20 anni di Oasis. L’intervento di monsignor Paolo Martinelli, Vicario apostolico dell’Arabia meridionale
Ultimo aggiornamento: 30/09/2024 17:03:20
Grazie alle parole lette poco fa abbiamo potuto riandare all’intuizione fondativa di Oasis, che venti anni fa spinse il Cardinale Angelo Scola a dar vita prima a una rivista, quindi a un Centro, e infine a una Fondazione con questo nome. Abbiamo poi ascoltato il vivace ricordo dei primi anni di attività, da parte di Mons. Gabriel Richi, che del Centro fu il primo direttore. Riandare con il ricordo al passato è un’azione di grazie, ci insegna la Bibbia (basti pensare ai Salmi dello Hallel), che tuttavia richiede una condizione: che la memoria sia aperta al futuro. La memoria grata è sempre apertura al futuro e foriera di speranza. Così in questo mio breve intervento vorrei suggerire umilmente alcune prospettive di sviluppo per Oasis, in una fedeltà creativa alle sue origini: fedeltà, perché l’intuizione iniziale di un dialogo culturale con le società a maggioranza musulmana arricchito dall’esperienza dei cristiani che vivono al loro interno non ha affatto perso d’attualità; ma creativa perché chiamata e misurarsi con circostanze in parte mutate.
Un contesto geopolitico trasformato
Il 2004 infatti, l’anno della nascita di Oasis, è ancora dominato dallo shock dell’Undici Settembre 2001 e dalla proclamazione di una guerra globale contro il terrorismo. È allora cronaca recente la caduta del regime del Mullah Omar in Afghanistan, ma soprattutto l’invasione americana dell’Iraq, nel 2003. Tenendosi alla larga dalle sirene dell’occidentalismo, Oasis coglie subito il grave rischio di passare dalla legittima difesa di fronte a quanto accaduto a una lotta senza quartiere con il mondo musulmano. Cerca così di aprire spazi di dialogo, ovunque questo sia possibile, nel contesto arabo, ma soprattutto in Turchia e in Asia orientale. Poi nel 2011 le primavere arabe apportano un vento di autentica novità al Medio Oriente, che tuttavia si scontra con alcuni nodi di fondo irrisolti – in particolare il rapporto tra religione e politica – dando vita a una sorta di estenuante Kulturkampf (nella migliore delle ipotesi) o a terribili guerre civili, in Siria ma anche, per quel che riguarda il mio vicariato, nel dimenticato e martoriato Yemen. Situazioni oggi tutt’altro che risolte.
In quegli anni, tuttavia, siamo ancora sotto il segno della lotta al terrorismo, come diventa chiaro con la fulminea ascesa di ISIS e la devastazione che essa semina in Iraq e Siria, distruggendo molto di ciò che rimane della cristianità siriaca (ironia della sorte per chi aveva sperato che l’invasione dell’Iraq desse nuova linfa alla presenza cristiana in Medio Oriente). Il ciclo giunge però a compimento nell’agosto 2021 con la precipitosa ritirata americana da Kabul e la restaurazione dell’emirato talebano. Esattamente vent’anni dopo gli attentati alle Torri Gemelle, diventa plasticamente evidente il fallimento del progetto di esportare la democrazia. In questo senso, Oasis non si deve oggi più misurare con un progetto politico di portata globale, semplicemente perché l’Occidente ha perso in gran parte fiducia nel proprio universalismo astratto dei diritti. Altri attori sono comparsi sullo scacchiere mondiale, la Cina e l’India, ad esempio, ma anche i diversi paesi del Golfo. Nel frattempo, lungo tutti questi anni, il processo migratorio e di mescolamento dei popoli continua ad apparire semplicemente inarrestabile a livello mondiale, con la necessità che tale processo sia governato con sapiente lungimiranza, come ripetutamente richiesto dal Santo Padre.
Recuperare l’unità delle culture
Questo sviluppo non ha tuttavia significato la fine delle guerre, quasi che ognuno si fosse accontentato di restare dominus a casa propria. Anzi. Come ci ricorda ancora Papa Francesco, il numero di conflitti in atto in questo momento sul pianeta è in continua crescita. L’universalismo astratto dei diritti di matrice neo-liberale, infatti, ha lasciato il campo a un cosiddetto “realismo” che considera lo scontro come la condizione normale delle relazioni internazionali. Se il terrorismo non è scomparso, è sparita l’ambizione di portare l’avversario dalla propria parte. Il nuovo obiettivo sembra sia talvolta semplicemente annientarlo. O, se questo non è possibile, raggiungere un precario status quo, in attesa che il rapporto di forze volga a favore di una parte. In nessun luogo questo è più evidente oggi che nella guerra tra Hamas e Israele, da cui al momento è assente qualsiasi prospettiva politica. In questo senso il conflitto israelo-palestinese si rivela ancora una volta cartina di tornasole di una tendenza più generale, un’incapacità radicale a comunicare dove non vi è più neppure l’ambizione di convertire l’altro, ma semplicemente di cancellarlo.
La risposta a questa deriva non può tuttavia venire da una delle varie forme di ideologia woke, influenti in alcune porzioni delle élites occidentali. Certo, l’ideologia woke sembra celebrare la diversità, ma lo fa al prezzo di rinchiudere la società in gruppi non comunicanti, ciascuno convinto di essere oggetto di una discriminazione e pertanto soggetto di un diritto a essere risarcito. Così facendo, ha osservato Ghassàn Salàmeh in una bella intervista, si confondono origine e identità e ci si va a cacciare in una strada senza uscita[1].
Se questo è il quadro, il compito di Oasis è oggi a mio avviso quello di ritrovare, per parafrasare il titolo di un fortunato libro del Cardinal Scola, le buone ragioni di un universalismo amante delle differenze e cercatore dell’unità. Del resto, questo programma è già stato delineato da san Giovanni Paolo II nel suo celebre discorso all’UNESCO del 1980, che rappresenta, penso di poterlo affermare con certezza, un testo cardine per la Fondazione.
La cultura è un modo specifico dell’“esistere” e dell’“essere” dell’uomo. […] Nell’unità della cultura, come modo proprio dell’esistenza umana, si radica nello stesso tempo la pluralità delle culture in seno alle quali l’uomo vive[2].
Di fatto, l’unità della cultura di cui parla qui san Giovanni Paolo II necessita di una concezione relazionale della ragione che, pur riconoscendone la natura sempre storicamente situata, ne accentua il carattere comunicativo, secondo il metodo della testimonianza. Vera ragione è allora quella capace di comunicarsi all’altro, di parlargli e interpellarlo nella sua libertà, al limite anche sfidandolo a mostrare “chi spiega di più” l’esperienza umana o per trovare strade da percorrere insieme per la vita buona di tutti. È anche questa una forma del «gareggiare in opere buone» che il Corano (5,48) individua come principio pratico delle relazioni tra i credenti. Al contrario, cattiva ragione è quella che vuole cancellare l’altro.
Forte di questa convinzione, ritengo che il Cristianesimo sia chiamato oggi a entrare senza timore in dialogo con le altre tradizioni religiose e culturali che abitano il pianeta. Ci conforta in questo l’esempio dei primi cristiani che nel mondo meticcio dell’Impero Romano non restarono chiusi nel particolarismo di una cultura, quella ebraica, di cui pure erano – e sono – spiritualmente figli, ma si mossero audacemente incontro al mondo mediterraneo e vicino-orientale dell’epoca. E non lo fecero – questa osservazione, che dobbiamo a Benedetto XVI, è capitale anche per noi oggi – in nome delle “religioni”, quei culti pagani per cui, in quanto ebrei, provavano ben poca simpatia, ma della ragione. Non erano una sottocultura che chiedeva il diritto di coesistere accanto ad altre, un nuovo dio da aggiungere al pantheon, ma una proposta per tutti, rispettosa della libertà di tutti. E fu solo quando questo dinamismo si appesantì di una struttura imperiale, dopo Costantino e soprattutto dopo Teodosio, che lo slancio nel tempo gradatamente si affievolì (sebbene mai si spense), con il rischio di far prevalere la divisione, suscitando da ultimo l’impressione di essersi posti in un vicolo cieco segnato, come afferma il Corano, da «un’inimicizia e un odio che dureranno fino al dì della Resurrezione» (5,14).
In realtà sono convinto che l’esperienza pratica di un’unità nella pluralità sia già all’opera, come realtà vissuta, in molte parti del mondo, ad esempio nel Golfo da cui provengo, e che essa ci aiuti a leggere in modo più positivo il fenomeno delle migrazioni. Attende però di essere portata a una più matura coscienza, grazie a una riflessione culturale a cui anche Oasis è chiamata a contribuire.
L’intelligenza artificiale e il paradigma tecnocratico
Non sfugge a nessuno che questo ambizioso programma deve fare i conti con tre sfide di grande portata: se le guerre sono l’aspetto più emergente della crisi dell’universale, non meno preoccupante è la questione ecologica, che Papa Francesco richiama con grande forza a partire dalla enciclica Laudato si’ fino al recente viaggio apostolico nel Sudest Asiatico, e la questione antropologica posta dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale. È ormai evidente a tutti che siamo sull’orlo di una nuova rivoluzione tecnologica la cui esatta portata ci sfugge ampiamente. Come è stato osservato da più parti, il ritmo di innovazione, misurato ad esempio dal cosiddetto tempo di raddoppio, ha conosciuto una crescita esponenziale, dove l’aggettivo non è semplicemente un sinonimo più dotto di “molto grande”, ma designa una precisa funzione di accrescimento la cui rapidità, dopo un avvio lento, subisce un’accelerazione così marcata da risultare difficile da concepire dalla nostra mente. Oggi noi siamo letteralmente sulla soglia di questa rivoluzione, di cui iniziamo appena a intravedere l’intensità attraverso i mutamenti che le tecnologie hanno portato in noi, alterando le relazioni, il ritmo di sonno e veglia, rendendoci sempre connessi, più informati, scaltri e smaliziati, ma anche più polemici, conflittuali e in ultima analisi più dipendenti da «usura, lussuria, potere», le tre tentazioni dominanti descritte da T.E. Eliot, ricordate nel celeberrimo I cori da La Rocca.
Come andrà a finire? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che, per governare questo cambiamento, in luogo di lasciarsene governare, serve, come ha ricordato Papa Francesco al G7 lo scorso 14 giugno, una qualità: la sapienza. La chiedeva già il giovane Salomone nella bellissima preghiera che si trova all’inizio del Primo Libro dei Re (1Re 3,4-15; cfr. anche Sapienza 9,1-11) e di cui si fa eco anche il Corano (27,79). Ed è proprio a partire da questa considerazione che abbiamo deciso di dedicare il prossimo incontro di Oasis, il 20 novembre prossimo, al tema della saggezza. Si svolgerà presso la Chiesa di San Francesco d’Assisi nella Abrahamic Family House, ad Abu Dhabi, e avrà come titolo La saggezza attraverso le tradizioni. È il prossimo passo per Oasis e sono lieto di accoglierlo nel nostro Vicariato Apostolico.
+ S.E. Mons. Paolo Martinelli, Vicario apostolico dell’Arabia meridionale
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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