A Doha, una vasta comunità di immigrati professa la propria fede senza mostrare simboli religiosi, ma la questione della libertà di culto è materia controversa

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:06:49

Doha. Se in qualsiasi cartina geografica del Qatar si prova a cercare Mesaymir ci si trova di fronte a un raggruppamento di costruzioni isolate e color sabbia. Il cartello della strada a sei corsie nel deserto dice "compound religioso", perché qui, a circa 40 chilometri da Doha, sono raggruppate le otto minoranze cristiane riconosciute nel Paese. Mesaymir è un insieme di edifici anonimi dalle facciate caramello, circondati da un grande parcheggio cui si può accedere soltanto dopo un accurato controllo di sicurezza da parte della polizia. Alla parrocchia cattolica di Nostra Signora del Rosario, nella giornata del sabato si celebrano 33 messe. A officiare quella in italiano è padre Charbal Mhanna, sacerdote libanese con un fisico imponente e una parlata italiana affinata da un lungo periodo di studi in Italia. Da due anni, padre Mhanna è in missione in questa piccola ma ricca penisola che a causa di una massiccia immigrazione di lavoratori stranieri conta oggi circa 300mila cristiani, un sesto della popolazione totale. Le restrizioni per chi non professa la religione musulmana, però, sono tante a partire dal divieto di fare proselitismo, un reato per la legge del Qatar, punibile con la pena massima di un anno di carcere. “Mi occupo in particolare delle comunità degli espatriati europei e degli arabi. In Qatar non facciamo opera di evangelizzazione ma seguiamo cristiani che vogliono professare la loro fede all’interno del Paese”, dice padre Mhanna. La legislazione qatarina, fondata sulla sharia, la legge islamica, riconosce soltanto le tre religioni abramitiche - Ebraismo, Cristianesimo e Islam –, e la conversione dalla religione islamica e a un’altra fede è giuridicamente equiparata all’apostasia, anche se nessuna condanna capitale è mai stata inflitta nella storia della nazione. Il governo di Doha proibisce inoltre la diffusione di materiale religioso diverso dall'Islam e impedisce l'esposizione di qualsiasi simbolo nei luoghi di culto non musulmani. “Non ci sono né croci né campanili qui a Mesaymir, sono proibiti e anche i cartelli stradali che prima indicavano la chiesa avevano suscitato diverse critiche. Ora sono stati sostituiti e usano un’espressione più generica: complesso religioso - racconta padre Charbel - Lo Stato del Qatar ci ha concesso questo fazzoletto di terra nel deserto per costruire le nostre chiese e qui abbiamo massima libertà, per il resto noi rispettiamo le regole”. La chiesa di Nostra Signora del Rosario è un punto di riferimento soprattutto per la vasta comunità di migranti del Continente asiatico che costituiscono una delle fasce più povere del Paese. La questione della libertà di culto in Qatar è dunque materia difficile. Il governo dell’emiro Tamim bin Hamad al-Thani ha creato il Doha International Centre for Interfaith Dialogue (DICID), un’istituzione che punta a favorire il dialogo tra le altre religioni.  “Noi qatarini siamo in maggioranza musulmani sunniti, soltanto il 10 per cento è sciita - spiega Ibrahim Saleh al-Naimi, direttore del DICID - La sharia è la base della nostra legge ma, vista la massiccia immigrazione che pesa per quasi il 90 per cento sulla nostra popolazione, il nostro centro organizza una tavola rotonda in grado di mettere a confronto tutte le rappresentanze delle religioni riconosciute nel Paese”. Come sottolinea l’International Religious Freedom Report del Dipartimento di Stato americano, i gruppi religiosi non hanno una procedura legale per registrarsi nel Paese o per stabilire un luogo di culto. Così, nonostante la creazione del centro da parte del governo di Doha, le cerimonie religiose sono garantite dalla legge qatarina soltanto se in maniera conforme al “mantenimento dell’ordine pubblico e della moralità”. Il che significa nessun segnale visibile della presenza delle chiese cristiane, così come di quelle di altre confessioni non musulmane, nessuna attività di proselitismo, sostanzialmente nessuna visibilità pubblica al di fuori della cerchia di fedeli già esistente. Su di loro vigilano i dieci parroci della Nostra Signora del Rosario: tutti disponibili e indaffarati come padre Charbel, che non esita a percorrere l’affollato mercato di Suq Waqif esibendo il suo collarino sacerdotale: “Sino a quando ci sarà bisogno di me, resterò qui - ci dice congedandoci con un sorriso - Anche se la mia speranza è, un giorno, quella di poter esporre la croce fuori dalla chiesa di  Mesaymir”. *Laura Cappon è giornalista e dal 2011 al 2015 ha lavorato al Cairo. Ora fa parte della redazione di Islam-Italia, Rai 3. L'intervista integrale a padre Charbel Mhanna è andata in onda nella prima puntata del programma.