Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 11/10/2024 17:23:35

A un anno dall’avvio dell’operazione di Hamas “Diluvio di al-Aqsa, la stampa araba ha fatto il punto della situazione.

 

I quotidiani di orientamento filo-emiratino e filo-saudita hanno ribadito la loro condanna del gruppo islamista palestinese, evidenziando il grande momento di difficoltà che sta attraversando l’Asse della Resistenza, ma segnalando anche la preoccupazione crescente per l’allargamento del conflitto. La prima pagina del quotidiano al-‘Arab del 7 ottobre apre con un titolo inequivocabile: «gli Stati del Golfo vogliono tenersi alla larga dallo scontro tra l’Iran e Israele». «A un anno dall’attacco del 7 ottobre – si legge a pagina sei – la Repubblica Islamica, principale membro dell’Asse, si trova di fronte a uno scenario regionale pieno di sfide. In passato, l’essenza della politica estera iraniana, definita “perno della Resistenza”, si basava su milizie e terroristi che dalle loro basi in Iraq, Libano, Siria e Yemen agivano per conto dell’Iran in Medio Oriente. Questi proxy permettono all’Iran di esporsi senza subire conseguenze: dal momento che non è coinvolto direttamente nelle violenze commesse dai proxy, scappa dalle sue responsabilità. Di conseguenza, l’Iran raccoglie i frutti, ma raramente ne paga il prezzo». Molto significativa la vignetta del quotidiano che raffigura l’ayatollah Khamenei che da un angusto nascondiglio sotterraneo incoraggia Hezbollah e il resto dell’Asse a «tener duro e resistere».

 

Molto severo anche il giudizio del giornalista saudita ‘Abd al-Rahman al-Rashid, che in un articolo su  al-Sharq al-Awsat dal titolo “Ottobre tra stupidità e disonestà” scrive: «in pratica Sinwar ha realizzato quello che non erano riusciti a fare neppure gli estremisti israeliani dei governi di Begin e Shamir, e nemmeno quello di Sharon, che nel 2005 uscì dalla Striscia di Gaza, consegnandola all’Autorità Palestinese, e smantellò gli insediamenti. Perché Sinwar l’ha fatto? Non posso dire con certezza perché abbia compiuto gli attacchi del 7 Ottobre e chi ci fosse dietro di lui, se l’abbia fatto per ignoranza o se si sia trattato di un progetto iraniano, come immagino io, anche se non ci sono le prove». Quel che è certo, prosegue nel suo ragionamento al-Rashid, è che in un anno sono morte più di quarantamila persone; nel frattempo, moltissimi civili sono ancora sfollati, e Gaza è un cumulo di macerie: «l’attacco di Sinwar non è riuscito a liberare nemmeno un palmo delle terre che a suo dire erano l’obiettivo dell’operazione. Israele è diventato più influente e crudele, sia all’interno della Palestina che nella regione. Sinwar ha già distrutto la questione palestinese a livello internazionale, facendo ciò che nessuno prima di lui aveva fatto, compreso Abu Nidal, noto per la sua pericolosità […]. Ha seppellito Hamas, ha distrutto Hezbollah e ha posto fine al Movimento del Jihad Islamico a Gaza e in Cisgiordania. Questi sono i risultati della battaglia del 7 ottobre».

 

Per contro, la stampa di proprietà qatariota giustifica l’operazione e attacca con veemenza l’atteggiamento dello Stato ebraico. ‘Arabi 21, di orientamento islamista, respinge le critiche rivolte ad Hamas dalla stampa filo-emiratina e saudita rispondendo in maniera provocatoria: «Qualcuno è rimasto sorpreso dalle reazioni di disappunto della gente sulla guerra? Alcuni intellettuali hanno sfruttato l’insoddisfazione della gente per condannare le operazioni del 7 Ottobre, non per fare una semplice critica», ma per perseguire chiare finalità politiche. Sarebbe opportuno, suggerisce la testata, lasciare da parte le emozioni negative della gente, perché esse non possono spiegare le ragioni e la logica della guerra. Anche perché andrebbe fatta una distinzione tra chi è sinceramente afflitto dall’alto costo di vite umane e chi, invece, ne approfitta per «sistemare i conti con un certo attore (Hamas, in questo caso) utilizzando il profondo dolore delle persone». Su al-‘Arabi al-Jadid, l’accademico palestinese Sari Hanafi illustra l’impasse che si è venuta a creare a un anno dall’inizio delle ostilità: «lo Stato canaglia, Israele, vuole portare il Libano e l’Iran in guerra e macchiarsi di genocidi su larga scala. Allo stesso tempo, sembra che l’Iran abbia costruito per sé e per i suoi alleati un vicolo cieco: se decidesse di rispondere agli attacchi e alle provocazioni di Israele, allora verrà trascinato in una guerra diretta con Israele e gli Stati Uniti. Se non lo farà, Israele continuerà a bombardare tutte le parti a lui ostili fino a indebolirle, intensificando impunemente la crisi. Questo significa che l’Iran perderà in ogni caso: successivamente, sarà il Libano a perdere in ogni caso». Malgrado lo scenario fosco, l’autore sostiene che l’unico possibile vincitore della crisi è la stessa Palestina: «prima del 7 Ottobre i palestinesi erano i perdenti senza altra prospettiva che quella di piegarsi alle pratiche coloniali israeliane. Adesso c’è la speranza che la questione venga portata sui tavoli internazionali». Al-Quds al-‘Arabi mette in evidenza il grande paradosso di questa guerra, ossia che «l’esercito israeliano, massicciamente equipaggiato, allenato, finanziato, organizzato e protetto dagli Stati Uniti, dai suoi alleati europei e dalla NATO, è andato incontro a un repentino fallimento nel realizzare gli obiettivi militari e politici annunciati sin dal mattino del 7 Ottobre […]. I giorni, le settimane e i mesi del genocidio hanno portato a svelare le menzogne dello Stato dell’occupazione descritto come “l’unica oasi di democrazia” in Medio Oriente».    

 

Il «diluvio dei sermoni» [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Negli ultimi giorni, tre leader dell’Asse della resistenza – l’Ayatollah Khamenei, Khaled Meshal (capo di Hamas all’estero) e Naim Qasim (Hezbollah) – si sono rivolti ai loro sostenitori e più in generale a tutti i musulmani nel tentativo di motivarli, dissimulando le difficoltà delle ultime settimane.

 

Venerdì scorso Khamenei ha pronunciato i due sermoni previsti durante la preghiera del venerdì, un evento che si verifica solo in casi eccezionali. L’ultima volta era accaduto nel 2020, in seguito all’uccisione del generale Qassem Soleimani, il leggendario comandante delle brigate al Qods del Corpo delle Guardie della Rivoluzione.

 

Nel primo sermone (qui il video integrale) Khamenei ha invitato i musulmani ad attuare la «politica coranica del sostegno reciproco», richiesta dal Corano nella sura della Conversione (9,71). Questo sostegno reciproco è necessario per ottenere la misericordia divina, ha spiegato l’Ayatollah. Alla «politica coranica», che mira a creare un’unità tra i musulmani, Khamenei ha contrapposto la politica del «divide et impera», adottata «dagli arroganti e dai tiranni del mondo», ovvero l’Occidente «il cui lavoro si fonda sul seminare la divisione attraverso metodi diversi di inganno e astuzia, favorendo la diffusione dell’odio tra i musulmani». Oggi però – ha aggiunto la Guida suprema dell’Iran – «i popoli si sono svegliati. Oggi è il giorno in cui la nazione islamica può sconfiggere l’astuzia e l’inganno dei nemici dell’islam e dei musulmani». Khamenei ha chiesto inoltre ai musulmani di tutto il mondo di coalizzarsi contro il nemico comune, Israele, Paese che però non viene mai menzionato esplicitamente. «Il nemico», prosegue il discorso, colpisce con armi sempre diverse: «Usa la guerra psicologica in un luogo, la pressione economica in un altro, le bombe da due tonnellate piuttosto che le armi o i sorrisi. I nostri nemici seguono questa politica, ma la sala di comando è una e gli ordini vengono impartiti dallo stesso posto». Nel secondo sermone, la Guida suprema si è rivolto specificamente ai palestinesi e ai libanesi, riconoscendo loro il diritto alla difesa «dall’entità occupante», «sancito dalle disposizioni dell’islam, dalla nostra Costituzione e della leggi internazionali». Khamenei ha anche rivendicato la necessità del “Diluvio di al-Aqsa” e di tutti gli attacchi che sono seguiti, definiti «giusti, logici e leciti, proprio come la difesa eroica del popolo palestinese da parte dei libanesi». Ha poi tessuto le lodi del leader di Hezbollah ucciso degli israeliani, che l’Ayatollah ha definito «figura amata nel mondo islamico, lingua eloquente dei popoli della regione, gemma splendente del Libano». Infine, il lutto del mondo islamico per Nasrallah viene paragonato al lutto per la morte di Hussein, il martire per eccellenza della tradizione sciita, ucciso brutalmente nel 680 e ricordato ogni anno dai musulmani sciiti durante la celebrazione dell’Ashura.

 

Ai sermoni di Khamenei sono seguiti, pochi giorni dopo, i discorsi dei leader di Hamas e di Hezbollah. Khaled Meshal è intervenuto con un discorso televisivo il 7 ottobre, data del primo anniversario del “Diluvio di al-Aqsa”. Meshal ha elogiato l’operazione, che «ha riportato in primo piano la questione palestinese nonostante gli enormi sacrifici, e ha rivivificato Gaza e la causa», e definito il 7 ottobre «una risposta naturale all’occupazione, all’accelerazione dei piani di insediamento, all’assedio e all’aggressione a Gerusalemme, alla liquidazione della causa [palestinese] e all’escalation dei crimini commessi contro i prigionieri». Il Diluvio di al-Aqsa, ha proseguito Meshal, ha «riportato Israele al punto zero, gettando quest’ultimo in una crisi esistenziale e scuotendo la fiducia degli israeliani in sé stessi». Ha poi sottolineato che «le perdite dell’Asse della resistenza sono tattiche, mentre quelle di Israele sono strategiche», e invitato a mettere in atto una «strategia seria», il cui «slogan è “dobbiamo vincere questa battaglia”». Ha poi invitato ad «aprire nuovi fronti» e invocato una mobilitazione generale della umma, specificando che il «jihad con il denaro è grande ma non basta, serve il jihad personale e con le armi».  La sua conclusione è che «la vittoria è una promessa di Dio, può tardare, ma arriverà»

 

Il giorno successivo, martedì 9 ottobre, al-Jazeera ha mandato in onda la registrazione del discorso pronunciato dal segretario generale in pectore di Hezbollah Naim Qasim, il quale ha rassicurato i militanti del movimento confermando lo stato di buona salute del Partito di Dio: la guerra israeliana «non ha intaccato la volontà di Hezbollah e la sua determinazione a resistere»; tutti i leader uccisi sono già stati sostituiti attingendo dalle fila dei militanti della prima ora – «alcuni dei sostituti e dei vice dei leader martiri provengono dal gruppo che nel 1982 ha fondato Hezbollah». Qasim ha minimizzato i danni inflitti dagli attacchi israeliani e sottolineato la volontà del Partito di Dio di perseguire il suo obbiettivo finale: Hezbollah «infliggerà al nemico israeliano grandi perdite, che potrebbero essere il preludio della fine della guerra». Al di là della retorica, «volta a risollevare il morale dei suoi», come ha commentato al-Sharq al-Awsat, l’aspetto più rilevante del discorso in questione è il fatto che Qasim non abbia subordinato il cessate il fuoco con Israele al raggiungimento di una tregua a Gaza, ma si sia limitato a dire che «Hezbollah sostiene gli sforzi del presidente del parlamento libanese Nabih Berri per raggiungere un cessate il fuoco».

 

Quest’ultima dichiarazione segna un’evoluzione della posizione di Hezbollah. Già domenica scorsa uno dei leader del movimento, Mahmud Qumati, aveva infatti dichiarato alla televisione di Stato irachena che «il gruppo è pronto a esplorare soluzioni politiche, a condizione che cessi l’aggressione sionista al Libano», senza però menzionare la tregua a Gaza.   

 

In generale, i discorsi dei tre leader sono stati apprezzati dai quotidiani e dai giornalisti più militanti, come dimostrano alcuni commenti favorevoli comparsi su al-Jazeera, mentre hanno suscitato lo scherno della stampa araba filo-saudita, che li ha definiti surreali. Nell’editoriale dal titolo “Il Diluvio di al-Aqsa e il Diluvio dei sermoni”, comparso sul quotidiano panarabo al-Sharq al-Awsat, il giornalista saudita Mishary Althayti ha scritto che i discorsi riflettono il totale «distacco dalla realtà» di chi li ha pronunciati. Questi ultimi «sono immersi in un mondo creato dalla loro immaginazione, abbandonarlo significherebbe abbandonare il senso della loro vita, trascorsa in questo mondo ipotetico, dove le distruzioni, i combattenti, lo sfollamento, le tenebre, la devastazione, la fame e la paura sono considerati una vittoria».

 

Sullo stesso quotidiano il giornalista saudita Tariq al-Hamid ha affermato che i discorsi di Meshal e Qasim sono una contraddizione in termini: «I due uomini si rallegrano del fatto che il Partito [Hezbollah] e il movimento “stiano bene”, nonostante la distruzione di Gaza, del Libano meridionale e della periferia sud di Beirut. E nonostante 42.000 morti a Gaza e quasi 3.000 in Libano, oltre i milioni di sfollati». È surreale, commenta inoltre il giornalista, che Meshal attribuisca a Israele la responsabilità del mancato accordo per una tregua a Gaza, quando tutti sanno che il responsabile è Sinwar (l’ideatore dell’attacco del 7 ottobre e attuale capo di Hamas), così come è surreale che oggi Hezbollah appoggi Nabih Berri per un cessate il fuoco, quando fino pochi giorni fa il Partito di Dio e, «in particolare Hassan Nasrallah, insistevano nel collegare il Libano al corso della guerra a Gaza». Lungi dall’essere l’Asse della resistenza prosegue l’editoriale, Hezbollah e Hamas rappresentano «l’Asse del fallimento e dell’illusione», parlano di «soluzione politica» ma non sanno che cosa sia la politica, perché al momento «l’unico che fa davvero politica con pragmatismo è l’Iran, al fine di proteggere i suoi interessi nazionali e risparmiarsi la guerra e il confronto con Israele».

 

Se Hezbollah canta sulle note del flauto iraniano [a cura di Davide Ferrazzi e Chiara Pellegrino]

 

«Chi non canta in armonia con il proprio flauto sentirà attorno a sé soltanto uno strillo stonato, figurarsi chi consegna il proprio flauto a dita altrui e prova a cantare sul rumore che esso produce». Con questa immagine lo scrittore iracheno Sami al-Badri ha definito il percorso politico di Hassan Nasrallah, che per tutta la vita «ha continuato a cantare sulle note prodotte dal walī al-faqīh il giurisperito iraniano [Khamenei], costringendo i libanesi a credere che questa fosse l’unica bella canzone che meritasse di essere ascoltata». La morte di Nasrallah non ha però messo fine a questa dinamica, commenta il giornalista. Se Israele è deciso a cancellare il Partito di Nasrallah dall’equazione politica del Libano, l’Iran lavora per «trovare il suo sostituto» e ha imposto a Nabih Berri di temporeggiare, procrastinando l’elezione del presidente, mentre le confessioni non sciite continuano a temere Hezbollah perché loro «non hanno un giurisperito che le sostenga e fornisca loro armi, attrezzature e munizioni». Il «demone» iraniano continuerà a tenere in scacco il Libano, conclude l’editoriale, e l’unica via d’uscita da questa impasse è l’esercito, che dovrebbe prendere in mano la politica, «dichiarare lo stato di emergenza, applicare la legge marziale e un cessate il fuoco unilaterale».

 

Da dopo l’attacco israeliano, l’esercito ha acquisito nuova centralità nel dibattito libanese, così come il suo comandante, il generale Joseph Aoun, finito sotto i riflettori per il ruolo di primo piano che è chiamato a svolgere. Come ricorda Sabine Ouais su an-Nahar, l’esercito è chiamato a svolgere la duplice funzione di controllo della sicurezza interna per ridurre «il rischio di conflitti su base confessionale che potrebbero scoppiare attraverso lo sfruttamento della crisi dei rifugiati», e di azione diplomatica per giungere all’attuazione della Risoluzione 1701. Questo ruolo di primo piano rende Joseph Aoun un candidato papabile per essere eletto alla presidenza, ma lo espone anche ad attacchi politici, che colpiscono la sua persona per colpire la presidenza. Nonostante il suo nome circolasse in realtà da diversi mesi, commenta Ouais, il generale ha sempre mantenuto un profilo basso, ma la capacità di reazione e gestione dimostrata dall’esercito negli ultimi giorni ha indispettito gli altri aspiranti alla corsa presidenziale, e ha «messo, ancora una volta, il generale Aoun nel cratere del vulcano, nonostante tutti i tentativi di quest’ultimo di tenersi lontano dal fronte».

 

La difficile situazione libanese suscita però anche delle domande relativamente all’opportunità di continuare a ricreare uno Stato fondato sulla triplice divisione confessionale. Questa è la grande questione che ormai da diverso tempo assilla i giornalisti arabi. Ed è anche il tema dell’editoriale firmato dal giornalista saudita Mishary Althayti. Sul quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat Althayti si chiede se «il sistema politico della “Carta” libanese contenga al suo interno i semi del suo difetto fin dalle origini, dai giorni cioè dell’“indipendenza”, quando fu costruito il “sistema” su base confessionale, tribale e familiare». Il Libano è progettato per essere uno Stato normale o è destinato a essere «un generatore di crisi e conflitti»? Le domande restano però senza risposta.

 

Infine, su Asas Media, il giornalista Khairallah Khairallah critica l’ingenuità di Hezbollah e dei suoi sostenitori, che «vogliono ripetere l’esperienza della guerra dell’estate 2006, senza rendersi conto che il mondo è cambiato e la regione è cambiata». Allo stesso modo ritiene fallimentare la soluzione proposta da Nabih Berri, dal Primo ministro Najib Miqati, dal leader druso Walid Jumblatt e sostenuta da Naim Qasim, nuovo leader di Hezbollah, di cercare un accordo per il cessate il fuoco e l’attuazione della risoluzione 1701, con l’elezione di un presidente a seguire. Questa opzione è irrealistica, scrive il giornalista, perché è rifiutata dall’Iran, e «soprattutto, non si sa se Israele, che non è un’organizzazione caritatevole, è disposto a tornare alla Risoluzione 1701 nella sua formulazione attuale o pretenderà di più alla luce dei colpi inferti a Hezbollah con il via libera americano». Anziché cercare un cessate il fuoco che al momento sembra impossibile, Khairallah suggerisce di focalizzare l’attenzione sul dramma umanitario nel Paese, la cui urgenza è stata richiamata anche dalla piattaforma d’informazione libanese Megaphone: «La presenza di un milione di sfollati non è uno scherzo, ma una bomba a orologeria che può far esplodere il Paese».

 

Il silenzio di Assad sul “Diluvio di al-Aqsa” [a cura di Mauro Primavera]

 

Dopo l’eliminazione di Hassan Nasrallah e l’invasione israeliana del Libano meridionali, esperti e giornalisti non escludono la possibilità che Tel Aviv possa aprire un nuovo fronte di guerra con il regime siriano di Bashar al-Assad. Formalmente membro dell’Asse della Resistenza, in realtà Damasco ha assunto una posizione neutrale, consapevole della propria debolezza militare e della sua dipendenza da Russia e Iran. Ma se Israele dovesse attaccare la Siria, i rapporti tra le due potenze regionali potrebbero mutare. «Ricordiamoci – scrive un analista russo su Al Jazeera – che gli iraniani sono alleati della Russia (non molto tempo fa è stato firmato un accordo strategico da cui si evince che, in linea di principio, abbiamo un nemico comune e un approccio comune nei confronti degli israeliani). In pratica, però, al momento queste non sono altro che parole, ma le cose potrebbero cambiare nel caso in cui Israele superasse la linea rossa in Siria». Inoltre, per Mosca l’intensificazione degli attacchi israeliani in Siria rappresenta una questione spinosa: il Cremlino vuole tenersi alla larga dal conflitto regionale, ma la sua presenza militare a difesa del regime siriano lo espone a diversi rischi; a inizio ottobre, infatti, gli israeliani hanno attaccato un deposito di armi vicino alla base aerea russa di Hmeimim, nei pressi della città di Laodicea. «Visto che gli israeliani agiscono impunemente – prosegue l’articolo – mentre i russi invitano alla de-escalation e al ritorno al tavolo dei negoziati, incidenti come questi potrebbero moltiplicarsi in futuro su larga scala, producendo conseguenze ancora più tragiche. Inoltre, colpire una base aerea, ossia un territorio sotto sovranità russa all’interno della Siria, con il pretesto che fosse presente una delegazione o un aereo iraniano, potrebbe costituire la scintilla di uno scontro tra Russia e Israele, anche se in maniera indiretta».

 

Sferzante e caustico, come sempre, il giudizio di al-‘Arabi al-Jadid su Assad. In un articolo si legge che dal 7 Ottobre il rais «ha deciso di entrare nel seminterrato», allontanandosi dalla scena pubblica. Una vignetta attribuisce al presidente siriano le sembianze di uno struzzo, le cui fauci insanguinate si aprono fameliche di fronte al popolo siriano. Quando però l’uccello vede piovere le bombe israeliane, mette prontamente la testa sotto la sabbia. «In silenzio – esordisce l’articolo che compare sotto la vignetta – come se avesse abbandonato l’Asse della Resistenza, mettendosi seduto in attesa dell’esito della guerra a Gaza. Assad non ha dato alcun contributo alla guerra avviata da Hezbollah, dagli Houthi e dalle milizie irachene affiliate all’Iran. Non si è preoccupato dei dolorosi attacchi ai danni di Hezbollah», persino «le condoglianze per la morte di Hassan Nasrallah sono arrivate in ritardo, diversi giorni dopo la sua scomparsa; però ha annunciato di stare al fianco dei rifugiati libanesi e di fornire loro completo aiuto in Siria. Il suo silenzio ha creato una frattura con l’Iran, ma quest’ultimo controlla ormai diversi settori» dello Stato siriano.    

 

Per Ernest Khoury, direttore del giornale, la crisi regionale potrebbe influire direttamente sull’andamento del conflitto civile, da tempo entrato in una fase di stallo ma non ancora concluso: «il genocidio israeliano commesso ai danni dei palestinesi da un anno a questa parte sta tentando alcuni siriani, che da almeno otto anni sperimentano la devastazione, le uccisioni di massa e l’occupazione che da un anno vivono gli abitanti di Gaza e da qualche settimana quelli del Libano». «Dal Nord Ovest della Siria giungono notizie sul fatto che le milizie dell’opposizione “Tahrir al-Sham” (è sempre doveroso ricordare che è il braccio siriano di al-Qaida, anche se ha cambiato il suo nome) stanno lanciando una grande operazione militare contro le forze del regime siriano, Hezbollah e le milizie iraniane nelle campagne di Idlib e Aleppo» approfittando del momento di difficoltà dell’Asse. Il comune e auspicato obiettivo è altisonante, di quelli che fanno ribaltare il tavolo, cambiare gli equilibri di potenza, sferrando il colpo finale per la liberazione». L’articolo però sottolinea come altri attori potrebbero approfittare del caso per trarne vantaggio: gli oppositori del regime, infatti, «non sanno o fanno finta di non sapere che la Turchia potrebbe trovare in una campagna militare simile l’occasione per sbarazzarsi di quelle fazioni a lei avverse che ancora si rifiutano di ottemperare all’impegno di Ankara di normalizzare le sue relazioni con Damasco […]. Queste persone non sanno o fanno finta di non sapere che la Russia è in grado di intraprendere una guerra genocida su più fronti, esattamente come Israele, macchiandosi dei suoi stessi crimini, o di peggiori in Palestina e Libano». Pertanto, l’articolo invita i ribelli siriani a rinunciare ai loro sogni di gloria, concentrandosi piuttosto su obiettivi circoscritti e concreti: «rendete quelle aree [che occupate] adatte alla vita, ampliate le libertà e rendete il vostro governo meno retrogrado e arretrato […]. Non aprite fronti suicidi; abbiamo visto dove siamo arrivati a Gaza e in Libano».

 

Infine, al-Quds al-‘Arabi si chiede quale sia stato per il mondo arabo il vantaggio di salvare Assad: «questioni utilitaristiche e opportunistiche che hanno caratterizzato la politica del dittatore siriano e i suoi interessi con gli alleati offrono una dolorosa lezione per le altre questioni arabe», prima fra tutte quella palestinese. Gli arabi che sostengono Assad vengono infatti accusati di essere degli ipocriti, in quanto ignorano i crimini del presidente proprio come hanno ignorato i crimini perpetrati da Israele in un anno di guerra. A tal proposito, occorre far notare come nessuna testata filo-emiratina e filo-saudita abbia approfondito la questione siriana.

 

Tags