A 81 anni, don Gianmaria Gianazza si accinge a completare l’edizione critica del Libro della Torre, un’enorme enciclopedia ecumenica della Chiesa d’Oriente, scritta in arabo verso l’anno Mille
Ultimo aggiornamento: 15/07/2024 11:06:21
Intervista a cura di Martino Diez, 17 giugno 2024
Nato a Cerro Maggiore (MI) nel 1943, Gianmaria Gianazza ha dedicato numerosi studi ed edizioni di testi alla conoscenza della Chiesa d’Oriente, cioè quel ramo del Cristianesimo che fin dai primi secoli si sviluppò al di fuori dell’impero romano, in Mesopotamia e in Persia, prima di separarsi dal resto della cristianità nel V secolo, durante la complessa crisi che si aprì con la decisione del Patriarca Nestorio di Costantinopoli di rifiutare a Maria il titolo di “Madre di Dio”. Negli accesi dibattiti che si scatenarono, la scuola di Antiochia, che era il riferimento teologico della Chiesa d’Oriente, si pronunciò a favore della formula delle due nature, due persone e un individuo in Gesù Cristo e per questo i suoi seguaci furono detti “nestoriani”, anche se questa denominazione non riflette la reale posizione teologica della scuola nelle sue formulazioni originarie.
Oggi in parte unita a Roma (chiesa caldea) e in parte autocefala (chiesa assira d’oriente e antica chiesa d’oriente), la Chiesa d’Oriente fu nel Medioevo protagonista di un’intensa attività missionaria, che giunse fino in India e in Cina. Dopo la conquista islamica adottò gradualmente la lingua araba e svolse un’importante opera di mediazione culturale. Ad esempio, il Catholicòs Timoteo I tradusse i Topici di Aristotele dal siriaco all’arabo per il califfo abbaside al-Mahdī (m. 775) e fu forse protagonista di uno dei primi dibattiti islamo-cristiani, con il califfo stesso; membro della Chiesa d’Oriente fu anche il celebre Hunayn Ibn Ishāq (m. 873), il più grande traduttore medievale dal greco e dal siriaco verso l’arabo. Dopo l’invasione mongola del XIII secolo la Chiesa d’Oriente si ritirò nell’Alta Mesopotamia e nell’Anatolia orientale. Durante la Prima guerra mondiale fu vittima delle politiche genocidarie del regime dei Giovani Turchi, insieme agli armeni e ai siro-occidentali; le tragiche vicende irachene dall’avvento di Saddam Hussein in avanti hanno ulteriormente impattato su di essa.
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Negli ultimi dieci anni Lei ha pubblicato testi arabo-cristiani, sia edizioni critiche che traduzioni, a un ritmo impressionante. Da dove Le nasce questo interesse? Si tratta di una conversione che arriva in età avanzata oppure è una passione che L’ha accompagnato lungo tutta la vita?
È una ricerca che viene da lontano. Sono arrivato in Libano giovanissimo, a 17 anni, come salesiano, e qualche anno più tardi mi sono laureato all’Université Saint-Joseph di Beirut. Poi nel 1974 ho iniziato il dottorato con il famoso domenicano francese Maurice Fiey, il grande studioso di Mosul e della cristianità siriaca. Lui era stato appena espulso dall’Iraq: dopo tanti anni a Mosul aveva chiesto il passaporto iracheno, ma le autorità, in tutta risposta, lo cacciarono dal Paese dandogli 24 ore per andarsene.
Quando iniziai il dottorato, passai i primi sei mesi pensando a che cosa fare e alla fine scelsi di editare un trattato teologico della Chiesa d’Oriente, il Kitāb Usūl al-Dīn, “Libro dei fondamenti della religione” del Patriarca Elia II. Poi la vita mi portò altrove: come salesiano mi sono occupato di dirigere alcune scuole, principalmente istituti tecnici, in Terra Santa; sono stato anche provinciale dell’Ispettoria Salesiana del Medio Oriente, che comprendeva allora sei nazioni, Libano, Siria, Israele/Palestina, Egitto, Turchia e Iran. Discussi il dottorato nel 1984 e in mezzo a tutte le occupazioni mi è sempre rimasto nel cuore l’interesse per la produzione letteraria arabo-cristiana. Così, quando si sono conclusi i miei compiti scolastici e amministrativi, mi ci sono dedicato anima e corpo.
Prima di tutto ho pubblicato nel 2005 il Kitāb Usūl al-Dīn, la mia tesi di dottorato, all’interno della collana del Centro di Documentazione Arabo-Cristiana fondato da Padre Samir, il CEDRAC di Beirut. E poi ho scelto di dedicarmi alle due più importanti enciclopedie prodotte nella Chiesa d’Oriente, con qualche incursione in altri autori sempre siro-orientali, Elia di Nisibi (m. 1046) ed Ebedjesu (m. 1328) principalmente. La prima enciclopedia di cui mi sono occupato è il Kitāb Afsār al-asrār, “Il Libro dei misteri”, di Salībā Ibn Yūhannā al-Mawsilī, un sacerdote del XIV secolo, originario di Mosul. Nel 2010 avevo già finito di preparare il testo arabo – sono più di 2500 pagine – anche se non è ancora stato stampato completamente nella collana del CEDRAC: il primo volume è uscito nel 2018, il secondo nel 2019, il terzo pochi mesi fa, ne restano ancora due. Nel frattempo, però, ne ho già pubblicato la traduzione italiana completa, nel 2017, nella collana Patrimonio culturale arabo cristiano (PCAC) diretta da don Davide Righi di Bologna, sono 982 pagine.
Qual è il valore di quest’opera?
Essendo un testo enciclopedico, contiene molti estratti di autori precedenti, ma soprattutto una storia dei patriarchi d’Oriente, che è fondamentale per conoscere la storia della chiesa detta “nestoriana”. Bisogna però anche aggiungere che Salībā Ibn Yuhannā è piuttosto polemico verso le altre confessioni cristiane. Scrivendo verso il 1332, quindi in un momento già di crisi per la Chiesa d’Oriente, insiste molto sul fatto che la fede autentica si trova in Oriente e che la Chiesa d’Oriente è l’unica ad aver preservato in modo fedele il messaggio evangelico; l’autore sottolinea che la sua è l’unica chiesa a non aver mai potuto beneficiare del supporto del potere politico, difende la sua cristologia e la dichiara superiore a quella di “melkiti” e “giacobiti”, anche se è sufficientemente equanime da presentare queste teologie concorrenti attraverso le parole dei loro autori. Insomma, si tratta di un testo molto importante, ma la mia preferenza va piuttosto alla seconda enciclopedia su cui sto lavorando, Il Libro della torre.
Perché?
Perché è un libro rivolto davvero a tutti i cristiani. Potremmo dire, se non temessimo l’anacronismo, che si tratta di un’enciclopedia ecumenica, che vuole presentare la bellezza della fede cristiana in lingua araba, sottolineando sempre ciò che unisce più che ciò che divide. È per questa ragione che l’opera si diffuse tra tutti i cristiani di lingua araba, anche nelle altre chiese. In Egitto, ad esempio, la cita il teologo copto Ibn Kabar (m. 1324) nel suo catalogo di libri cristiani disponibili in arabo. L’aspetto più notevole per me è che il Libro della torre è scritto in sajʿ, cioè in prosa rimata e ritmata. A differenza di altre opere arabo-cristiane, l’autore presta molta attenzione anche alla forma, vuole che la bellezza dei contenuti si traduca anche in un bello stile, naturalmente secondo i canoni della cultura del suo tempo.
Che cosa c’entra la torre nel titolo?
È un’immagine. I vari temi sono presentati come le parti di una torre: l’edificio, i pilastri, i candelabri che la illuminano all’interno, le colonne, i ruscelli che la alimentano, il giardino che vi è racchiuso… C’è un voluto simbolismo numerico, in linea con la tradizione biblica: uno, tre, quattro, sette sono i numeri che ricorrono con maggiore frequenza nella numerazione dei capitoli delle sette sezioni. Si comincia con l’esposizione della fede cristiana, in un unico capitolo, forse per indicare la sua unicità. Poi cominciano le dimostrazioni, in tre capitoli, che formano l’edificio propriamente detto: sull’Unità di Dio, sull’Incarnazione, sulla Trinità. Si passa quindi all’esposizione dei pilastri (il Battesimo e l’Eucarestia, seguiti dall’importanza del Vangelo e della croce), e dei candelabri, che sono le sette virtù: pietà, carità, preghiera, digiuno, misericordia, umiltà e purezza. Le colonne sono sette: la creazione, il giudizio, le profezie, la venuta del Messia, le leggi e i canoni degli Apostoli (seguiti dalla storia dei Patriarchi della chiesa dell’Oriente, per indicare che le norme emanate da qualche patriarca si inseriscono nella linea dei canoni apostolici), i concili, che per la Chiesa d’Oriente sono solo quelli di Nicea e Costantinopoli, il canone dei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. I quattro ruscelli che portano acqua alla torre sono quella che oggi chiameremmo la spiritualità: la santificazione della domenica, la cintura, le lampade con l’incenso, la penitenza. E infine si aprono i quattro giardini, che consistono nel superamento della legge mosaica per quanto riguarda la circoncisione, il sabato, il divieto di mangiare alcune carni, seguiti, come spesso accade nelle opere dell’epoca, da un rimprovero nei confronti degli ebrei. La Summa nel complesso è gigantesca e la maggior parte dei manoscritti ne conserva solo delle parti. Per la mia edizione ho raccolto quindici testimoni, ma solo tre sono completi. Quello di Parigi, che è il più importante, si compone di 538 folii, cioè più di 1000 pagine. Purtroppo, alcuni dei manoscritti descritti nei cataloghi più antichi sono andati distrutti, in particolare durante il genocidio perpetrato dai Giovani Turchi durante la Prima Guerra Mondiale.
A ogni modo, ormai sono arrivato quasi alla fine del mio lavoro, mi manca il 5% dell’arabo, due settimane e avrò finito! Entro un anno dovrei riuscire a completare anche la traduzione italiana, di cui sono già usciti cinque volumi, sempre nella collana Patrimonio culturale arabo cristiano, l’ultimo proprio in questi giorni. Ho scelto di tradurre in italiano e non in inglese proprio per procedere più spedito e arrivare in fondo al lavoro. Per me è una grande gioia, lo vivo anche come un servizio alla Chiesa.
Che cosa si sa sull’autore del Libro della torre? Mi sembra ci sia un po’ di confusione riguardo alla sua identità.
Sì, tutto nasce da una svista del grande Giuseppe Simone Assemani, il vescovo maronita che nel Settecento, lavorando alla Biblioteca apostolica vaticana, impresse un impulso straordinario agli studi siriaci e arabo-cristiani in Europa. Assemani descrisse tre manoscritti di provenienza orientale di cui era entrato in possesso, che all’epoca corrispondevano ai numeri 25, 41 e 109 del fondo arabo-cristiano della Vaticana – oggi sono rispettivamente i numeri 108, 110 e 109. Nel farlo però commise due errori. Prima di tutto, riassumendo nel secondo volume della Bibliotheca orientalis il contenuto del manoscritto 41, lo identificò con il Libro della torre e lo attribuì a ʿAmr Ibn Mattā al-Tirhānī, mentre in realtà si tratta del Libro dei misteri di Salībā. Successivamente, nel terzo volume della Bibliotheca orientalis, attribuì il Libro della torre a Mārī ibn Sulaymān, vissuto nel dodicesimo secolo, aggiungendo che ʿAmr ibn Mattā al-Tirhānī ne avrebbe fatto più tardi un riassunto, contenuto nel manoscritto 41 del Vaticano. Insomma, una bella confusione, che è stata chiarita per la prima volta da Bénédicte Landron nella sua tesi del 1978.
Oggi sappiamo con certezza, perché ce lo dicono vari manoscritti, che l’autore del Libro della torre è ʿAmr ibn Mattā al-Tirhānī. L’ultima parte del nome ci indica la provenienza, dalla regione del Tirhān, cioè la parte della Mesopotamia intorno a Tikrit, nell’attuale Iraq. Nulla sappiamo invece su di lui, ma alcuni riferimenti interni ci permettono di datarne l’opera alla fine del X secolo, inizio dell’XI. Infatti ʿAmr afferma che la fede cristiana è diffusa tra le nazioni da circa mille anni e conta circa mille anni dalla dispersione degli ebrei. Inoltre l’autore afferma che i cristiani, dalla diaspora in poi, abitano la Palestina senza ricorrere alla violenza, un dettaglio che suggerisce un periodo anteriore alle Crociate. Infine cita alcuni autori definendoli semplicemente come «nostri contemporanei». Personalmente ho identificato uno di questi contemporanei anonimi, si tratta del filosofo Yahyā ibn ʿAdī, e questo ci riporta ancora una volta al X secolo, dato che Yahyā morì nel 974. Tutto questo è sufficiente per escludere l’attribuzione del Libro della torre fatta da Assemani – e da altri autori che lo hanno seguito, come Graf – a Mārī ibn Sulaymān.
Siamo quindi verso l’Anno Mille. Mi colpisce constatare che lo stesso spirito di apertura si ritrova in un altro trattato di un autore misterioso, Il Libro dell’unanimità della fede dei cristiani edito da Gérard Troupeau nel 1969 e probabilmente appartenente allo stesso periodo.
Sì, assolutamente. Anche in quel caso l’autore è misterioso, l’attribuzione più probabile è quella proposta da Troupeau sulla base di alcuni manoscritti che ascrivono l’opera a un certo ʿAlī ibn Dāwūd al-Arfādī. Di nuovo, l’unica cosa certa che possiamo dire sull’autore è che veniva dalla Siria del Nord, sulla base del suo nome. Ed esattamente come Il Libro della torre, l’opera manifesta un’evidente preoccupazione ecumenica. Questo mi sembra importante perché ci mostra che l’ecumenismo non è un’invenzione recente, ci sono sempre stati cristiani che si sono interrogati sul perché delle divisioni e sul modo di superarle, soprattutto quando si sono trovati confrontati alla sfida rappresentata da un’altra religione, in questo caso l’Islam.
Tornando a ʿAmr ibn Mattā che cosa possiamo dire ancora su di lui?
Nell’introduzione che precede la prima sezione dell’opera l’autore presenta, forse in forma stereotipica, alcuni dettagli circa la sua persona: «trascorso il fior fiore della vita» e mosso dal pensiero della morte, si è dato al pentimento e a conoscere ciò che avvicina a Dio, volgendosi alla ricerca della scienza e alle buone azioni. Ha deciso quindi, nonostante l’incapacità e l’inadeguatezza, di «comporre un libro», intitolandolo Il Libro della torre (Kitāb al-Miǧdal) in trenta capitoli riuniti in sette sezioni. Dopo aver chiesto perdono al lettore per il suo operato, l’autore chiarisce il limite della sua opera, dichiarandosi un semplice compilatore e conclude invocando l’aiuto di Dio. In realtà, questo “compilatore” deve essere stato un geniaccio. Nella sua vita si era occupato di tutt’altro, forse di scienza perché Il Libro della torre contiene una sezione molto elaborata sui sistemi di computo del tempo e i vari calendari in uso nel Medio Oriente. Poi – come detto – l’avvicinarsi della morte lo spinse a interessarsi in maniera più decisa di religione.
In Libano e Terra Santa, dove Lei ha vissuto, non ci sono praticamente fedeli della chiesa orientale. Non c’era il rischio di fare un lavoro di pura biblioteca?
Sì, ma per evitarlo, dal 1996 ho iniziato con mio fratello Pier Giorgio, anche lui salesiano, un’esperienza pastorale a Baghdad e Mosul. Lavoravamo con don Louis Sako, che nel 2003 divenne Vescovo di Kirkuk e dal 2013 è Patriarca dei caldei. Ogni mattina e ogni pomeriggio venivano 300-400 ragazzi e giovani, caldei, siriaci, armeni; avevamo anche comprato una casa a Baghdad nel quartiere cristiano, chiamato scherzosamente “il Vaticano di Baghdad” dove c’erano, oltre al seminario, parecchie case religiose. Purtroppo nel 2003 ci fu l’invasione americana e dovemmo abbandonare quell’esperienza. La Chiesa d’Oriente ha patito moltissimo in questi ultimi anni, è stata attaccata direttamente da ISIS, e anche recentemente il Patriarca Sako è stato costretto a riparare nel Kurdistan per un contrasto con un leader di una milizia cristiana filo-iraniana che si è auto-proclamato “difensore” dei beni della chiesa e dei cristiani.
Di fronte a questa situazione tragica quale può essere il valore di un’opera come quella di cui ti appresti a concludere l’edizione?
Il Libro della torre parla a tutti i cristiani di lingua araba. Per me, come ho detto, è molto importante l’aspetto stilistico. Da giovane mi sono occupato delle poesie di al-Mutanabbī.
Un altro interesse in comune…
Sì, avevo anche preparato uno studio sulla sua vita, basata sul suo dīwān, con degli estratti in endecasillabi sciolti e in appendice una traduzione in endecasillabi di undici odi, che è rimasta inedita. Comunque, anche se non sono andato avanti con gli studi letterari, mi è rimasto il gusto per la lingua araba. Un altro aspetto notevole è che Il Libro della torre parla anche ai non-cristiani. Ad esempio, una studiosa turca, Ayşe İçöz, attualmente ricercatrice all’università di Marmara, ha dedicato il suo dottorato alla discussione delle dottrine etiche contenute nella sezione dei candelabri del Libro della torre e ha mostrato come la terminologia sia profondamente influenzata dal contesto islamico. Queste analisi semantiche mi sembrano molto promettenti, anche se personalmente avrei sottolineato maggiormente il peso della tradizione siriaca. Per me comunque, fedele alla lezione di Padre Samir, che considero uno dei miei maestri, il primo passo è sempre quello dell’edizione critica. Stabilire un testo affidabile, che rispecchi l’articolazione dei temi voluta dall’autore e sciolga le ambiguità dell’arabo attraverso una vocalizzazione completa, è per me preliminare a qualsiasi altro discorso. Tra l’altro nel caso del Libro della torre questo non è una passeggiata perché il testimone principale, il manoscritto di Parigi, è quasi privo di punti diacritici, per cui molte parole possono essere lette in modi parecchio diversi. In questo senso spero di aver offerto una base solida per lo studio della Chiesa d’Oriente nella sua relazione con il contesto arabo-musulmano.
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