Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:09

Giovedì Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno raggiunto uno storico accordo di pace: gli EAU sono il primo Paese del Golfo a normalizzare i rapporti con Israele, che in cambio rinuncerà alle pretese di annessione di parte della Cisgiordania. Dopo Egitto, Giordania e Mauritania gli Emirati sono il quarto Paese arabo a stabilire relazioni diplomatiche con Israele.

 

L’accordo è stato mediato dall’amministrazione Trump, che, come ricorda il Washington Post, «ha fatto dell'accordo di pace in Medio Oriente un pilastro della propria politica estera» e sicuramente sarà un ottimo biglietto di presentazione per le elezioni di novembre. Il trattato, immediatamente condannato dall’Autorità palestinese – che ha detto che i leader emiratini non hanno nessun diritto a rappresentare i palestinesi – non solo segna un successo per Trump, ma permette a Israele ed Emirati di “uscire allo scoperto” e stringere legami più solidi.

 

«Trump ha portato allo scoperto un’alleanza di fatto che da anni è conveniente per entrambe le parti», leggiamo sul Foglio. Infatti Israele ed Emirati sono stati alleati contro l’Iran per almeno un quarto di secolo, e negli ultimi anni avevano intensificato la loro cooperazione; l’accordo – incentrato sui questioni commerciali, turistiche e securitarie – formalizza dunque una cooperazione che esisteva già,

 

A livello interno ogni leader ha però presentato l’accordo in modo diverso.

 

Netanyahu ha dichiarato che l’annessione dei territori palestinesi non sarà del tutto archiviata, ma secondo Haaretz la questione è «morta e sepolta»; in primis perché il leader israeliano non godeva di un grande appoggio sulla questione dell’annessione e poi perché quest’ultima creerebbe solo caos nella regione, quando è invece più probabile che nei prossimi anni altri Paesi del Golfo seguiranno la mossa del leader emiratino Mohammad bin Zayed. Inoltre, grazie all’accordo Netanyahu forse eviterà la quarta tornata elettorale in due anni.

 

Per gli Emirati Arabi Uniti la rinuncia all’annessione palestinese era una questione cruciale, spiega Axios. L’ambasciatore emiratino a Washington Youssef al-Oteiba aveva scritto per i media israeliani che Tel Aviv doveva scegliere tra la normalizzazione e l’annessione. In realtà, come fa notare Kristian Ulrichsen, «su Twitter, Mohammed bin Zayed non ha fatto riferimento alla “piena normalizzazione” di cui ha parlato Trump, ma piuttosto a una “cooperazione e definizione di una tabella di marcia verso l'instaurazione di un rapporto bilaterale”, mentre la sua dichiarazione in arabo è stata ancora più prudente».

 

Leggendo il New York Times apprendiamo che per le autorità emiratine la questione dell’annessione è stata “messa in pausa” fino alle elezioni americane, in termini pratici quindi se ne riparlerà dopo novembre, mentre il governo emiratino dice di aver costretto Israele a sospendere l’annessione.

 

Potrebbe sembrare che per gli EAU il guadagno sia esiguo, ma in verità «Abu Dhabi […] sottolinea che questo passaggio è la dimostrazione della propria moderazione, ossia del loro essere anti-estremisti e tolleranti. Un concetto fondamentale, attorno a cui gli emiratini hanno costruito tutta la loro narrazione internazionale, la loro politica estera e la loro immagine. Era un passo atteso, si stava soltanto aspettando il contesto che avrebbe potuto permetterlo», ha detto Cinzia Bianco a Formiche.net. Gli Emirati subiranno sicuramente critiche dal mondo arabo, ma «si sentono abbastanza forti da affrontare le ricadute», leggiamo sempre sul Foglio.

 

L’inizio di una nuova era? Al momento restano dei punti interrogativi, per esempio su dove sorgerà l’ambasciata emiratina, se a Tel Aviv o a Gerusalemme e se l’accordo sia stato siglato non solo in funzione anti-iraniana ma anche in funzione anti-turca per limitare l’espansionismo di Erdogan. Ankara e Teheran hanno condannato l’accordo, mentre nel Golfo al momento solo il Kuwait sembra resistere la tendenza normalizzatrice promossa dagli Stati Uniti e (anche se per ora in minor misura) dagli altri regni del Golfo.

 

Libano dopo l’esplosione. E ora?

 

Nella sera di martedì a Beirut il suono delle campane si è mescolato alla voce del muezzin per ricordare tutte le vittime dell’esplosione che una settimana prima aveva devastato la città. Non si sa ancora che cosa abbia appiccato il primo incendio, ma insieme al nitrato d’ammonio che ha causato l’esplosione è possibile che ci fossero anche altri materiali combustibili, come per esempio del diluente per vernici, scrive il Washington Post.

 

Lunedì il primo ministro Hassan Diab, che era arrivato al governo a gennaio di quest’anno, dopo intense manifestazioni anti-governative ha rassegnato le dimissioni con un discorso nel quale ha incolpato della tragedia la corruzione endemica del Paese. Venerdì 7 agosto il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah aveva dichiarato che il Partito di Dio non aveva niente a che fare con il deposito di nitrato di ammonio nel porto di Beirut. I sospetti nei confronti di Hezbollah tuttavia permangono, mentre da ulteriori indagini è emerso che il governo era stato avvertito anche a luglio sulla pericolosità del deposito, circa due settimane prima dell’esplosione, scrive Reuters.

 

Quello che tutti si chiedono ora è: che cosa attende il Libano? Intanto, dopo la visita del presidente francese Emmanuel Macron anche gli Stati Uniti si sono mobilitati per portare il loro messaggio, cioè che i libanesi «devono avere voce in capitolo nella scelta dei loro rappresentanti al potere», scrive L’Orient-Le Jour. Tuttavia nemmeno gli americani finora hanno avanzato delle proposte concrete per il Paese, anche se è possibile immaginare che verranno chieste riforme strutturali e forse sarà esercitata una maggiore pressione nei confronti di personalità vicine a Hezbollah, continua l’articolo.

 

Come spiega Foreign Policy, Hezbollah è uno dei più potenti attori non statali al mondo, e al momento non è possibile escluderne il coinvolgimento nell’esplosione. In tal senso, «le democrazie occidentali ancora interessate ad aiutare il popolo libanese dovrebbero insistere su un'indagine internazionale e trasparente sulle esplosioni di Beirut».

 

Il tipo di Stato che la società civile libanese chiede, commenta Marina Calculli su Il Manifesto, è uno Stato egalitario, più rispettoso del territorio, più centralizzato e non confessionale. Ma questa volontà, manifestatasi con mesi di proteste, si scontra con le visioni di Libano che hanno l’attuale élite politica, Hezbollah, e gli attori esterni come Francia e Stati Uniti: «Se una nuova negoziazione del patto sociale appare inevitabile dopo l’esplosione del 4 agosto, quel che spicca è lo straordinario scollamento tra lo Stato rivendicato dalla società e quello che dall’alto e dall’esterno cerca di imporsi ancora una volta sul Libano».

 

Nonostante le dimissioni di Diab e di tutto l’esecutivo, il governo continuerà a svolgere le proprie mansioni ad interim, anche se la formazione di un nuovo governo in tempi brevi sembra altamente improbabile. Per il New York Times il peso della risposta immediata all’emergenza continuerà a ricadere sulle organizzazioni non governative, sui volontari locali e sugli aiuti internazionali, visto che il bisogno di aiuto alla popolazione è immediato. «Ma» – conclude il quotidiano americano – «ora è in gioco il futuro a lungo termine del sistema di governo, non solo la risposta immediata alle emergenze. E molti credono che il Paese debba guardare al di fuori della sua élite di governo per un vero cambiamento».

 

Tensioni nel Mediterraneo orientale

 

Analizzando la politica estera della Turchia, c’è chi parla di “neo-ottomanismo” e chi invece sostiene che la politica turca non sia espansionista, ma «pragmatica e di difesa». Secondo Al Jazeera, sebbene la presenza turca vada dal Caucaso al Golfo al Corno d’Africa, a dettare le azioni esterne della Turchia non sarebbe un’ideologia neo-ottomana. La politica estera di Ankara sarebbe invece determinata da tre considerazioni: «stabilità interna e integrità territoriale; la percezione di una manaccia da parte di rivali regionali che stanno riempiendo il vuoto lasciato dagli Stati Uniti in Medio Oriente; l'indipendenza energetica».

 

Qualunque etichetta gli si voglia dare, il coinvolgimento turco in più scenari geopolitici sta creando diverse tensioni, l’ultima delle quali nel Mediterraneo orientale con la Grecia e l’Egitto. La settimana scorsa Atene e il Cairo avevano siglato un accordo che unisce le loro zone economiche esclusive nel Mediterraneo per limitare l’influenza di Ankara nella regione. Il trattato consolida e amplia i diritti di Grecia ed Egitto di trivellare ed esplorare le miglia di mare che dividono i due Paesi. Una chiara risposta all’accordo tra Turchia e Governo nazionale libico siglato a novembre 2019, che dava ad Erdogan il controllo di un’area nel Mediterraneo orientale. La disputa nasce quindi per il controllo dei giacimenti di gas scoperti in questa zona negli ultimi anni: nel Mediterraneo orientale molte isole greche si trovano vicino alle coste della Turchia, che sostiene di disporre di una limitata porzione di acque territoriali in proporzione alle proprie coste.

 

Facendo riferimento all’accordo con il GNA, la Turchia ha inviato verso l’isola greca di Kastellorizo la nave di ricognizione Oruc Reis accompagnata da navi da guerra, infiammando la Grecia, racconta la BBC. L’Unione europea ha subito invitato al dialogo e ha proposto un vertice straordinario a Bruxelles venerdì, ma nell’attesa Emmanuel Macron è passato all’azione inviando due navi militari francesi nel Mediterraneo orientale, confermando l’antagonismo franco-turco anche in questo teatro geopolitico oltre che in quello libico. La più recente mossa turca riguarda l’alleanza con Malta proprio nel contesto della guerra in Libia, di cui parla Al Monitor. Così facendo Erdogan spera di «ostacolare gli sforzi dell'UE guidati da Francia e Grecia per bloccare le mosse turche in Libia» e «assicurarsi una base aerea vicino alla Libia per contrastare una possibile operazione militare egiziana ed espandere le sue operazioni militari nel Paese dilaniato dalla guerra al fine rompere l'impasse su Sirte e al-Jufra».

 

In un paragrafo

 

Egitto vs Etiopia

 

In risposta alla riconversione di Santa Sofia in moschea da parte di Erdogan, al-Sisi in Egitto ha deciso di stanziare due milioni e mezzo di dollari nella ristrutturazione del monastero di Santa Caterina nella regione del Sinai, racconta Al Monitor, con una decisione che mette in evidenza come il rais e il sultano siano uno la nemesi dell’altro. Ma i problemi maggiori per l’Egitto al momento si trovano al proprio confine meridionale: Foreign Affairs spiega come la disputa sulla diga GERD sul Nilo metta a rischio la democrazia e la stabilità regionale. Tensioni tra Egitto ed Etiopia si sono però registrate anche a seguito della presunta volontà egiziana di stabilire una base militare nello Stato auto dichiarato del Somaliland.

 

Le piogge torrenziali in Yemen

 

Negli ultimi giorni sullo Yemen si sono abbattute piogge monsoniche che hanno causato più di 170 morti e distrutto alcuni siti dell’Unesco riconosciuti come patrimonio dell’umanità. In particolare, le tipiche case bianche e marroni del centro della capitale Sana’a sono collassate, ma anche la città di Shibam ha subito parecchi danni. Le alluvioni sono solo l’ennesima tragedia che ha colpito il Paese, dove finora la guerra ha «ucciso più di 100.000 persone, lasciato l'80 per cento della popolazione dipendente dagli aiuti e spinto milioni di persone sull'orlo della carestia». Dal fronte, Middle East Eye scrive che un video trapelato a inizio mese mette in evidenza le divisioni tra Arabia Saudita e Islah, il braccio dei Fratelli musulmani in Yemen che aveva deciso di schierarsi con la coalizione a guida saudita contro gli houthi. Nel video, il leader dell’ala militare di Islah nella provincia di Taiz, Abu Farnah Salem, prende in giro i sauditi e dice che attaccherà le forze degli Emirati Arabi Uniti stanziate nella città di Mocha.

 

In una frase

 

Dopo giorni di combattimento, alcuni miliziani dello Stato islamico hanno ottenuto il controllo del porto di Mocimboa da Praia in Mozambico (BBC).

 

Due ufficiali iracheni sono stati uccisi da un drone turco durante un attacco nel nord dell’Iraq, dove si trovano alcuni combattenti del PKK (Al Jazeera).

 

Il caldo anomalo che si è registrato a Baghdad nei giorni scorsi è un’anticipazione di come i cambiamenti climatici trasformeranno il Medio Oriente e altre parti del mondo (Washington Post).

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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