Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 12/07/2024 15:57:39

Toni prudenti, con la cautela che scade nello scetticismo e, infine, in manifesta disillusione. È con questa lettura (quasi) monocorde che la stampa araba analizza la vittoria di Masud Pezeshkian, il nuovo presidente della Repubblica Islamica iraniana che ha battuto al secondo turno il concorrente “ultraradicale” Said Jalili. La testata emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya non ritiene che la nomina del nuovo presidente «riformista» produrrà significativi cambiamenti nella politica estera di Teheran: «la differenza di voti tra lui e il candidato conservatore è stata inferiore a quattro milioni su 30 milioni di votanti. Sarebbe esagerato, o forse sarebbe un eccesso di ottimismo, parlare di un riorientamento della politica iraniana verso il riformismo». Anzi, proprio «in considerazione dei poteri limitati attribuiti alla presidenza, la vittoria dei riformisti potrebbe aggravare la disillusione interna alla società iraniana, anche se la responsabilità dei fallimenti del governo si trova da un’altra parte». Simile l’editoriale di al-‘Arab a firma del giornalista iracheno Faruq Youssef, dal titolo “Un nuovo presidente in Iran, non un nuovo Iran”. Perché il presupposto di fondo è sempre lo stesso: niente in Iran si muove senza l’assenso della Guida Suprema, la cui figura e la cui autorità «si avvicinano a quella dell’Imam nascosto, colui che, mostrandosi, diffonderà la giustizia sulla terra secondo il credo sciita duodecimano». Tuttavia, l’ascesa di Pezeshkian potrebbe sortire qualche effetto in politica estera: «con un presidente riformista, il mondo occidentale non eserciterà nuove pressioni sull’Iran, nonostante sia a conoscenza dell’origine del gioco politico iraniano. Pezeshkian darà al Paese ciò che ha perduto durante il periodo di Ahmadinejad e di Raisi. È proprio ciò che la Guida Suprema, il vero decisore, desidera». Disilluso il giornalista libanese Khayrallah Khayrallah: «il neoletto presidente fa dei bei discorsi, basandosi su dati di fatto […]. Ma i bei discorsi non sembrano bastare, così come non basta nominare Muhammad Javad Zarif, ex ministro degli esteri che ha avuto un ruolo durante i negoziati con l’Occidente sul nucleare, suo consigliere. In fin dei conti, i bei discorsi rimangono [solo] bei discorsi, se non sono accompagnati da azioni» concrete, come ad esempio il fatto che «la Repubblica Islamica abbandoni le sue fantasie riguardanti l’“esportazione della rivoluzione”. Se il regime iraniano fosse un sistema davvero di successo, allora i cittadini comuni non avrebbero sfruttato l’occasione delle elezioni presidenziali per votare Pezeshkian, bensì avrebbero dato il voto all’estremista Said Jalili, che per la piazza proviene dalla scuola dei Talebani!».

 

Al-‘Arabi al-Jadid offre due teorie per spiegare il successo del «moderato e riformista» Pezeshkian. Secondo la prima, egli sarebbe un candidato sconosciuto che, con la sua vittoria, ha “colto di sorpresa” il regime; quest’ultimo avrebbe tuttavia deciso di «accettare l’esito» delle urne, evitando di ripetere l’errore commesso nel 2009, quando «impose Ahmadinejad, innescando gli eventi della “Rivoluzione Verde”». Nella seconda, di stampo complottista, «il regime avrebbe concepito un cambio alla presidenza per porre rimedio alle debolezze interne e rafforzare la sua postura estera»; in tal senso, Pezeshkian, dotato «di una retorica moderata e di una visione realista» rappresenterebbe l’uomo giusto, soprattutto a seguito del «catastrofico fallimento della precedente amministrazione». Come che siano andate le cose, il neoletto presidente ha di fronte a sé una “missione impossibile”: «ce la farà a realizzare le sue promesse e a produrre un reale cambiamento nella situazione interna del Paese e nella politica estera? La risposta più probabile è: no, perché le politiche interne e le promesse legate al miglioramento delle libertà pubbliche si scontreranno con gli altri centri del potere che sono tutti nelle mani dei conservatori, dal parlamento alla magistratura, del Consiglio dei Guardiani della Costituzione, del Consiglio per il Discernimento, dell’Assemblea degli Esperti, eccetera». Su Asas Media il giornalista Nadim Kooteich considera Pezeshkian una «falsa speranza»: «il vero cambiamento richiede più di un nuovo presidente privo di posizioni, soprattutto sui temi più importanti per gli iraniani […]. È solo un’altra speranza illusoria che fin dall’inizio sta sostenendo l’insostenibile in una repubblica le cui fondamenta stanno collassando sotto il peso del dispotismo, della decadenza e del divorzio fra il regime e la sua gente». Ma per il quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat l’esito delle urne ha messo definitivamente in evidenza le crepe formatesi all’interno della Repubblica Islamica: «prima e durante le elezioni il regime rivoluzionario si è accorto di avere due difficoltà. La prima è la sua incapacità di contenere la vitalità della società iraniana, in quanto le tecniche di repressione del dissenso, un tempo efficienti, non hanno spinto gli individui, i gruppi e le correnti ad arrendersi. Nonostante le precedenti delusioni e il fallimento di importanti esperienze e di grandi personalità che non sono riuscite a realizzare i loro programmi, la società iraniana ha preservato la sua vitalità, riconosciuto il suo pluralismo e ha annunciato di nuovo la sua disubbidienza. La seconda difficoltà, la più grave, [..] è che l’imposizione di una sola natura e di un solo orientamento non è riuscita a proteggere il regime, al contrario ha messo a nudo i suoi difetti e fragilità».

 

Il presidente tunisino non vuole concorrenti [a cura di Mauro Primavera]

 

La buona notizia è che il presidente tunisino Kais Saied ha fissato la data delle elezioni presidenziali al prossimo 6 ottobre. Quella cattiva è che i criteri per le candidature stabiliti dalla commissione elettorale sono stati resi ancora più limitanti, al punto da trasformare, di fatto, l’appuntamento in un pro forma per la riconferma del presidente uscente. Su al-‘Arab, giornale di area filo-emiratina piuttosto indulgente nei confronti del Capo dello Stato tunisino, il giornalista Mokthar al-Dababi sembra discolpare, almeno parzialmente, Saied: «lui lavora ogni giorno per seguire in maniera accurata la vita quotidiana della gente, soprattutto in settori vitali come le attività dei municipi, il tema dell’acqua, dell’elettricità, dei servizi sanitari». La colpa delle cattive performance economiche del Paese è da attribuire, semmai, alla corruzione e alla burocrazia asfissiante dei funzionari municipali e di provincia: «puoi andare in un quartiere esclusivo o popolare, puoi andare nella capitale o nei principali centri abitati. Vedrai il livello di degrado in cui versano le strade, o la grande quantità di rifiuti che si è accumulata, a riprova del fatto che le scope dei municipi non passano da quelle parti da mesi. È una cosa che non ha niente a che vedere con le capacità dello Stato, né con le scelte politiche. Piuttosto, ha a che vedere con la cultura della negligenza e dell’incuria». Tuttavia al-Dababi mette in evidenza, in un altro editoriale, le fragilità del presidente, al punto da domandarsi: non è che «Kais Saied teme la competizione elettorale?». «È come se lui, temendo che qualche politico dell’opposizione si candidi per competere con lui alle elezioni, volesse buttarli fuori dalla corsa tirando fuori vecchi dossier e sbattendoglieli in faccia. Almeno questa è l’impressione che si ha dall’esterno». Questa strategia non solo è disonesta, ma – nota il giornalista – è anche inutile, perché molti aspiranti candidati dispongono di risorse assai limitate e sarebbero comunque destinati alla sconfitta: «la logica dice che questi individui o gruppi collettivi non sono in grado di battere Saied alle elezioni, anche se si mettessero d’accordo su un esponente da votare al secondo turno. Ma ciò non accadrà per via delle esistenti differenze all’interno dell’opposizione che non sono ancora state risolte». E infatti sarebbe stato molto più sensato che il ra’īs si presentasse alle elezioni «passando attraverso un’aspra competizione fatta di scontri e dibattiti, vincendo contro figure scarsamente influenti». Ma allora perché Saied, senza avversari capaci di sconfiggerlo, ha ridotto il processo elettorale a una passerella? Sul quotidiano di proprietà qatariota al-‘Arabi al-Jadid, Salem Labiadh, accademico e ministro dell’educazione tunisino dal 2014 al 2021, spiega che vi sono «diverse ragioni». Anzitutto il presidente «non ha conseguito successi concreti di cui vantarsi di fronte ai suoi avversari politici: in cinque anni non ha realizzato nemmeno un progetto politico o di sviluppo per il quale ha posato la prima pietra o per cui ha tagliato il nastro». Anzi, «in ambito politico, Saied ha distrutto le istituzioni dello Stato tunisino e ha impedito di dare attuazione ai testi fondativi, che sono stati sostituiti con una costituzione monocratica – che ha sancito il potere assoluto e totalmente corruttivo del presidente – e con due finte camere legislative che non godono della legittimazione popolare». “Tunisia: riecco la censura” titola polemico un altro articolo di al-‘Arabi al-Jadid: «a prescindere dai recenti eventi, il clima di paura, che ha di nuovo tenuto a freno molte lingue, è dovuto al fatto che candidarsi alle presidenziali è diventato di per sé un atto di accusa». La natura autoritaria del regime è stata indorata, facendo presentare il presidente come «l’angelo custode delle virtù del popolo» e come «il difensore della dignità della nazione tunisina».

 

Scontri e incontri tra turchi e siriani [a cura di Mauro Primavera]

 

Dopo l’ondata di violenza della scorsa settimana in Turchia ai danni dei rifugiati siriani, la stampa araba si interroga sul destino delle relazioni tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il suo omologo siriano Bashar al-Assad. La stampa di area (filo)qatariota, molto vicina al governo di Ankara, cerca di giustificare l’operato di Erdoğan, anche se è costretta ad ammettere che molti problemi sono ancora in attesa di soluzione. Al Jazeera, ad esempio, scrive: «che la Turchia apra le sue porte ai rifugiati è un’azione nobile, ma l’assenza di una politica seria, di una strategia e di un piano migratorio è stato uno dei suoi errori più grandi. Per questa ragione i problemi si sono accumulati, diventando un fardello pesante». Decisamente filo-Erdoğan il quotidiano al-Quds al-‘Arabi: le insurrezioni sarebbero dei «tentativi dell’opposizione turca di rendere la questione dei rifugiati siriani il principale tema nello scontro con il governo, perché eventi come questi possono avvenire solo dietro istigazione» di qualcuno che intende fomentare il razzismo tra turchi e siriani. Al-‘Arabi al-Jadid spiega il complesso scenario che sta portando Ankara a normalizzare i rapporti con Damasco. Le ragioni sono diverse: «il clima emerso a seguito delle elezioni municipali in cui l’opposizione ha vinto nettamente; il mutamento del Partito Popolare Repubblicano e delle sue politiche nei confronti dell’attuale esecutivo, passate dal boicottaggio al dialogo con il presidente del partito Giustizia e Sviluppo Erdoğan […]; la necessità di Ankara di risolvere la questione dei migranti e impedire che venga sfruttata dall’opposizione; l’allentamento delle pressioni a livello politico e sociale; il bisogno di aprire le strade siriane ai mezzi di trasporto turchi verso la Giordania e i Paesi del Golfo» che permetterebbe di riaprire gli «scambi commerciali con le aree controllate dal regime siriano»; infine, cosa più importante e urgente, è la «preoccupazione dovuta allo svolgimento delle elezioni municipali nelle provincia autonoma della Siria nordorientale», che permetterebbe ai curdi di godere della legittimazione popolare e, forse, di un riconoscimento politico internazionale. Il quotidiano filo-saudita al-Sharq al-Awsat condivide le analisi dei giornali filo-qatarioti, ma il giudizio è abbastanza positivo: «tra gli obiettivi della Turchia di Erdoğan vi sono il raggiungimento di una soluzione pratica e praticabile che permetta ai circa due milioni di rifugiati siriani di ritornare volontariamente nelle loro regioni offrendo un ambiente sicuro, cosa che è possibile solo attraverso una cooperazione e accordo completo sia con la Siria che con la Russia […]. Ora Ankara mira a riallacciare i legami con il regime siriano intorno a questi obiettivi, secondo un preciso approccio cooperativo». Il giornale al-‘Arab – vicino alle posizioni degli Emirati, a loro volta vicini ad Assad –  aggiunge che la Siria è sempre stata aperta al dialogo con la controparte turca e «non ha posto alcuna precondizione», nonostante la Turchia abbia invaso il nord del Paese e sostenuto le milizie anti-Assad. Segnali di distensione affiorano anche nella stampa siriana. Bassam Abu ‘Abdallah, giornalista di al-Watan, invita a non generalizzare quando si parla di scontro tra turchi e siriani: «vorrei sottolineare un punto che purtroppo molti osservatori non considerano: la questione turca si è trasformata in uno scontro totale tra siriani e turchi senza fare distinzioni tra amici e nemici. Si fa di tutta l’erba un fascio», quando invece esistono diversi gruppi e forze politiche turche, tra cui il Partito Patriottico (Vatan), che simpatizzano per la Siria. «L’opinione pubblica – conclude Abu ‘Abdallah – deve sapere che la Turchia non può essere ridotta alla figura di Erdoğan […] e il presidente Bashar al-Assad ha sempre confermato il legame vitale tra i due popoli».  

 

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