Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 15/11/2024 16:05:57

La stampa araba continua ad analizzare il significato della vittoria di Trump per il Medio Oriente, dividendosi tra una fazione che lo bolla come un irresponsabile e un’altra che, pur con sfumature diverse, lo apprezza dandogli un caloroso benvenuto. Come prevedibile, i giornali di area filo-qatariota guardano con molta preoccupazione al futuro presidente degli Stati Uniti, memori della politica mediorientale del tycoon durante il suo primo mandato, culminata con i famosi – o famigerati, a seconda dei punti di vista – “Accordi di Abramo”. Su al-‘Arabi al-Jadid, il giornalista palestinese Daoud Kuttab mette in guardia dal credere alle promesse di Trump sullo “stop alle guerre”: «Trump potrebbe provare a fermare qualsiasi scontro regionale in Medio Oriente, sia in Libano che a Gaza, ma il prezzo da pagare sarà l’imposizione dell’ “Accordo del Secolo” e la normalizzazione [con Israele] senza raggiungere un obiettivo minimo per la compagine palestinese?» In tutta questa incertezza, quel che si sa è che Trump, durante il suo primo mandato, ha manifestato di tanto in tanto la sua irritazione nei confronti di Netanyahu, nonostante il suo sostegno incondizionato alla destra israeliana». Senza contare che i buoni rapporti con il presidente russo Putin potrebbero favorire una de-escalation tra lo Stato ebraico e la Repubblica Islamica iraniana. «In ogni caso – conclude Kuttab – rimane la domanda che ci si pone da decenni: quando smetteremo, noi arabi, di concordare con i decisori politici di Washington, Londra, Parigi e Berlino e inizieremo a interessarci di noi stessi e a costruire solide fondamenta locali, regionali e internazionali?». Come sempre su al-‘Arabi, non mancano le vignette a effetto: Trump e Netanyahu vengono raffigurati nei panni di due banditi che trascinano come macabro trofeo una colomba della pace morta. Nell’articolo che segue, però, si fa una significativa precisazione: a scandalizzare non è tanto Trump che, in totale dispregio della questione palestinese, ha siglato gli Accordi Abramo, smaccatamente a favore degli israeliani, quanto il fatto che Joe Biden e il Partito Democratico «hanno seguito la linea» del suo predecessore con l’obiettivo di normalizzare i rapporti tra Tel Aviv e Riyad, prima che il “Diluvio di al-Aqsa” bloccasse il processo. Su al-Quds al-‘Arabi, il giornalista palestinese ‘Abd al-Hamid Siam prova a fare delle previsioni sulla politica estera del tycoon. Compito tutt’altro che facile, secondo l’autore dell’articolo: «partiamo […] da due presupposti: il primo è che Trump è un buffone dall’animo volubile che spesso prende decisioni in maniera sconsiderata, senza tenere conto dei problemi. Per definirlo con una parola sola, Trump è un unpredictable […]. La seconda è che lui proverà a costruirsi una nuova immagine che differisca leggermente da quella del primo mandato».  

 

Le valutazioni migliorano sensibilmente nei quotidiani di area filo-emiratina e filo-saudita. Tra i più entusiasti vi è l’emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya, che è assolutamente certo che Trump rappresenti la scelta migliore per il futuro del Medio Oriente: «non c’è dubbio che il neoeletto presidente americano conosca il Medio Oriente meglio di quello uscente o della candidata sconfitta. Ma non perché Trump sia stato già presidente, ma perché è un uomo di affari che prima del mandato ha fondato numerosi partenariati, spesso visitando e risiedendo in alcuni Paesi del Golfo arabo e in Turchia». A fare la differenza sono i contatti di lavoro, ma anche quelli personali – come avevamo già riportato la settimana scorsa, una figlia di Trump ha sposato il libanese Michael Boutros, che ha giocato un ruolo importante durante la campagna elettorale – e naturalmente quelli politici: «nei Paesi del Golfo, le telefonate dirette tra i leader arabi e Trump sono una prova evidente delle profonde relazioni personali che verranno utilizzate a vantaggio della cooperazione congiunta. Trump, infatti, apprezza la posizione dell’Arabia Saudita e sa quanto siano importanti gli Emirati nel mantenimento della stabilità regionale e internazionale». The Donald viene in buona sostanza raffigurato come un uomo di poca teoria e di molta «action» nonché dotato di spregiudicato pragmatismo. Tuttavia, è capace di dialogare e di raggiungere un compromesso con i vari attori, dal Golfo al Cremlino. Le incertezze e perplessità che aleggiano sul suo conto vengono spiegate con il fatto che Trump non proviene dagli apparati di potere; il suo modus operandi non può essere letto attraverso le lenti della tradizionale politica americana. Su questo punto al-‘Ayn smorza leggermente l’entusiasmo: non è detto che con lui la situazione nella regione mediorientale verrà immediatamente risolta: «l’America non è una associazione benefica e lui non è Babbo Natale». L’ex direttore di al-Sharq al-Awsat ‘Abd al-Rahman al-Rashid traccia un profilo del futuro presidente molto positivo: «uno dei più grandi errori che si possano commettere quando si ha a che fare con Trump è sottovalutare le sue capacità, per il fatto che non parla la lingua degli accademici, non utilizza le espressioni degli analisti e non è avvezzo alla cricca dei politici e alle loro affettazioni. Ciò non lo rende meno informato e al corrente delle questioni» politiche del momento. Il giornalista ricorda come Trump, nonostante fosse stato ferocemente criticato per le sue posizioni razziste e antiarabe, abbia sorpreso tutti compiendo la sua prima visita ufficiale da presidente a Riyad, e non a Londra come previsto dal protocollo. Più composto il parere dell’accademico libico Jibriel el-Oubaydi, che sullo stesso quotidiano scrive: «il ritorno di Trump potrebbe non riparare le distruzioni che le Primavere Arabe hanno arrecato al Medio Oriente durante il mandato dei democratici, in particolar modo Obama e Hilary Clinton. Tuttavia, il suo ritorno potrebbe almeno rimettere a posto quello che i democratici hanno distrutto. Non voglio tessere le lodi di Trump, ma è ingiustificato allarmarsi, preoccuparsi e spaventarsi per il suo ritorno», perché durante il suo primo mandato «non ha intrapreso nessuna guerra in Medio Oriente, anzi ha rafforzato la partnership con i Paesi della regione e, al contrario dei democratici, ha preservato l’equilibrio con la Russia». Disilluso, quasi al pari dei giornali filo-qatarioti, l’articolo del filo-emiratino al-‘Arab a firma del palestinese Fathi Ahmed: «la cosa più preoccupante del prossimo mandato di Trump e che spaventa tutti è la sua decisione di annettere la Cisgiordania [a Israele]. Qui c’è un’intesa tra lui e Netanyahu […]. Se ciò dovesse verificarsi, allora i termini dell’Accordo del Secolo muteranno radicalmente».

 

Il conflitto israelo-palestinese si estende ad Amsterdam [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Gli scontri avvenuti ad Amsterdam al termine della partita di Europa League Ajax-Maccabi Tel Aviv ai danni dei tifosi israeliani hanno suscitato numerose riflessioni anche sui giornali arabi. “La violenza ad Amsterdam assume una dimensione internazionale”, ha titolato al-Hurra, quotidiano panarabo con sede negli Stati Uniti, mettendo l’accento sull’estensione del dibattito, che ha superato i confini europei.

 

In generale, i quotidiani afferenti alla galassia saudito-emiratina sono stati moderati con i giudizi e in alcuni casi si sono limitati a riportare la cronaca (al-Ayn al-Ikhbariyya, per esempio). Decisamente più militanti invece i commenti della stampa sostenitrice della causa palestinese. Al di là dei loro orientamenti, tutti hanno criticato la lettura parziale dei fatti circolata inizialmente in Occidente, e evidenziato che gli attacchi di cui sono stati vittime i tifosi israeliani sono stati una risposta alle loro stesse provocazioni.

 

Al-Sharq al-Awsat, quotidiano panarabo di proprietà saudita, titola “Lo sciocco di Amsterdam” in riferimento al tifoso israeliano che alla fine della partita «si è arrampicato sulla facciata di un edificio e ha strappato la bandiera palestinese», attirandosi l’ira di centinaia di persone che, dopo aver visto il suo gesto in un video diventato virale in pochi minuti, si sono riversate nella zona dello stadio. Lui e i suoi compagni, commenta il giornalista, «devono aver avuto l’illusione di essere onnipotenti in qualsiasi luogo della terra e sotto qualsiasi cielo, dimenticando che la reazione dell’altra parte è imprevedibile, anche se la polizia olandese è presente in tutte le strade di Amsterdam». L’autore dell’editoriale, il saudita Talal Homoud, commenta i fatti occorsi «nell’indimenticabile notte di Amsterdam» senza sollevare particolari polemiche e senza schierarsi apertamente a favore di una delle due parti; mette in guardia dal rischio che gli eventi sportivi possano «essere sfruttati per promuove l’odio e gli slogan razzisti, un fenomeno che potrebbe trasformare gli stadi di calcio in luoghi di scontri e regolamenti di conti su base etnica, religiosa o politica». Questo, conclude l’editoriale, richiede un intervento da parte delle federazioni nazionali e internazionali, che devono adottare delle misure per impedire agli «agitatori» di entrare negli stadi.

 

Più schierato al-‘Arab, che titola “Gli attacchi agli israeliani accendono il fuoco dell’antisemitismo in Europa”. Secondo il quotidiano filo-emiratino, il riaccendersi dell’antisemitismo potrebbe essere la conseguenza e non la causa delle violenze. «Israele non vuole che gli attacchi siano collegati esclusivamente alla guerra a Gaza e in Libano, ma li paragona ai massacri commessi contro gli ebrei nel secolo scorso», ciò che rischia di alimentare il sentimento antisemita.

 

Ad Amsterdam gli scontri hanno assunto una dimensione politica, scrive il professore libanese di Geopolitica Fadi Ahmar su Asasmedia, sito d’informazione libanese filo-saudita. Le dichiarazioni dei leader europei all’indomani degli scontri sono il segnale che l’Europa sta ancora facendo i conti con il suo passato: «L’Europa sta ancora espiando i massacri commessi dal regime nazista contro gli ebrei a distanza di 80 anni. I massacri commessi dal regime israeliano ai danni del popolo palestinese, dalla “prima Nakba” alla “seconda Nakba” non hanno cancellato» il senso di colpa dell’Occidente. Quanto accaduto, conclude l’editoriale, «è un campanello d’allarme», un segnale del fatto che «l’odio verso Israele e gli ebrei è aumentato dopo la guerra genocida a Gaza. E non è limitato agli arabi e ai musulmani, ma coinvolge anche segmenti della popolazione europea».

 

I toni cambiano radicalmente sui quotidiani tradizionalmente vicini alla causa palestinese, che non hanno risparmiato le critiche all’Europa e a Israele. Al-Quds al-‘Arabi, “La Gerusalemme araba”, accusa i leader europei di aver preso le difese dei tifosi israeliani, definendoli «vittime dell’anti-semitismo» a prescindere da come si sono svolti gli eventi, e critica il presidente israeliano Isaac Herzog per aver «paragonato i fatti di Amsterdam agli attacchi del 7 ottobre e averli definiti “un pogrom anti-semita”». Le dichiarazioni europee e israeliane, prosegue l’editoriale, «fanno riferimento alla storia europea in maniera selettiva e ridicola; si concentrano sul capitolo fascista e nazista del secolo scorso, separandolo dalle forme di fascismo e nazismo che sono attualmente in crescita», e questo trova poi espressione «nei crimini di guerra e nel genocidio commessi da Israele, nella natura del suo governo e delle persone, che non nascondono i loro obiettivi genocidi nei confronti dei palestinesi», o nelle dichiarazioni del premier olandese.  

 

La vicenda di Amsterdam ha messo in luce «l’ipocrisia dell’Occidente, i suoi doppi standard, la falsità del suo discorso e dei suoi slogan, e la misura in cui i suoi leader, i suoi politici, i suoi governi, i suoi media e i suoi intellettuali dipendono dalla lobby sionista globale», scrive il politologo marocchino Ali Anouzla su al-‘Arabi al-Jadid. «Se la narrazione sionista non avesse invertito l’ordine degli eventi e messo gli israeliani nella posizione della vittima», gli eventi di Amsterdam sarebbero diventati un caso globale? L’incidente avrebbe assunto questa dimensione, «se non fosse stato per il contesto in cui si è verificato, con la guerra genocida a Gaza che va avanti da più di 400 giorni?». «La macchina politica e mediatica sionista», scrive Anouzla, ha prodotto «una sinfonia di menzogne».

 

Lo scrittore palestinese Munir Shafiq sul quotidiano filo-islamista ‘Arabi21 ritiene che questi attacchi siano «una naturale conseguenza del genocidio di cui sono vittime i civili di Gaza» e del «silenzio dell’Occidente», che negli ultimi tredici mesi non ha speso alcuna parola di condanna per le brutalità commesse da Israele nella Striscia. Ma l’Occidente, «preferisce parlare di anti-semitismo», conclude Shafiq.

 

Sullo stesso quotidiano il politologo tunisino Salaheddine Jourchi scrive che «la violenza negli stadi è un fenomeno globale […], ma se la questione riguarda Israele si trasforma rapidamente in una minaccia per tutti gli ebrei e viene classificata come antisemitismo, una carta che il movimento sionista si gioca contro chiunque osi opporre resistenza all’arroganza di un cittadino israeliano o di un ebreo che ha commesso un crimine contro una persona di un’altra religione, soprattutto se questa è araba». Jourchi sostiene inoltre che i fatti di Amsterdam abbiano contribuito a smascherare la narrazione israeliana mettendo in luce «l’isolamento internazionale senza precedenti» di Israele.