Intervista a Yassine Lafram, presidente dell’UCOII, sul conflitto a Gaza
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:55:20
Intervista a cura di Chiara Pellegrino
Quest’intervista fa parte della serie “I musulmani italiani e la guerra a Gaza”. Clicca qui per leggere le altre interviste
Lei è il presidente dell’UCOII. Come viene vissuto da voi il conflitto israelo-palestinese in corso?
Noi ovviamente seguiamo giorno per giorno quello che sta succedendo. Qualcuno penserebbe dal 7 ottobre scorso, noi invece come UCOII guardiamo da sempre, e con molta attenzione, a ciò che accade in Palestina, così come tutte le comunità islamiche, direi. Uno spettatore arabo o musulmano attento sa che sulle tv satellitari arabe non passa giorno senza che vengano date notizie sulla questione palestinese. Non c’entrano l’orientamento ideologico o politico, l’appartenenza etnica, nazionale, linguistica, o il fatto che si è arabi o musulmani. La questione va al di là degli arabi, dei musulmani. È bene ricordare che questa è l’unica causa rimasta su cui tutti gli arabi e i musulmani sono d’accordo. Tralasciando qualche voce un po’ fuori dal coro, che rimane una minoranza della minoranza e quindi non è rappresentativa, possiamo dire che tutto il mondo arabo islamico nutre una certa preoccupazione e si trova d’accordo sulla questione palestinese, ritenendola l’emblema dell’ingiustizia. Ciò che è cambiato negli anni è la posizione di alcuni governi arabi verso la questione, ma se parliamo invece dell’opinione pubblica arabo-islamica, è rimasta quella di sempre. Bisogna stare attenti a distinguere sempre l’azione dei governi da ciò che pensano i loro popoli. Noi come UCOII continuiamo a seguire il conflitto con preoccupazione e frustrazione. C’è molta angoscia tra i dirigenti, gli imam e i referenti delle diverse comunità islamiche. E c’è anche molta delusione perché noi siamo parte integrante della nostra Italia, il nostro Paese, per cui ci interessa la posizione del nostro governo e dei nostri mass media. Siamo rimasti molto delusi dalla posizione politica e mediatica italiana, che tra l’altro vanno nella direzione opposta del popolo. Le piazze italiane sono più che sensibili al dramma palestinese, all’ingiustizia che i palestinesi continuano a subire da ormai 75 anni. Ma la nostra classe politica dirigente e la stampa mainstream sembrano vivere in un mondo parallelo rispetto all’opinione pubblica italiana, probabilmente legata più a interessi e sudditanze geo-strategiche ed economiche.
Lo scorso novembre ha rivolto un appello alla presidente del Consiglio per salvare i neonati prematuri di Gaza rimasti privi delle incubatrici. Come è nata l’idea di questo appello e come è stato recepito?
In quei giorni abbiamo ascoltato le dichiarazioni di alcuni esponenti del nostro governo, in particolare del ministro della Difesa Crosetto, che aveva annunciato una nave ospedale italiana pronta a giocare un ruolo umanitario nella guerra a Gaza. Noi abbiamo voluto chiedere un’azione concreta. Vista l’ingiustificata e totale criminalizzazione della popolazione di Gaza, abbiamo pensato che almeno quei bambini nelle incubatrici potevano essere considerati innocenti e quindi salvati dalla nostra Europa, in particolare dalla nostra Italia. E poi, non dimentichiamo la storia della nostra politica italiana rispetto alla causa palestinese. L’Italia è sempre stata amica dei palestinesi: quando i capi dell’OLP venivano classificati come terroristi, i nostri ministri degli Esteri e i nostri premier li chiamavano per portare solidarietà al popolo palestinese. Questa vicinanza alla causa palestinese era sotto gli occhi di tutti, ed era addirittura resa esplicita dalle azioni politiche. Questo per dire che l’Italia e la Palestina hanno una storia di amicizia, vicinanza e sostegno, soprattutto sul lato umanitario. Quindi abbiamo voluto richiamare l’attenzione della nostra premier su questo aspetto: vista la storica amicizia con la Palestina, a maggior ragione oggi a Gaza i bambini nelle incubatrici hanno bisogno di qualcuno che li salvi. Purtroppo, non li ha salvati nessuno. Non li abbiamo salvati noi, non li ha salvati nessun altro governo, e molti di questi bambini non ce l’hanno fatta. Quei bambini non sono morti, sono stati uccisi, e sono sulla coscienza di tutti noi.
Hamas è un movimento che si definisce di resistenza islamica. Voi in quanto associazione islamica come valutate questa definizione?
Oggi, ma anche nella storia recente, ci sono molte organizzazioni che si rifanno a una matrice religiosa. Quello che conta per noi sono le azioni. Per quanto riguarda il 7 ottobre, noi abbiamo subito condannato le uccisioni di qualsiasi vittima civile innocente, di qualsiasi essere umano. Uccidere una persona, come recita il Corano, è come uccidere l’intera umanità. Pertanto, su questo non abbiamo nessuna ambiguità. Ovviamente poi bisogna capire bene la situazione nella Striscia di Gaza e in Palestina e cercare di leggere la storia dall’inizio, altrimenti rischiamo di rinchiudere tutto il conflitto palestinese in una data, il 7 ottobre, una data drammatica per Israele e per il suo popolo. Il popolo palestinese, nella sua storia, ha vissuto tanti “7 ottobre” di cui è difficile tenere il conto. Quelli però non hanno mai fatto notizia, a differenza di ciò che è accaduto il 7 ottobre scorso e a quello che poi ne è conseguito in termini mediatici e politici. Come musulmani, pur solidarizzando con il popolo palestinese e con la sua causa, non possiamo mai giustificare l’uccisione di una vittima civile innocente, che sia una donna, un uomo o un bambino.
Lei ha co-organizzato e partecipato alla fiaccolata “Pace, salam, shalom” che si è tenuta a Bologna per il cessate il fuoco. Alla fiaccolata ha partecipato anche il presidente della comunità ebraica. Come incide il conflitto sui rapporti tra islam ed ebraismo in Italia?
Dobbiamo distinguere la questione israelo-palestinese e la questione del dialogo fra le varie comunità religiose in Italia. Le due questioni non si incontrano. Quando dialogo con i cittadini bolognesi di fede ebraica il denominatore comune è la nostra cittadinanza. Siamo tutti cittadini bolognesi; ci incontriamo per il bene della nostra città, per il bene comune, per promuovere quei valori universali che rendono la nostra convivenza una convivenza civile basata sul mutuo rispetto. Vogliamo migliorare la vita di tutti, al di là delle appartenenze. La fiaccolata che abbiamo organizzato ha voluto esprimere soprattutto questo, il fatto che noi siamo cittadini italiani, cittadini bolognesi. Ciascuno ha la sua fede, il suo credo, le sue convinzioni, la sua posizione sulla guerra a Gaza e l’apartheid che vige in Cisgiordania, ma dobbiamo conservare il cammino comune che stiamo portando avanti insieme in termini di dialogo interreligioso, dialogo interculturale, incontro, integrazione, interazione positiva, reciprocità. Il riconoscimento reciproco è molto importante. La questione israelo-palestinese invece è altra cosa.
In questi mesi avete avuto momenti di confronto con le altre associazioni islamiche italiane su Gaza? Il conflitto è un tema che unisce i musulmani italiani o è divisivo?
Abbiamo organizzato diversi incontri con le comunità islamiche italiane, anche non necessariamente aderenti all’UCOII. Sulla questione palestinese siamo tutti allineati, anche perché non è una questione che scopriamo oggi, arriviamo già tutti quanti con un bagaglio in termini di attenzione a questo dramma. All’interno di questi incontri si discute di come sostenere la causa palestinese, come promuovere i diritti del popolo palestinese e risparmiargli tutte queste sofferenze, soprattutto attraverso la comunicazione. La gente deve sapere che cos’è la questione palestinese, che cosa sta succedendo in Palestina. In questi ultimi anni l’attenzione per la questione palestinese era scemata al punto che alcuni governi arabi parlavano soltanto di come normalizzare i rapporti con Israele. La questione era considerata chiusa con la Cisgiordania, diventata un insieme di isole non comunicanti, tante piccole strisce di Gaza separate fra di loro. È la famosa discontinuità territoriale, un’operazione portata avanti da tutti i governi israeliani che mira a dividere le terre palestinesi per poi assorbirle meglio all’interno dei “propri” territori. Mentre la Striscia di Gaza era stata volutamente trasformata in una grande prigione a cielo aperto, dove tutto è sotto controllo, chi entra e chi esce. Per Israele non c’era più una questione palestinese, quindi l’obiettivo era solamente la normalizzazione dei rapporti con gli altri Paesi arabo-islamici. Dopo il 7 ottobre abbiamo riscoperto che c’è un popolo, quello palestinese, che rivendita il suo diritto all’esistenza. Oggi questa realtà è tornata sulla scena, ahimè, in maniera brutale, atroce.
Perché la questione palestinese è così centrale per il mondo musulmano, mentre per altre cause islamiche non c’è tutto questo impegno?
La centralità della causa palestinese è data dalla storia di quel pezzo di terra geograficamente ben definito, crocevia di tante civiltà, imperi, religioni, culture e tradizioni. Ne è prova l’abbondante e peculiare ricchezza patrimoniale e architettonica degli edifici islamici e cristiani, a Gerusalemme e in tutta la Palestina. In particolare, le religioni hanno giocato un ruolo importante. La pretesa ebraica sulla terra della Palestina con la restaurazione dello Stato-nazione del popolo ebraico nasce dall’Antico Testamento. Chi ascolta i discorsi del premier Netanyahu, nota come egli fa un uso sistematico delle citazioni bibliche per legittimare le brutali azioni militari israeliane, le uccisioni di civili inermi, il sistema di apartheid, l’esproprio delle terre palestinesi, gli insediamenti illegali e le detenzioni amministrative. È evidente che la storia e la religione hanno giocato un ruolo importante nella questione palestinese. Le altre cause non valgono meno, perché la vita di un essere umano vale la vita dell’umanità intera, come dice Dio nel Corano. Io continuo a dire che bisogna rivalutare le proprie azioni e il proprio approccio a tutte le cause giuste che, come tali, vanno assolutamente sostenute.
Quale soluzione vede per il conflitto?
Dobbiamo essere realistici. Gli appelli alla pace come le dichiarazioni di condanna sono importanti, ma servono azioni concrete. È necessario l’intervento della comunità internazionale per un immediato e permanente cessate il fuoco e l’ingresso degli aiuti umanitari, la fine dell’occupazione delle terre palestinesi, lo smantellamento degli insediamenti illegali e la liberazione degli ostaggi palestinesi e israeliani. È necessario applicare le risoluzioni ONU, che al momento sono sospese dal veto americano. È possibile ripartire da qui per un processo di pace risolutivo. Il mondo ormai è un villaggio globale. I canali social ci trasmettono le immagini in tempo reale di quello che succede. Ogni giorno vediamo pezzi di carne sparsi tra le macerie dopo i bombardamenti israeliani delle case, delle fabbriche, delle moschee e degli ospedali. Siamo ormai a oltre 26.000 vittime di cui oltre 12.000 bambini, oltre 60.000 mila i feriti di cui moltissimi resteranno invalidi a vita. Oggi la maggior parte dei malati palestinesi non ha più accesso alle cure e sta morendo lentamente sotto i nostri occhi. Queste immagini le vediamo sui canali satellitari come al-Jazeera e al-‘Arabiyya, su Instagram, su alcuni canali Telegram ancora aperti, perché ogni giorno ne vengono chiusi molti. Credo che questo conflitto sarà uno spartiacque per la causa palestinese, perché ci saranno delle conseguenze per il Medio Oriente, ma anche per tutto il mondo per come lo conosciamo oggi. Per cui o si ferma la macchina della morte israeliana, o domani ci ritroveremo tutti a pagarne le conseguenze. Le morti che noi vediamo oggi sono sulle nostre coscienze. Osservando quello che sta succedendo notiamo che molti non sono in grado di prendere posizione pubblicamente per timore di essere accusati di antisemitismo, per cui ci mettiamo sulla difensiva e nel frattempo gli israeliani continuano a perpetrare un genocidio contro oltre due milioni di persone. I semiti, voglio chiarirlo, sono anche i Palestinesi, come potremmo essere anti-semiti? Domani i nostri figli ci chiederanno come è potuto succedere tutto questo, dove eravamo. Che cosa risponderemo? Non abbiamo una giustificazione. Che cosa diranno i nostri figli quando vedranno i soldati israeliani festeggiare dopo aver bombardato una moschea, un intero isolato, o ballare sui corpi dei palestinesi? Io non saprei rispondere, ma quello che mi sento di dire è che tutti noi siamo complici di questo genocidio. È una parola forte che molti respingono, ma questo è il diritto internazionale. Non a caso il tribunale dell’Aja ha accolto la richiesta del Sud Africa contro Israele. Dopo il 7 ottobre si è parlato di diritto di Israele alla difesa, ma il diritto internazionale, che non è la sharia, condanna l’azione israeliana come crimini di guerra, pulizia etnica. Pulizia etnica non vuol dire eliminare interamente una popolazione, basta eliminarne una parte, o costringere le persone a spostarsi altrove. A Gaza su 2,2 milioni di persone oltre 1,9 milioni hanno dovuto abbandonare le proprie case. Gli israeliani sono stati indennizzati dal mondo occidentale dopo l’Olocausto sulla pelle dei palestinesi. Per ripagare una popolazione di un gravissimo torto subito, uno dei massacri più indicibili della nostra storia, noi che cosa facciamo? Creiamo un nuovo massacro. Lungi da me definire quello che succede in Palestina un olocausto, perché l’Olocausto può appartenere solo agli ebrei e alla sua eccezionalità. Ma, al di là delle parole, se guardiamo ciò che sta succedendo non possiamo negare la realtà. E allora io mi chiedo, fino a quando durerà questa situazione? Fino a dove si spingerà il “diritto alla difesa” israeliano? Chi di noi potrà ripagare un domani i palestinesi, sempre se ne rimarrà qualcuno, del torto subito? Non lo sappiamo. Quello che sappiamo oggi è che la situazione continua a peggiorare. Il ritiro delle forze di occupazione israeliane è il punto di partenza per la de-escalation, così come il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Se i 26.000 bambini, donne e uomini massacrati e uccisi brutalmente dai soldati israeliani fossero stati cittadini italiani, europei o americani, che reazioni avremmo avuto? Che posizioni avremmo preso? Non ci sarà pace nel mondo fino a quando ogni anima non avrà lo stesso valore, e ogni vittima un nome.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Abbiamo bisogno di te
Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.
Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.
Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!