotidiano londinese di proprietà emiratina, prevede un sistema in cui «il potere è condiviso tra i principali gruppi etnici e religiosi del Paese, senza che vi sia il predominio di una parte sulle altre. L’esercizio del potere sovrano ha però aggravato le divisioni e rafforzato il nepotismo e la corruzione». Il confessionalismo porta con sé diversi problemi, sottolinea l’editorialista, come «la mancanza di unità nazionale, perché spesso i leader politici fanno prevalere i propri interessi o quelli dei propri partiti a scapito del bene comune della nazione». Con conseguenze nefaste per il Paese, tra cui la stagnazione politica, che ostacola lo sviluppo economico generando disoccupazione e favorendo la diffusione della criminalità organizzata e dei traffici di droga. Riprendendo un’espressione di Samuel Huntington, Ibrahim scrive che l’Iraq sta vivendo uno stato di «dissoluzione politica», aggravato dalla guerra a Gaza, che ha ulteriormente accentuato il ruolo nefasto giocato dalle milizie. Per il Paese è prioritario ritrovare un’unità nazionale. Ma come? Uscire da questa impasse è difficile, commenta Ibrahim, la «malattia» che ha colpito l’Iraq «non può essere curata con gli strumenti della democrazia, truccando ogni volta le elezioni e continuando a riprodurre un sistema logoro». Gli iracheni, conclude il giornalista, sperano in un colpo di Stato militare, come erano abituati in passato, ma oggi questa via non è percorribile, perché l’Iraq è governato da molteplici milizie e partiti capaci di mobilitare le piazze; pertanto, un golpe contro l’autorità è «un rischio che non può essere corso». La soluzione, secondo Ibrahim, potrebbe essere «un colpo di Stato morbido», «che rovesci il processo politico dalle sue fondamenta. Qualsiasi cambiamento nelle regole del gioco politico, fondato sulla duplice divisione confessionale ed etnica del popolo iracheno, capovolgerebbe l’equazione ed eliminerebbe tutti i capi corrotti al vertice del processo politico, che fanno delle divisioni confessionali ed etniche un metodo per restare al potere».

 

Altrettanto critico verso il confessionalismo è il giornalista iracheno Farouk Youssef, che sullo stesso quotidiano accusa il sistema di essere il principale responsabile dell’ascesa dell’ISIS nel 2014. La nascita del gruppo jihadista e poi la sua sconfitta nel 2017, scrive l’editorialista, «sono stati l’occasione per raggiungere due obiettivi confessionali: distruggere le città a maggioranza sunnita, […] e consentire l’arresto del maggior numero possibile di donne e giovani di quelle città, con l’accusa di aver fornito sostegno all’organizzazione [l’ISIS]». Youssef ritiene corresponsabili della vicenda l’Iran, la Siria e Nuri al-Maliki, l’allora Primo ministro sciita (dal 2005 al 2014), che «ha soddisfatto così il suo desiderio di vendetta confessionale». Alla ricerca di un terzo mandato, all’epoca al-Maliki «ha preso due piccioni con una fava: ha attuato un piano imposto dalle potenze internazionali e regionali che in cambio lo hanno sostenuto e ne hanno garantito la sopravvivenza [politica], e ha attuato una campagna di pulizia confessionale che non avrebbe potuto portare avanti se non attraverso una guerra civile dai risultati incerti».

 

L’anniversario dell’11 settembre ha inoltre alimentato alcune riflessioni sulle relazioni tra l’Iraq e al-Qaida. Su al-Sharq al-Awsat, quotidiano di proprietà saudita, il giornalista Mashari Althaidy ritorna sull’annosa e dibattuta questione dei rapporti tra Saddam Hussein e Bin Laden, e attribuisce all’ex leader iracheno la responsabilità dei problemi sicuritari che hanno investito l’Arabia Saudita negli anni ’90 e della successiva ondata di terrorismo in Occidente. L’esistenza di un legame tra Saddam e Bin Laden, scrive l’editorialista, è stato confermato dall’ex capo dei servizi segreti iracheni Salim al-Jomaili, secondo il quale «Saddam Hussein aveva incaricato i servizi d’intelligence di impegnarsi anima e corpo per minare la presenza militare americana in Arabia Saudita». L’allora capo delle operazioni estere dell’intelligence irachena, Farouk Hijazi, incontrò il leader di al-Qaida in Sudan, il quale si disse pronto a cooperare, ma in cambio «chiese la libertà di decidere obiettivi e tempi». Hijazi, scrive Althaidy, era consapevole di ciò che avrebbe comportato il coinvolgimento di Bin Laden – «il prezzo da pagare per collaborare con lui sarebbe stato estremamente pericoloso» – e mise in guardia Saddam. Il giornalista si domanda infine se all’epoca la Russia, al-Turabi e al-Bashir (ex leader islamisti del Sudan), abbiano giocato un ruolo diretto nel favorire questa cooperazione.   

 

Diversi editorialisti denunciano la corruzione del Paese, definita come parte integrante del sistema di governo iracheno. Questa settimana, durante una conferenza stampa ad Erbil, il capo della Commissione per l’integrità, Haider Hanoun, ha accusato la magistratura di aver coperto le operazioni di corruzione collegate all’affaireFurto del secolo”, come è stato definito dagli iracheni, ovvero l’appropriazione indebita da parte di alcune società di comodo dell’equivalente di 2,5 miliardi di dollari di denaro pubblico. Hanoun ha denunciato il coinvolgimento di partiti e personalità politiche in queste operazioni, e ha invitato il Parlamento a rendere conto pubblicamente dello scandalo. Il terremoto che questo potrebbe generare ha spinto diversi politici a impedire il confronto. Su al-‘Arabi al-Jadid Abdul Latif al-Sadoun mette in guardia dal rischio di collasso del governo: tanto gli oppositori quanto gli uomini del regime convengono che «gli abusi commessi dai tre poteri potrebbero essere più pericolosi di un attacco terroristico lanciato contro il regime». Nel frattempo, però, anche Hanoun è finito a sua volta sotto accusa per corruzione, a seguito di alcune intercettazioni, tutte da verificare, dalle quali emerge che il giudice avrebbe incassato delle tangenti. A queste difficoltà si aggiunge la richiesta avanzata dal Congresso americano a Joe Biden «di sanzionare i funzionari iracheni, tra cui il ministro del Petrolio e i miliziani di Asa’ib al-Haq, parte del governo di Muhammad Shia al-Sudani, per il loro coinvolgimento nel contrabbando di petrolio iraniano, spacciato per iracheno e venduto sul mercato internazionale, i cui proventi venivano poi trasferiti a Teheran».

 

La corruzione «distrugge il processo politico in Iraq», scrive ancora su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista iracheno Iyad al-Dulaimi. Di «Furti del secolo» nel Paese ce ne sono stati parecchi dal 2003 a oggi, anche più gravi dell’ultimo in ordine cronologico. La corruzione in Iraq «è diventata una condizione politica», «fermarne la ruota non è possibile», e ciò che è stato portato alla luce è solo la punta dell’iceberg, prosegue l’editoriale. «Le nuvole si stanno addensando sul cielo dell’Iraq e annunciano una rivoluzione che farà crollare il tetto del tempio sulla testa dei suoi custodi. Questo regime non può continuare a praticare la corruzione, il confessionalismo e l’emarginazione, pensando di farla sempre franca», conclude Dulaimi.

 

Chi ha trascinato l’Iraq nell’abisso in cui si trova oggi? – domanda il giornalista iracheno Farouk Youssef su al-‘Arab. Contrariamente a chi accusa gli americani di tutti i mali di cui soffre il Paese, l’editoralista ritiene invece responsabili i suoi stessi connazionali, perché «né le milizie comuniste, né la Guardia nazionale baathista, né le milizie di Muqtada al-Sadr, Hadi al-Amiri e Qais al-Khazali sono invenzioni straniere». L’articolo è un implacabile j’accuse agli iracheni, ritenuti responsabili del disastro in cui versa oggi il Paese: esso è «il risultato di un pensiero e di un comportamento iracheno profondamente radicati, di quel senso di superiorità derivante dall’isolamento in cui hanno vissuto per decenni gli iracheni». Un isolamento che «non è stato il risultato del divieto di viaggio introdotto nel 1982, il secondo anno di guerra con l’Iran», ma che sarebbe l’effetto di una disposizione d’animo degli iracheni, tradizionalmente «poco propensi a interagire con le trasformazioni in atto al di fuori del loro Paese». La società irachena, continua l’editoriale, «era chiusa nelle sue tradizioni familiari, e anche chi ha avuto l’opportunità di essere influenzato dalle società moderne in cui aveva ricevuto la formazione universitaria, viveva in un’atmosfera chiusa». La sconfitta subita da Baghdad a seguito dell’invasione del Kuwait e poi «l’occupazione americana» del 2003 hanno decretato la fine del «mito dell’iracheno», riportando drasticamente alla realtà gli iracheni, i quali scoprirono che «per riuscire a sopravvivere avrebbero dovuto vendere il loro petrolio in cambio di cibo e medicine». L’Iraq, denuncia Youssef con toni darwinisti, «è un Paese ricco con un popolo povero, ma i popoli superiori del mondo non sono poveri. E la ricchezza è uno dei segni della superiorità». Il giornalista rimprovera inoltre i suoi connazionali di essere «inclini al pianto» e poco propensi ad adoperarsi per cambiare la realtà.

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