Il primo mandato del tycoon è stato caratterizzato da una postura particolarmente dura nei confronti di Teheran. All’inizio della sua seconda avventura alla Casa Bianca diverse strade restano percorribili, inclusa quella del negoziato
Ultimo aggiornamento: 20/01/2025 17:31:50
Donald Trump ha sempre esibito con orgoglio le sue credenziali di falco anti-iraniano e nel primo mandato alla Casa Bianca ha preso decisioni chiare in questo senso. Ha stracciato l’accordo nucleare negoziato da Barack Obama (JCPOA), ha inaugurato la campagna di “massima pressione” che ha reintrodotto le sanzioni che erano state tolte e ha ordinato nel 2020 l’uccisione del leggendario generale Qassem Soleimani, faccenda che ha convinto i pasdaran a tentare per anni di assassinare il presidente, come hanno documentato in un’inchiesta i procuratori di Manhattan (il presidente Masoud Pezeshkian ha negato in un’intervista alla NBC).
Il secondo Trump si presenta come più risoluto e aggressivo del primo su Teheran, almeno sulla carta. I funzionari dell’amministrazione che si sta per insediare hanno promesso di rinnovare e intensificare la campagna di “massima pressione”, minacciano nuove sanzioni e stanno già valutando possibili strike mirati per fermare lo sviluppo del programma nucleare. L’amministrazione Biden aveva evitato accuratamente di mettersi su quella strada e prima dell’attacco israeliano all’Iran dell’ottobre scorso la Casa Bianca aveva chiesto a Benyamin Netanyahu di evitare di colpire siti nucleari e infrastrutture energetiche, nel timore che le azioni potessero far aumentare il prezzo del petrolio e aprire una nuova fase di escalation. «Se sarà un falco con un avversario in particolare, questo è l’Iran», ha detto dopo le elezioni americane Mick Mulroy, un alto funzionario del Pentagono nella prima amministrazione Trump, parlando con il Wall Street Journal, uno dei giornali che ha dato più voce alla postura antagonista del presidente verso gli ayatollah.
Nel dibattito sui media la questione sembra già arrivata alla fase operativa, e gli analisti si domandano se la massima pressione ora si esprimerà con l’aumento dei soldati americani stanziati in Medio Oriente o con una martellante campagna di sanzioni e isolamento per costringere l’avversario indebolito a negoziare accordi vantaggiosi per l’America. Finora la massima pressione trumpiana ha dato colpi significativi all’economia iraniana, ma non ha portato il governo al tavolo delle trattative.
Al di là della retorica sempre sopra le righe e della continua contraddizione come collaudato metodo di governo, Trump ha anche mostrato un lato meno aggressivo verso l’avversario. Ha ripetuto spesso che l’obiettivo non è il regime change, ha detto che vuole migliorare le relazioni, ha tentato (invano) quando era alla Casa Bianca di incontrare l’allora presidente iraniano Hassan Rouhani e il ministro degli Esteri, Javad Zarif, spiegando che il problema, in fondo, sono soltanto le armi nucleari. Lo scorso agosto ha detto: «Non sarò cattivo con l’Iran. Saremo amichevoli, ma non possono avere armi nucleari».
È possibile immaginare una svolta nelle relazioni da parte del leader che finora ha predicato solo “massima pressione” e assassinii mirati? Personnel is policy, dice un vecchio adagio politico, cioè le scelte delle persone determinano la linea politica, e nelle nomine si può intravedere un’ipotesi di cambiamento. Nel primo mandato le due figure che hanno avuto più potere nel determinare la linea dell’amministrazione sono state John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale, e Mike Pompeo, che è stato prima direttore della Cia e poi segretario di Stato. Sono fra i falchi più rapaci in circolazione a Washington e in diverse forme hanno suggerito una soluzione militare. Negli anni alla Casa Bianca hanno fatto di tutto per impedire che il governo deviasse da una linea di totale intransigenza sulla questione. Quando nel 2019 Trump ha informalmente dato mandato al senatore Rand Paul di invitare Zarif per un incontro nello Studio Ovale, Bolton ha scritto la sua lettera di dimissioni. Zarif in un libro di memorie ha scritto che Pompeo ha bloccato nel 2020 un'iniziativa diplomatica di Mosca, che avrebbe voluto dialogare con gli Stati Uniti per risolvere le divergenze sull’Iran. Trump si è appoggiato a vari intermediari per tentare un approccio trasversale con Teheran – ad esempio nel 2019 all’allora primo ministro giapponese, Shinzo Abe – ma i consiglieri oltranzisti di cui si era circondato hanno lavorato per spegnere ogni tentativo di dialogo. Quando l’Iran ha abbattuto un drone americano, tutti i consiglieri di guerra riuniti nella situation room hanno suggerito al presidente di rispondere con un attacco militare, cosa che non è avvenuta perché Trump all’ultimo istante ha cambiato idea.
Lo scorso anno Bolton ha anche scritto un durissimo editoriale contro la «propensione a trattare le questioni di sicurezza nazionale come opportunità per fare affari», cosa che avrebbe portato Trump ad abbracciare il nemico iraniano se si fosse presentata l’occasione.
Oggi Bolton e Pompeo sono nell’inferno degli innominabili per Trump, e tutti i candidati legati a loro per le posizioni nell’ambito della sicurezza nazionale sono stati programmaticamente ignorati. La squadra di governo che Trump sta creando per il secondo mandato ha maturato – per convinzione o convenienza – una posizione più realista sull’Iran. I protagonisti della scena saranno Marco Rubio, segretario di Stato, e Mike Waltz, consigliere per la sicurezza nazionale. Il primo è un ex falco internazionalista fulminato sulla via del nazionalismo trumpiano, che è anche l’unica strada che gli potesse garantire un ruolo di rilievo. La sua totale fedeltà al verbo di Trump è la promessa grazie alla quale arriva a Foggy Bottom. La devozione al capo viene prima di ogni considerazione anche per Waltz, che ha già mostrato le sue credenziali di convertito, e comunque è più concentrato sulla partita con la Cina che su quella iraniana. C’è da considerare poi il fatto che l’Iran oggi è molto più debole di quanto non fosse durante il primo mandato, cosa che nei ragionamenti della Casa Bianca rende più realistico immaginare un negoziato in cui Teheran è costretto ad accettare le condizioni imposte.
Infine, c’è Elon Musk. L’incontro segreto di cui ha dato conto il New York Times lo scorso novembre fra Musk e l’ambasciatore iraniano presso l’Onu è un segnale importante sul nuovo orientamento trumpiano. Fonti iraniane hanno detto che i due hanno parlato di possibili strategie per abbassare la tensione fra i due Paesi e ricostruire le relazioni, e si vedrà se questo accenno di diplomazia trasversale avrà un seguito. Ma intanto la liberazione della giornalista Cecilia Sala va letta in questo contesto. Nella ricostruzione che il New York Times ha fatto della vicenda, Musk è stato coinvolto nella trattativa per la liberazione su input di Daniele Raineri, giornalista del Post e compagno di Sala, che proprio in nome di quell’incontro ha chiesto all’intermediario italiano del magnate di segnalargli la situazione e chiedere un suo intervento. L’Iran nega che Musk abbia avuto un ruolo, e non potrebbe essere altrimenti. Che sia stata la diplomazia parallela di Musk, la capacità politica di Giorgia Meloni, la promessa di fornire informazioni utili alla Casa Bianca, la debolezza del regime o una combinazione di tutti questi fattori, rimane il dato politico: l’amministrazione Trump ha accettato di liberare un iraniano accusato di aver trafficato la tecnologia bellica che ha ucciso tre soldati americani, per liberare una giornalista del Paese alleato al quale aveva chiesto di arrestare l’uomo. Poi naturalmente l’amministrazione ha dichiarato di essere “delusa” dalla decisione italiana, mettendo un paravento di formalità davanti a quello che ovviamente era un accordo politico. A conti fatti, è stata una concessione non irrilevante per un presidente che a parole ha promesso “massima pressione” sull’Iran.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Abbiamo bisogno di te
Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.
Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.
Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!