All’amministrazione uscente vanno riconosciute alcune attenuanti. Ma l’eredità del presidente democratico in Medio Oriente è segnata da compromessi al ribasso e dolorose inversioni a U
Ultimo aggiornamento: 05/11/2024 11:20:57
Valutare l’eredità della presidenza di Joe Biden in Medio Oriente nel bel mezzo di una guerra che vede impegnato Israele su più fronti, con un’ipotetica soluzione al conflitto israelo-palestinese sempre più lontana, e con decine di migliaia di morti tra Gaza e il Libano, può sembrare un esercizio fin troppo facile. L’amministrazione che volge al termine ha trovato proprio in Medio Oriente i suoi fallimenti più gravi ed è in questa regione che la sua politica estera è stata più volte costretta un’inversione a U. Chiarito questo, è pur necessario riconoscere a Biden alcune attenuanti. La prima riguarda la distanza tra aspettative e realtà: viviamo in società, soprattutto in Occidente, che hanno fresco il ricordo della fase unipolare americana, nella quale Washington poteva imporre le sue idee e le sue preferenze sia attraverso l’uso della forza che con l’influenza politica, culturale ed economica. È a partire da questa considerazione che si alimentano le aspettative su ciò che l’America potrebbe e dovrebbe fare. Ma mentre si esige che la Casa Bianca svolga ancora quel ruolo, per esempio “imponendo” a Israele un cessate il fuoco, si ignora che oggi gli Stati Uniti non hanno più questo potere. Il sistema internazionale è radicalmente mutato e il presidente degli Stati Uniti può modificare lo stato dei fatti soltanto in una certa misura. All’inizio della sua presidenza, Biden si è impegnato a rinforzare l’ordine internazionale rules-based senza però comprendere, o forse volontariamente ignorando, che tale ordine non esisteva più (se mai era esistito). Come ha osservato Ben Rhodes in un recente saggio pubblicato su Foreign Affairs, certamente «le sue leggi, strutture, e summit restano in vigore. Ma le istituzioni chiave, come il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e l’Organizzazione Mondiale del Commercio sono aggrovigliati dai disaccordi tra i loro membri». L’America che Biden ha guidato in questi anni non ha il potere di far tornare indietro l’orologio, anche perché è Washington stessa ad aver contribuito alla distruzione dell’ordine globale emerso dopo la fine della Guerra Fredda, basti pensare all’invasione dell’Iraq del 2003 o alla crisi finanziaria partita proprio dagli Stati Uniti nel 2008. Tuttavia, per quanto in diversi consessi, a cominciare dal vertice dei BRICS di Kazan, si parli di un mondo multipolare, tale mondo ancora non esiste. Gli Stati Uniti, come tutti gli altri attori, navigano a fatica in un contesto fluido, dove le regole, formali e informali, del sistema internazionale vanno disfacendosi senza che ne emergano chiaramente di nuove. Inoltre – seconda attenuante – la presidenza Biden va valutata in un continuum con quelle precedenti, e non può essere considerata un blocco a sé stante, responsabile tout court di processi iniziati durante la precedente amministrazione, se non prima. Esemplificativi da questo punto di vista i casi dell’Iran e dell’Afghanistan, su cui comunque Biden ha aggiunto del suo. Per quanto si possano ritenere gli Stati Uniti corresponsabili, il presidente uscente – ultima attenuante – ha dovuto fare i conti con il moltiplicarsi di crisi in aree geografiche diverse e lontane tra loro, in parte al di fuori del potere e delle possibilità americane: è tornata la guerra in Europa, il 7 Ottobre e la risposta israeliana hanno nuovamente sconvolto il Medio Oriente, mentre le tensioni in Asia, specialmente attorno a Taiwan e alla penisola coreana, richiedono la costante attenzione statunitense.
Ciò non toglie che almeno per ciò che concerne il Medio Oriente Biden avrebbe potuto, e dovuto, fare di meglio, soprattutto alla luce del programma con cui Biden si era presentato alla Casa Bianca. La prima cosa che il neoeletto presidente americano disse quando si presentò al Dipartimento di Stato non poteva essere più chiara: «il messaggio che oggi voglio mandare al mondo [è che] l’America è tornata. La diplomazia è tornata al centro della nostra politica estera». Nell’ottica democratica, tutto doveva essere l’opposto di ciò che era stata la politica estera di Trump, e i diritti umani si situavano al centro dell’approccio di Biden all’arena internazionale. Contestualmente, Biden ereditava da Trump l’idea della contrazione della presenza americana in Medio Oriente, già avviata da Obama, e non intendeva opporvisi. A differenza del suo predecessore, tuttavia, Biden era ancora convinto che la cooperazione multilaterale potesse essere uno strumento utile per mantenere la posizione di potere o di egemonia statunitense, senza prevedere necessariamente un dispiegamento militare. È per questo che durante la sua campagna elettorale Biden aveva affermato il desiderio, in fondo mai accantonato, di riportare gli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare iraniano da cui Trump si era improvvidamente ritirato. Inoltre, al contrario del tycoon, mentre teneva aperta la porta dei negoziati con l’Iran Biden definiva l’Arabia Saudita un “paria internazionale”, colpevole dell’assassinio di Jamal Khashoggi e di gravi violazioni dei diritti umani in Yemen. A quattro anni di distanza la situazione è radicalmente cambiata, e le intenzioni espresse da Biden sono state scavalcate dagli eventi, costringendo il presidente a passi indietro politicamente costosi. Sono state l’invasione russa dell’Ucraina e le necessità democratiche in vista delle elezioni di mid-term a far passare in secondo piano l’indignazione americana nei confronti dell’Arabia Saudita per l’uccisione di Khashoggi (il quale era collaboratore del Washington Post). Il conflitto in Europa orientale, infatti, ha spinto verso l’alto il prezzo del petrolio e Biden temeva che l’aumento dei prezzi alla pompa si tramutasse in una sconfitta politica. Così, dopo le condanne verbali indirizzate al principe ereditario Muhammad bin Salman (MbS), Biden raggiunse l’Arabia Saudita nel tentativo di convincere le autorità del Regno ad aumentare la produzione petrolifera, venendo meno agli accordi presi da Riyad con gli altri Paesi produttori (inclusa la Russia) nell’ambito dell’OPEC+. Mentre l’attenzione mediatica era concentrata su questioni che sfioravano il gossip (“si stringeranno la mano?” – era la domanda che ricorreva ossessivamente, a cui la risposta fu il famoso “fist bumb”), i sauditi chiarirono inequivocabilmente che era finito il tempo in cui agivano in ossequio agli interessi americani. E innalzare la produzione di petrolio non era negli interessi di Riyad. Il dietrofront di Biden, costosissimo in termini d’immagine, è servito dunque a ben poco.
Un altro punto di discordia con i sauditi è stata la gestione della guerra in Yemen. Nel già citato discorso al Dipartimento di Stato, Biden si impegnava a porre fine al sanguinoso conflitto. Ciò indicava un’importante rottura con Trump, il quale aveva usato il veto presidenziale per bloccare le iniziative congressuali che chiedevano la fine del coinvolgimento americano in quella catastrofe umanitaria, ma anche con Barack Obama, il quale aveva deciso di sostenere lo sforzo bellico saudo-emiratino nel tentativo di ammorbidire le critiche degli alleati del Golfo dopo la firma dell’accordo con l’Iran del 2015. Come hanno scritto alcuni commentatori, dopo solo otto mesi dal discorso di Biden già si osservava la mancanza di un reale cambiamento sul terreno. Se invece spostiamo la lancetta ai giorni nostri, il cambiamento non può essere più evidente, ma nella direzione opposta a quella suggerita inizialmente da Biden: oggi, mentre sauditi ed emiratini hanno considerevolmente diminuito (se non azzerato) il loro impegno bellico in Yemen, sono direttamente gli Stati Uniti a bombardare il Paese, cercando (di nuovo: senza riuscirci) di ridurre la capacità dei ribelli Houthi di bloccare il traffico commerciale tra il Mar Rosso e lo stretto di Bab el-Mandeb. Il bombardamento degli Houthi descrive perfettamente le montagne russe a cui è stata sottoposta la politica estera mediorientale di Biden: sul finire della sua presidenza, Trump designò gli Houthi come entità terroristica; nel febbraio 2021, dopo solo un mese dall’insediamento di Biden, il Dipartimento di Stato americano rimosse Ansarallah (il nome con cui sono ufficialmente noti gli Houthi) dalla lista delle organizzazioni terroristiche. La tempistica indicava tra l’altro una certa priorità assegnata al tema. Poi, nel gennaio 2024, ecco il reinserimento degli Houthi nella lista.
Come noto, quest’ultima mossa è una conseguenza del vertiginoso aumento della tensione in Medio Oriente dovuto allo scoppio della guerra tra Israele e i membri dell’Asse della Resistenza. Già gli attori di questa guerra segnalano un altro fallimento statunitense: sin dal 7 ottobre, l’obiettivo prioritario degli Stati Uniti è stato limitare il conflitto ai soli Hamas e Israele (l’opposto di ciò che desiderava Hamas). Al contrario, ci troviamo di fronte a una guerra che vede Israele opporsi ad Hamas a Gaza, a Hezbollah in Libano, agli Houthi in Yemen, alle milizie sciite in Iraq e, in ultima analisi, all’Iran. Se da un lato l’espansione del conflitto è diretta conseguenza delle alleanze tra tutti questi attori e della natura dell’attuale governo israeliano, dall’altro non mancano le responsabilità americane. In buona sostanza le politiche statunitensi hanno incoraggiato Israele a espandere il conflitto: ogni volta che lo Stato ebraico ha alzato di un gradino il livello dello scontro, puntuale è giunta la reprimenda americana a ricordare la necessità contraria di una de-escalation. Ma mentre a parole l’amministrazione Biden insisteva sulla necessità di raggiungere un accordo, nei fatti avveniva il contrario: il costante invio di asset militari americani a difesa di Israele, a cui assistiamo anche in questi giorni, aveva il naturale esito (indesiderato?) di incoraggiare Israele a innalzare il livello dello scontro.
Per quanto riguarda la questione israelo-palestinese, tuttavia, l’errore di Biden è più profondo. Con la costante spinta verso la normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Israele, l’amministrazione democratica americana non ha fatto altro che replicare lo schema impostato da Trump con gli Accordi di Abramo, ovvero raggiungere la normalizzazione tra Paesi arabi e Israele (di per sé un obiettivo di valore) a prescindere dalla risoluzione della questione palestinese, nell’implicita convinzione che essa avesse ormai perso rilevanza e non fosse più la linea di frattura del mondo arabo-islamico. Una scelta miope, perché era inevitabile che l’Iran percepisse la spinta americana alla normalizzazione con Israele come la creazione di un asse arabo-ebraico rivolto proprio contro la Repubblica Islamica, per di più mentre alla guida d’Israele c’era quel Benjamin Netanyahu che da anni insiste sulla necessità di opporsi militarmente all’Iran. Dunque, come potevano coesistere le pressioni per un accordo israelo-saudita e la volontà di riallacciare i rapporti diplomatici con l’Iran nell’ambito dell’accordo sul nucleare?
Un altro capitolo riguarda l’Afghanistan. Il ritiro statunitense a dir poco caotico non ha soltanto proiettato l’immagine di una potenza americana allo sbando, ma ha segnato il definitivo fallimento di 20 anni di operazioni militari e di impegno politico nel Paese. Se è vero che l’accordo per il ritiro era problematico ed era stato firmato da Trump a Doha, la sua attuazione è tutta responsabilità di Biden, il quale non è riuscito a rimediare agli errori del predecessore, per esempio cercando un accordo intra-afghano tra i Talebani e il governo internazionalmente riconosciuto. Al contrario, anche in questo caso Biden ha scelto la linea della continuità con l’amministrazione precedente, come esemplificato dalla scelta di mantenere Zalmay Khalilzad come punto di riferimento dell’amministrazione per l’Afghanistan.
Negli ultimi quattro anni, infine, in Medio Oriente è aumentata la presenza cinese. Nel marzo 2023, per la prima volta, la Cina ha giocato un ruolo politico nella risoluzione della disputa tra i due più importanti Paesi della regione, l’Arabia Saudita e l’Iran. Sebbene, come ha efficacemente spiegato Niloufar Baghernia in un recente articolo, il contributo cinese al ripristino delle relazioni tra Teheran e Riyad sia stato più marginale di quanto è sembrato, tra gli interlocutori arabi la Cina ha guadagnato posizioni a discapito degli Stati Uniti, e non solo da un punto di vista economico-commerciale. Pechino è percepita sempre più come un partner affidabile, mentre gli Stati Uniti, per quanto assicurino il contrario, sono ritenuti una potenza che ha individuato nell’allontanamento dal Medio Oriente una delle chiavi strategiche della sua futura proiezione internazionale. A questo si aggiunge l’imprevedibilità data da fattori di politica interna, con la polarizzazione estrema delle dinamiche politiche interne che investe anche la dimensione estera degli Stati Uniti, e il crescente anti-americanismo dovuto al sostegno incondizionato di Israele.
Sebbene sia ragionevole pensare che la guerra aperta in Medio Oriente a un certo punto si interrompa, oggi è complicato immaginare una risoluzione delle sue cause profonde. Contestualmente la presenza politica cinese crescerà, così come i legami economici e non solo con Paesi storicamente alleati degli Stati Uniti. Il nuovo presidente americano, dunque, erediterà un contesto internazionale, e mediorientale in particolare, caratterizzato da tensioni crescenti: starà a lui (o lei) decidere se alimentarle, perpetuando la logica del gioco a somma zero e rischiando di alienarsi una vasta fetta del mondo, o provare a proporre un’agenda condivisa. Anche se desiderasse intraprendere quest’ultima strada, non è detto che trovi interlocutori disposti ad ascoltarlo.
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