L’Unione Mondiale degli Ulema di Doha ha invocato la mobilitazione militare generalizzata del mondo musulmano a favore dei palestinesi. L’appello è stato sostenuto da altre istituzioni e personalità islamiche, ma il Mufti egiziano l’ha contestato
Ultimo aggiornamento: 16/04/2025 14:53:58
Sin dal 7 ottobre del 2023, molte istituzioni islamiche si sono espresse sulla guerra a Gaza manifestando il loro sostegno incondizionato ai palestinesi. La mobilitazione ha registrato un salto di qualità il 28 marzo scorso, quando l’Unione Mondiale degli Ulema di Doha, un’organizzazione di riferimento per la galassia islamista, ha emesso una fatwa che invita i musulmani del mondo a intervenire militarmente per difendere i palestinesi. All’appello si sono uniti il mufti Muhammad Taqi Usmani, una delle più importanti personalità religiose pakistane, e il Consiglio Indonesiano degli Ulema, un’istituzione che riunisce le principali autorità islamiche del grande Paese-arcipelago.
Il cuore della fatwa è il passaggio in cui si legge che il «jihad contro l’occupazione in Palestina è un obbligo per ogni musulmano abile del mondo». Sebbene il testo specifichi poi che sono in particolare i governi dei Paesi musulmani a dover agire «immediatamente», la formulazione implica quello che nel diritto islamico è noto come «obbligo individuale», un dovere cioè che ricade su ogni singolo fedele e non sulla comunità dei credenti nel suo complesso.
Sono parole che ricordano altri famosi appelli alla mobilitazione pan-islamica. Nel 1984, ad esempio, l’ideologo jihadista palestinese ‘Abdallah ‘Azzam scrisse la sua celebre “Difesa dei territori musulmani”, una lunga fatwa che, chiamando i musulmani del mondo a contribuire alla lotta contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, contribuì in modo decisivo all’arrivo di combattenti stranieri nel Paese centroasiatico e pose le premesse per la nascita di al-Qaida.
Nel 2013 fu invece Yusuf al-Qaradawi, uno dei più influenti predicatori sunniti, nonché fondatore e all’epoca presidente dell’Unione Mondiale degli Ulema, a dichiarare che chiunque fosse «abile e addestrato a combattere» avrebbe dovuto partecipare alla lotta contro Bashar al-Assad in Siria.
Sia questo proclama che quello più recente dell’Unione Mondiale degli Ulema sono piuttosto inusuali. Se gli appelli al jihad armato come “obbligo individuale” sono un leitmotiv delle organizzazioni jihadiste, è infatti raro che soggetti più istituzionali facciano dichiarazioni simili. Negli ultimi due anni, ad esempio, la moschea-università cairota di al-Azhar si è sistematicamente pronunciata a favore dei palestinesi e finanche di Hamas, ma senza mai invocare il ricorso al jihad.
C’è però una differenza significativa tra la chiamata alle armi lanciata da Qaradawi nel 2013, e prima di lui da Azzam nel 1984, e quella che arriva ora dagli ulema di Doha. Mentre i primi due hanno avuto un indiscutibile successo, è difficile pensare che la fatwa del marzo scorso sia veramente in grado di suscitare una mobilitazione militare globale. L’Unione Mondiale degli Ulema non è certo un organismo irrilevante. I suoi pareri sono anzi influenti per musulmani di diverse parti del mondo, comprese alcune fasce della popolazione musulmana in Europa. E lo stesso si può dire per le personalità e le istituzioni che hanno sostenuto la fatwa, la cui autorità incide su due contesti geograficamente circoscritti ma demograficamente consistenti come Pakistan e Indonesia.
È però del tutto inverosimile che in Palestina possa verificarsi un afflusso di combattenti simile a quello che ha caratterizzato l’Afganistan degli anni ’80 e la Siria dopo il 2012. Lo impedisce il controllo capillare del territorio da parte di Israele e l’indisponibilità dei Paesi vicini – Egitto e Giordania in primis – a fungere da basi logistiche dei jihadisti. Questo spiega tra l’altro perché da decenni la Palestina occupa un’innegabile centralità nel discorso islamista, ma è del tutto marginale quale teatro operativo del jihadismo globale. Nel gennaio del 2024, peraltro, era stato l’allora capo politico di Hamas Ismail Haniyeh ad affermare, intervenendo a una conferenza organizzata ancora dall’Unione Mondiale degli Ulema, che per i musulmani era giunto il momento del «jihad con la punta delle lance» a favore della Palestina, un’espressione che in arabo gioca sull’assonanza tra jihad al-sinān (il jihad con le lance, appunto, e quindi armato) e jihād al-lisān (il jihad della lingua, combattuto cioè attraverso scritti e parole). Anche in quel caso, tuttavia, la sollecitazione era caduta nel vuoto. Negli anni ’80, lo stesso Abdallah ‘Azzam fu spinto a una militanza jihadista transnazionale, nella fattispecie in Afghanistan, proprio dall’impossibilità di combattere per la propria terra.
La fatwa dell’Unione Mondiale degli Ulema ha quindi un valore perlopiù simbolico, ma allo stesso tempo esprime e alimenta la fibrillazione di porzioni rilevanti della popolazione musulmana mondiale, e per questo non può non preoccupare quegli stessi governi che essa invita a scendere in campo con le armi.
Non è un caso che una critica immediata al documento sia giunta proprio da uno dei Paesi toccati più da vicino dal conflitto israelo-palestinese, l’Egitto. Il mufti della Repubblica, una figura nominata direttamente dal presidente egiziano, ha infatti emesso una contro-fatwa in cui si afferma che «il jihad è un concetto legale preciso […] e la sua proclamazione e qualsiasi decisione sulla guerra possono avvenire soltanto sotto una guida, rappresentata nel nostro tempo dallo Stato legittimo e dalla leadership politica», e non attraverso «dichiarazioni provenienti da entità o unioni prive di qualsiasi autorità legittima». Il testo aggiunge inoltre che «chiamare al jihad senza tenere conto delle capacità della umma e della sua realtà politica, militare ed economica è irresponsabile e contrario ai principi della sharī‘a». Una presa di posizione che non contesta soltanto la pertinenza del ricorso al jihad ma, invocando la legittimità esclusiva dello Stato nazionale, punta a depotenziare qualsiasi appello alla mobilitazione islamica globale.
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