Intervento di Martino Diez alla conferenza internazionale “Cambiare rotta. I migranti e l’Europa”

Ultimo aggiornamento: 07/02/2024 11:01:10

Il tempo intermedio

 

E gli uomini formavano dapprima una comunità sola: poi sorsero dissensi fra loro». Così il Corano, nella sura 10, versetto 19, sintetizza in pochissime parole le origini dell’umanità. La medesima intuizione viene dispiegata dalla Genesi nel celebre racconto della Torre di Babele. Nell’impianto biblico, l’umanità attuale è tutta discendente di Noè, l’unico scampato alle acque del diluvio insieme alla moglie, ai tre figli e alle rispettive mogli, per un totale di otto persone. Ebbene, nel giro di qualche generazione – narra Genesi 10 – quegli otto sono divenuti un numero incalcolabile di uomini e donne. Eppure, nella loro varietà, formano ancora un blocco unico. La confusione delle lingue – sia in ebraico che in arabo c’è un gioco di parole tra Babele e “confusione” bālal/tabalbul – interviene a rompere questa unità, che da allora in avanti si articola in 72 popoli («popoli vari e tribù» dice più sinteticamente il Corano in un altro passo celebre, 49,13).

In realtà, l’introduzione della differenziazione rappresenta un fatto positivo in questa umanità primitiva altrimenti un po’ monotona. Anche nella Gerusalemme futura descritta dall’Apocalisse (Ap 21,9–27) si contano infatti 12 tribù e delle mura con 12 porte, che, pur aperte (Ap 21,25), continuano a marcare, anche nell’eschaton, un dentro e un fuori: perché la persona umana richiede una misura e una forma, dunque una differenza. Quello che non è positivo, nella vicenda di Babele, è la perdita dell’unità nella differenza, per cui i costruttori della torre sembra costretti a scegliere tra omologazione e incomunicabilità. Questa è la tragedia, allora come ora. Fortunatamente non sarà sempre così: alla fine, insegnano sia Cristianesimo che Islam, l’unità delle origini sarà ricostituita, senza però perdere la differenza guadagnata lungo la storia.

 

Più precisamente, ciò avverrà attraverso un processo graduale, che è già iniziato – per i cristiani nella Pentecoste e dunque nella Chiesa, per i musulmani nella creazione di una umma che ripropone la «comunità sola» delle origini – ma che non si è ancora compiuto. E proprio per questo voler anticipare la fine – l’utopia dell’internazionalismo, la religione dell’umanità – significa tradirla, cercando una scorciatoia che ci risparmi la fatica del cammino, secondo una modalità sempre in ultima analisi violenta. Il tempo della Chiesa, dunque, è insieme quello del già e del non ancora. Lo ricorda – mi pare – anche un versetto coranico che, secondo la cronologia tradizionale, si colloca alla fine del Libro sacro islamico, quasi come una sorta di riflessione conclusiva sul destino religioso dell’umanità.

 

A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre, se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica [come all’inizio], ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia (5,48).

 

Già e non ancora. Questi due avverbi sembrano dunque essere l’enigmatica cifra del nostro tempo intermedio e anche nella questione dei migranti il difficile sta nel tenerli insieme. Perché siamo già fratelli (Fratelli tutti, appunto), ma non siamo ancora capaci di uno sguardo pienamente pacificato sulle nostre differenze. Il primo contributo che cristiani e musulmani possono dare al dibattito sui migranti è allora proprio ricordare questo aspetto paradossale, che impedisce sia chiusure nazionalistiche che dimenticano la comune umanità sia fughe in avanti utopistiche che vorrebbero anticipare la fine. Di regola, le posizioni intermedie hanno il poco invidiabile privilegio di attirarsi le critiche degli estremi e questo caso non fa eccezione. Non abbastanza idealisti per gli uni, non sufficientemente concreti per gli altri, cristiani e musulmani possono invece sostenersi l’un l’altro in questo esercizio di realismo ispirato da una lettura provvidenziale della storia.

 

Nazioni e frontiere

 

Il realismo del già e del non ancora, dell’«a ciascuno una regola e una via», ha un suo strumento particolare. Si chiama politica. A Babele, infatti, oltre al lavoro dell’interprete e del linguista – il mio lavoro – nasce anche quello del politico. E mostra fin da subito due volti contraddittori. Il primo re dell’umanità, Nimrod, a cui accenna Genesi 10,8–12, è indicato dalla tradizione ebraica (e anche da Dante nella Commedia e da molti commentatori islamici) come il responsabile del piano nefasto di costruzione della Torre. Fallito il suo tentativo proto-totalitario, che si ripresenta in ogni epoca della storia compresa la nostra, si affaccia però anche un secondo volto, più umile, di quella stessa politica. Esso consiste nel faticoso lavoro di mediazione tra i 72 popoli che si sono nel frattempo formati. Questo processo, ritmato anche da guerre e conflitti, porta alla divisione della terra in una serie di comunità politiche. Ancora una volta è l’etimologia a darci la chiave del testo ebraico. L’epoca successiva alla Torre è infatti quella del Patriarca Peleg, un nome simbolico che significa “ripartizione” «perché ai suoi tempi fu divisa la terra» (Gen 10,25). Nascono le nazioni, la città degli uomini direbbe Agostino, si comincia a parlare di confini e di territori, fino a quel momento assenti dal testo biblico. In questo nuovo quadro però la Genesi inserisce subito il primo germoglio della città di Dio, tant’è vero che il capitolo della Torre di Babele si conclude con un argomento che apparentemente non ha nulla a che vedere con quanto precede: la genealogia di Abramo e la sua emigrazione da Ur dei Caldei «per andare nella terra di Canaan» (Gen 11,31). Valicando i confini (tra Ur e Harran, tra Harran e Canaan, tra Canaan e l’Egitto, forse anche tra Canaan e l’Arabia dove si è rifugiato il figlio Ismaele), Abramo ne mostra la relatività. Non solo la politica, dunque, ma anche la storia della salvezza fa da subito i conti con i concetti di confine e di migrazione.

 

Spunti per la discussione

 

Facciamo adesso un fast forward vertiginoso da questa narrazione delle origini al nostro presente. L’appello islamo-cristiano che ha fornito lo spunto all’incontro di oggi afferma molto saggiamente che «non è compito immediato delle autorità religiose e dei fedeli cristiani e musulmani suggerire soluzioni tecniche alle sfide che l’emigrazione comporta». Non è compito, ma non è vietato. Così, tenendo fermi i due punti guadagnati fin qui (insuperabilità della dialettica tra comunità particolare e universalismo, e necessità di una soluzione politica, quindi non soltanto emergenziale o sicuritaria), come Oasis vorremo tentare nella giornata di oggi anche alcuni giudizi concreti. Elenco perciò telegraficamente le domande intorno a cui abbiamo strutturato il programma e la discussione odierna.

 

Innanzitutto, i processi storici, come ama ripetere il Cardinal Scola, non chiedono il permesso di accadere.  Le migrazioni sono tra di essi. Hanno origine nell’impressionante disparità di condizioni di vita che separa il sud dal nord del mondo e che negli ultimi decenni ha continuato ad acuirsi. Questa disparità tra popoli della fame e popoli dell’opulenza (per riprendere un’espressione di Paolo VI) può essere ridotta? E se sì, come e da chi? Dobbiamo affidarci alle mani invisibili del mercato o si può osare un progetto di sviluppo organico, che magari prenda in seria considerazione la portata dei cambiamenti climatici che hanno iniziato a manifestarsi con sempre maggiore intensità, ad esempio in Sahel e nel Mediterraneo?

 

Secondo, in Italia abbiamo bisogno dei migranti. È la demografia a dircelo in modo inesorabile. Naturalmente questo non significa che non si debbano perseguire politiche rivolte a risollevare il tasso di natalità nel nostro Paese, che si sta avviando a passi spediti verso il suicidio demografico. Tuttavia, dato che le politiche di sostegno alla natalità, se avranno successo (al momento non ne hanno), richiederanno degli anni, non ha senso opporre una realtà all’altra. Anzi, se la natalità andasse un po’ meglio, mi domando, se la nostra società italiana fosse un po’ meno vecchia, ci sarebbe forse meno apprensione per il fenomeno migratorio?

 

I processi – terzo punto – vanno governati. In altre parole, e torniamo ai 72 popoli di Babele, abbiamo bisogno di una politica migratoria perché – ha affermato Francesco sull’aereo che lo riportava da Marsiglia – «le migrazioni ben condotte sono una ricchezza […]. Pensiamo un po’ a questa politica migratoria, perché sia più feconda». Tra le varie politiche migratorie, le più efficaci nel lungo periodo sono quelle culturali e di sviluppo. Con le prime si creano o si riattivano legami di civiltà che tolgono all’altro l’aura di estraneità; con le seconde invece si rende reale il “diritto di restare” che – ha ricordato Papa Francesco – non è meno importante di quello di partire. Che cosa fanno l’Italia e l’Europa a questo proposito, ad esempio per valorizzare le comuni radici storiche, particolarmente evidenti nel caso della sponda sud del Mediterraneo?

 

Una politica migratoria – quarto punto – implica però anche nell’immediato di scegliere chi entra e chi no, come ha ricordato anche la Presidente della Commissione europea von der Leyen nella sua recentissima visita a Lampedusa. Altrimenti è il caos. Nel mondo ideale è possibile accogliere tutti, in quello reale bisogna fare i conti con il limite. Negli anni scorsi si citava spesso il Libano per la sua straordinaria accoglienza dei rifugiati siriani (1 milione su 4 milioni di abitanti), ma si dimentica di aggiungere che questa scelta, in realtà non voluta ma imposta dall’inesistenza dello Stato centrale, ha portato al collasso del Paese ospitante e a una situazione in cui «da un lato il Libano è sommerso di rifugiati, ma d’altro canto poggia strutturalmente sul lavoro dei migranti vulnerabili».[1] «Il problema – commenta Peter Harling, il fondatore di Synaps – è che molti rifugiati non voluti sono anche lavoratori essenziali. La dissonanza che ne segue è una caratteristica non solo del Libano, ma di molti Paesi occidentali». È quello che desideriamo per il nostro futuro? Se si rifiuta l’immigrazione illegale e lo sfruttamento, che canali si possono attivare per quella legale? Che cosa si sta facendo per ampliare i corridoi umanitari e per offrire la necessaria protezione a chi ne ha diritto? E da ultimo, come si pongono le comunità cristiane e musulmane di fronte a queste sfide?

 

Queste sono solo alcune delle molteplici questioni che si affacciano, perché le migrazioni sono in realtà una cartina di tornasole che fa emergere molte contraddizioni delle nostre società, contraddizioni a cui abbiamo fatto così l’abitudine da non vederle più, ipnotizzati dal flusso ininterrotto di immagini, parole e video che scandisce le nostre giornate.

 

La postura giusta

 

Nel consegnare queste domande ai nostri ospiti, vorrei concludere con una suggestione. Sappiamo tutti per esperienza che non è sempre facile valutare oggettivamente le proprie capacità. Fin dove possiamo spingerci? Ci sono molte cose che ci appaiono impossibili, finché, messi alle strette, troviamo in noi stessi delle risorse di cui non sospettavamo l’esistenza. Vale per ciascuno di noi, vale per le famiglie, vale anche per le nazioni. Questo sembra dipendere dal fatto che, come scrisse il celebre moralista La Rochefoucauld, noi uomini siamo più bravi a risolvere i problemi quando si presentano che a pianificare le situazioni a tavolino.

 

Penso sia anche per questo che sia il Cristianesimo che l’Islam insistono così fortemente sulla virtù dell’ospitalità. Essa, infatti, ci costringe a un’eccedenza. Rompe poco o tanto le nostre abitudini e così rivela, prima di tutto a noi stessi, ricchezze ignorate. Ci mette nella postura giusta rispetto alla realtà. Non sarà un caso se la storia di Abramo, nel suo peregrinare tra i territori e i popoli del suo tempo, è ritmata dal motivo dell’ospitalità verso lo straniero che si rivela segno del divino, pensiamo prima di tutto ai tre viandanti di Mamre, a cui accenna anche Corano 51,24–27. Ma pensiamo anche alla grandiosa scena laica dell’accoglienza di Telemaco ad Atena presso la corte di Itaca, da cui si mette in moto il meccanismo drammatico dell’Odissea.[2]

 

Se dunque la dialettica dentro-fuori è in certa misura insuperabile, l’ospitalità interviene a spostare sempre un po’ oltre il confine del possibile, a rimettere in discussione alcune certezze, a cominciare da come debba essere organizzata la gestione della nostra casa (“economia” in greco). È quell’atteggiamento di fondo di cui abbiamo bisogno per impostare nel modo giusto non solo la questione dei migranti, ma anche quella del futuro delle nostre società. È la via maestra per riscoprire la nostra umanità, fatta di differenze chiamate all’unità.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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[1] Si veda l’analisi di Synaps Team: https://www.synaps.network/post/lebanon-syrian-workers
[2] Odissea I, 121–143, «E corse per l’atrio irato nell’animo. Non sopportava che sulla porta un ospite a lungo attendesse» (trad. di Enzio Cetrangolo, Sansoni, Firenze 1990).