Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:11:55

Un violento attentato ha colpito Peshawar, capoluogo della provincia pachistana di Khyber-Pakhtunkhwa, al confine con l’Afghanistan. Un’esplosione avvenuta all’interno di una moschea ha provocato numerosi morti: le stime iniziali parlavano di circa 50 persone decedute, ma purtroppo le ultime notizie hanno aggiornato il bilancio, che conta 101 vittime. Secondo la CNN, che descrive la situazione come una «crisi di sicurezza nazionale», i morti potrebbero essere anche di più. A provocare questa devastazione sarebbero stati 12 chilogrammi di esplosivo azionato da un attentatore suicida.

 

L’attentato è avvenuto durante la preghiera serale e la maggior parte delle persone coinvolte fa parte delle forze di sicurezza e di polizia di stanza a Peshawar, una città che è già stata oggetto di diversi attentati, tra cui quello del 2014, probabilmente il più brutale della storia pakistana, quando i Talebani assaltarono una scuola gestita dall’esercito e uccisero 147 tra studenti e insegnanti. L’ultima azione terroristica impressiona non solo per l’elevato numero di decessi che ha provocato, ma anche perché la moschea colpita si trova all’interno di un quartiere nel quale hanno sede diversi edifici legati al governo e ai militari, che dunque dovrebbe essere particolarmente sicuro.

 

L’attacco non è stato immediatamente rivendicato, ma due esponenti del gruppo dei Talebani pakistani (TTP) hanno affermato che si tratta di una vendetta per l’uccisione di Khalid Khorasani, uno dei fondatori dell’organizzazione, avvenuta l’anno scorso. Subito dopo, però, il portavoce dei talebani pakistani Muhammad Khorasani ha negato ogni coinvolgimento e ricordato che secondo i principi del gruppo islamista «ogni azione in moschee, madrase, aree funerarie e altri luoghi sacri è illecita». Sarebbe però stata una costola del TTP, la fazione TTP Mohmand, precedentemente nota come Jamatul Ahrar e guidata proprio da Khalid Khorasani, a pianificare ed eseguire l’attentato. Questa fazione si era staccata dai Talebani pakistani nel 2014, per farvi rientro nel 2020. È interessante notare che molti dei sostenitori dei Talebani pakistani si sono scagliati contro la dichiarazione di condanna dell’attentato rilasciata dai Talebani afghani, che è stata liquidata come un atto di convenienza politica tipico degli ipocriti (The Khorasan Diary). È utile ricordare che i Talebani afghani e quelli pakistani sono organizzazioni differenti e autonome, seppur contigue sia da un punto di vista ideologico che geografico. La vicinanza geografica permette ai Talebani pakistani di trovare rifugio oltre frontiera, pratica che è significativamente aumentata proprio dopo la ricostituzione dell’Emirato Islamico a Kabul (qui un utile background sui talebani pakistani, curato dall’Associated Press).

 

Va inoltre segnalato che gruppi jihadisti riemersi recentemente, come Lashkar-e-Jhangvi, hanno diramato comunicati celebrativi dell’attacco. A gettare ulteriori dubbi e incertezze sulla situazione securitaria del Paese ha contribuito una manifestazione organizzata dalla polizia di Peshawar (evento particolarmente raro) durante la quale i poliziotti hanno lasciato intendere di non escludere che i reali mandanti dell’attentato siano proprio le forze di sicurezza pakistane. Un’ipotesi avanzata anche dal capo della polizia di Peshawar, secondo il quale i primi elementi emersi dall’indagine, che finora ha portato all’arresto di alcune persone, mostrano che l’attentatore potrebbe aver trovato assistenza all’interno delle forze dell’ordine.

 

Quando nel 2014 l’offensiva dell’esercito pakistano spinse molti Talebani pakistani a rifugiarsi in Afghanistan, gli abitanti di Peshawar, città martoriata dal terrorismo jihadista, hanno sperato in un futuro più pacifico. Tuttavia, quest’ultimo attentato mostra che il TTP sta «riguadagnando forza grazie ai rifugi sicuri» garantiti dal nuovo governo insediato a Kabul. Come ha affermato Madiha Afzal, ricercatrice del Brookings Institution, l’attentato riporta la città indietro di un decennio. Quale sarà la reazione dell’esercito di Islamabad? Secondo alcune fonti le forze armate starebbero valutando una nuova offensiva contro il TTP. Tuttavia, come ha ricordato Michael Kugelman, direttore del South Asia Institute del Wilson Center, «la risposta di controterrorismo più efficace sarebbe probabilmente quella che si focalizza sull’epicentro del potere attuale del TTP, ovvero in Afghanistan, dove si trova la leadership del gruppo. Se il Pakistan portasse avanti attività di controterrorismo transfrontaliere, le tensioni con i Talebani in Afghanistan diventerebbero stratosferiche, e questa è l’ultima cosa di cui il Pakistan ha bisogno».

 

Secondo l’ex ambasciatrice pakistana negli Stati Uniti, Maleeha Lodhi, questo attentato pone una grande sfida al Paese, perché giunge in «un periodo in cui l’economia pakistana è sull’orlo del baratro e la politica è profondamente polarizzata». Economicamente, infatti, la situazione è drammatica, peggiorata sensibilmente dalle devastanti inondazioni subite l’anno scorso: a meno che non riceva rapidamente aiuti imponenti, il Paese rischia il default, scrivono Marc Jones e Gibran Naiyyar Peshimam in un’analisi pubblicata da Reuters. Come già segnalato in precedenza anche nel nostro Focus attualità, preoccupa in particolare l’esaurimento di riserve di valuta straniera, che al momento ammontano a soli 3,7 miliardi di dollari. Una somma appena sufficiente per coprire tre settimane di importazioni.

 

Blinken in Medio Oriente. Un viaggio “anemico”

 

Questa settimana il segretario di Stato americano Antony Blinken si è recato in visita ufficiale in Medio Oriente. L’Egitto è stato la prima tappa di quello che i giornalisti dell’Associated Press Josef Federman e Matthew Lee hanno definito un viaggio «anemico». Al Cairo Blinken ha incontrato sia il presidente Abdel Fattah al-Sisi che il ministro degli Esteri Sameh Shoukry, ai quali ha confermato l’intenzione di Washington di rafforzare la partnership strategica con l’Egitto. Blinken ha inoltre sottolineato che le autorità egiziane hanno fatto passi in avanti nel rispetto della libertà religiosa e dei diritti delle donne, oltre ad aver rilasciato alcuni prigionieri. Tuttavia, il Segretario di Stato ha anche precisato che gli Stati Uniti continueranno a incoraggiare l’Egitto a compiere ulteriori passi in avanti nel rispetto dei diritti umani, tra cui spiccano la liberazione di altri prigionieri politici e la tutela della libertà di espressione.

 

In questa fase di tensioni crescenti in Israele, Blinken ha voluto sottolineare il ruolo di mediazione tra israeliani e palestinesi che il Cairo ha svolto in diverse occasioni. Un ruolo importante ancora oggi. Tuttavia, il ruolo diplomatico dell’Egitto non è strettamente limitato alla regione mediorientale. Come ha scritto Adam Lucente citando il quotidiano governativo egiziano Al-Ahram, il giorno dopo aver incontrato Blinken, Shoukry si è recato a Mosca. Qui ha incontrato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov al quale, stando alla descrizione dei fatti elaborata dal quotidiano egiziano, avrebbe recapitato un messaggio da parte statunitense. Contenuto del messaggio: l’invito americano a fermare l’aggressione all’Ucraina per permettere ai negoziati di svolgersi con successo. Non sono però stati forniti altri dettagli, se non che Lavrov avrebbe bollato come “incompleta” la proposta americana.

 

Dopo l’Egitto, il Segretario di Stato americano si è recato in Israele, dove la violenza continua ad aumentare. Durante l’incontro con il premier Benjamin Netanyahu, Blinken ha lanciato appelli per la de-escalation ma non ha offerto, almeno pubblicamente, «alcuna particolare idea per calmare la situazione», ha commentato l’Associated Press. Durante la conferenza stampa che è seguita all’incontro, il premier israeliano non ha fatto alcun riferimento alle violenze e, al contrario, si è soffermato sulla minaccia che l’Iran pone a Israele e sulla volontà di estendere gli Accordi di Abramo ad altri Stati arabi a africani (sembra ben avviata le normalizzazione con il Sudan, mentre il Ciad ha inaugurato l’ambasciata in Israele). Tuttavia, la normalizzazione coi Paesi arabi e africani non può oscurare la necessità di trovare una soluzione al caso palestinese e lo stesso Blinken ha ricordato che nel lungo periodo l’obiettivo americano prevede di dare seguito alla soluzione dei due Stati. Oggi, però, i politici di estrema destra che sono al governo nel Paese non ammettono alcuna possibilità che in futuro venga garantita l’indipendenza di uno Stato palestinese.

 

Oltre a Netanyahu Blinken ha incontrato il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, con il quale ha discusso delle modalità per contrastare la minaccia iraniana. Su questo tema Stati Uniti e Israele sono ormai allineati, principalmente a causa del progresso del programma nucleare iraniano. Per questo, una fonte anonima della sicurezza israeliana ha definito una «perdita di tempo» i colloqui dedicati alla situazione palestinese: Stati Uniti e Israele dovrebbero dedicare tutti i loro sforzi a fermare l’Iran.

 

I colloqui con Mahmoud Abbas sono stati deludenti: come ha scritto il New York Times, «l’obiettivo principale [di Blinken] a Ramallah era di persuadere la leadership palestinese a contribuire a ridurre le tensioni in Cisgiordania», mentre il Segretario di Stato non è andato oltre alla generica riaffermazione del principio dei due popoli due Stati e alla fornitura di un quantitativo limitato di risorse economiche a fini umanitari. È emerso chiaramente che gli Stati Uniti vogliono concentrare le loro attenzioni sulla situazione in Ucraina, senza lasciarsi “distrarre” dalle violenze legate al conflitto arabo-israeliano. È anche per questa mancanza di impegno che Blinken è tornato dal Medio Oriente con «pochi risultati tangibili», come ha scritto Foreign Policy. In parte però, osserva il magazine americano, ciò si deve anche alla oggettiva difficoltà riscontrata nel dialogare con un governo israeliano composto da esponenti della destra oltranzista. Per migliorare la capacità di dialogo di Washington con il governo presieduto da Netanyahu, Aaron David Miller (Carnegie Endowment for International Peace) e Daniel C. Kurtzer (ex ambasciatore americano in Egitto e Israele) suggeriscono cinque linee d’azione: chiedere a Netanyahu di tenere fede alla sua promessa di contenere gli elementi più radicali della maggioranza; rendere la relazione maggiormente transazionale; focalizzarsi sull’Iran come nemico comune; premere sia sull’Autorità Palestinese che su Israele per la ripresa dei colloqui; chiarire una volta per tutte che gli Stati Uniti non si intromettono nella politica interna israeliana, e lo stesso deve valere per Israele con la politica statunitense.

 

Intanto l’OPEC+ ha comunicato che non modificherà la sua linea di tagli alla produzione, mantenendo quindi l’output ai livelli previsti, ciò che secondo il Wall Street Journal permette all’organizzazione dei Paesi produttori di temporeggiare e valutare più accuratamente che cosa avverrà alla domanda di petrolio da parte della Cina. Si tratta di una decisione che secondo Salim A. Essaid (Al-Monitor) ha anche un significato distensivo nei confronti degli Stati Uniti.

 

L’Iran alle prese con il Mossad e l’Azerbaigian

 

Nuovo capitolo nella guerra sotterranea (ma non troppo) tra Israele e l’Iran. Domenica un attacco con dei droni ha provocato un’esplosione in un complesso militare a Isfahan, che è stato colpito in quattro diversi punti, secondo la ricostruzione fornita dal Wall Street Journal che, per primo, ha indicato il Mossad come responsabile dell’accaduto. Le immagini satellitari mostrano danni limitati al tetto degli edifici, mentre le fonti israeliane hanno definito un successo l’operazione, contraddicendo la versione iraniana secondo cui l’attacco è stato sventato dalla difesa aerea. Israele e Stati Uniti, verosimilmente gli unici due attori in grado di compiere un attacco del genere, non hanno commentato l’accaduto, mentre le autorità ucraine hanno esultato per il colpo inferto a uno dei Paesi che fornisce armi alla Russia. Tuttavia, non sembrano esserci collegamenti diretti tra la guerra in Ucraina e l’attacco in Iran. Secondo le autorità iraniane, che hanno comunque convocato l’inviato ucraino a Teheran, l’operazione è stata lanciata dall’interno del Paese – questa è una certezza, perché la tipologia di droni utilizzata non ha un’autonomia sufficiente per raggiungere il bersaglio partendo dall’esterno del Paese – ed è stata possibile grazie al sostegno dei curdi iraniani.

 

Ma qual era l’obiettivo dell’operazione del Mossad? Secondo Ronen Solomon gli israeliani hanno voluto colpire un centro di ricerca spaziale che ospita l’Institute for Materials and Energy, realtà che contribuisce agli sforzi iraniani nello sviluppo di droni, missili balistici e metalli da utilizzare in ambito nucleare. Tuttavia, raramente azioni tattiche di questo tipo provocano conseguenze significative sull’avanzamento di un programma militare. Il significato di quanto accaduto, allora, va ricercato più nell’ambito della politica che in quello militare. Secondo Abdolrasool Divsallar (Middle East Institute) l’attacco è servito a inviare «un messaggio politico-strategico […] che è difficile slegare dalle crescenti tensioni riguardo al programma nucleare e al sostegno dell’Iran all’aggressione russa in Ucraina. Vale a dire, segnala la disponibilità dell’aggressore (aggressori) a prendere rischi misurati, ristabilire le soglie, e dimostrare la prontezza a utilizzare ogni metodo disponibile per costringere la Repubblica Islamica a modificare le sue politiche».

 

Intanto Teheran deve fare i conti con un’altra crisi internazionale, quella con l’Azerbaigian, peggiorata ulteriormente dopo che Baku ha nominato per la prima volta un suo ambasciatore in Israele, di fatto ufficializzando la cooperazione, anche militare, con lo Stato ebraico. Ora, in seguito a un attentato che ha provocato la morte di un addetto alla sicurezza dell’ambasciata azera a Teheran, il ministro degli Esteri azero ha ordinato l’evacuazione del personale diplomatico e delle relative famiglie. Oltre al trattamento della minoranza azera presente in Iran, le tensioni tra Iran e Azerbaigian sono alimentate dai timori di una nuova offensiva azera in Nagorno-Karabakh. Complici le distrazioni di Russia, alle prese con la guerra in Ucraina, e Iran, impegnato a sedare le rivolte interne, Baku potrebbe cercare di occupare il corridoio di Zangezour. Se ciò avvenisse, verrebbe reciso il collegamento tra l’Armenia e l’alleato iraniano (che in questo contesto sostiene un Paese cristiano contro i musulmani azeri, prevalentemente sciiti) e questo provocherebbe un significativo danno sia per l’Iran (Hamidreza Azizi, ricercatore al SWP, descrive questo scenario una «catastrofe geopolitica» per Teheran) che per Yerevan, che si troverebbe a poter contare solo sul confine con la Georgia per accedere all’estero. 

 

Un’ultima nota. Quelle azere e curde non sono le uniche minoranze a cui l’Iran deve prestare attenzione. Esiste infatti il rischio che il Baluchistan iraniano si trasformi nel nuovo teatro dello scontro settario tra sunniti e sciiti. Il regime continua ad accusare i manifestanti di quest’area di essere fomentati da agenti stranieri, mentre Molavi Abdul Hamid, il più importante chierico sunnita della regione, ha iniziato a usare i suoi sermoni per attaccare direttamente la Guida Suprema Ali Khamenei.

 

In breve

 

Le forze speciali francesi hanno intercettato e sequestrato una nave cargo iraniana che trasportava armi in grandi quantità, verosimilmente destinate ai ribelli houthi in Yemen (al-Jazeera).

 

L’Arabia Saudita si è posta l’obiettivo di ospitare 100 milioni di turisti all’anno entro la fine del decennio, nel tentativo di diversificare l’economia e ridurre la dipendenza dal petrolio (Financial Times).

 

La Banca Centrale libanese ha svalutato la lira, riducendo il divario tra il cambio ufficiale e quello al mercato nero. In seguito alla decisione delle autorità libanesi il cambio ufficiale tra lira libanese e dollaro americano si attesta a 15.000. Sul mercato nero un dollaro viene scambiato per circa 60.000 lire libanesi (Associated Press).

 

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