Vent’anni di errori occidentali nella terra dei Talebani
Ultimo aggiornamento: 10/10/2022 15:47:08
Gilles Dorronsoro, Le gouvernement transnational de l’Afghanistan. Une si prévisible défaite, Karthala, Paris 2020.
Nei giorni del caotico ritiro americano dall’Afghanistan, ha avuto una certa fortuna la metafora del “cimitero degli imperi”. Secondo la tesi racchiusa in quest’immagine, il Paese centroasiatico sarebbe reso semplicemente inconquistabile dalla conformazione del suo territorio e dalla tempra della sua popolazione. Così, le potenze che nel corso della storia si sono cimentate nell’impresa, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti passando per l’Unione sovietica, sono andate tutte incontro allo stesso tracollo. Per quanto suggestiva, la lettura è parziale (in realtà l’Afghanistan ha fatto parte di molti imperi) e soprattutto estremamente comoda: asseconda infatti la pigrizia intellettuale di chi si accontenta degli slogan e solleva politici e decisori dalle loro responsabilità. Non è un caso che lo stesso presidente Biden si sia rifugiato nel cliché: nessuna forza militare, per quanto grande – ha detto del suo discorso del 16 agosto – sarebbe in grado di portare stabilità, unità e sicurezza in un Afghanistan che nella storia è noto per essere, appunto, «il cimitero degli imperi».
Non mancano tuttavia gli strumenti per farsi un’idea più approfondita e meno stereotipata di vent’anni di occupazione del Paese. Uno di questi è il volume Le Gouvernement transnational de l’Afghanistan. Une si prévisible défaite, pubblicato all’inizio del 2021 da Karthala, quindi prima dell’improvvisa ritirata da Kabul. Il suo autore, il politologo francese Gilles Dorronsoro, può vantare una lunga attività di ricerca sul campo e una carriera da studioso inascoltato. È lui stesso a spiegarlo nella prefazione: «Questo libro nasce da una reazione etica, un rifiuto netto anche prima di essere argomentato, davanti al modo in cui è stata condotta la guerra d’Afghanistan. Tre anni a Washington a formulare raccomandazioni in un think tank, il Carnegie Endowment for International Peace, mi hanno immunizzato dall’idea della competenza degli apparati statali. La qualità mediocre del dibattito – e la sua quasi assenza in Europa – solleva peraltro seri interrogativi sul funzionamento dell’expertise e delle pratiche delle democrazie in tempo di guerra. L’ottimismo obbligatorio a Washington – two teaspoons of wishful thinking – nasconde troppo spesso l’incoerenza delle politiche e la prevalenza degli interessi privati sul bene pubblico» (p. 9).
Con una scelta che contribuisce all’originalità del volume, Dorronsoro collega gli errori della coalizione occidentale alla fallacia dei suoi presupposti epistemici: la prima parte del libro è infatti dedicata all’ “antropologia immaginaria” con cui gli americani e i loro alleati hanno interpretato la società afghana. A mancare non erano le informazioni sul Paese, quanto la loro qualità. Il consistente numero di esperti – antropologi, politologi, economisti, giuristi, consulenti in sviluppo e contro-terrorismo – giunti in Afghanistan sulla scia dell’occupazione militare ha infatti prodotto un sapere mai così «abbondante e disponibile»: ricerche, pubblicazioni, report e statistiche, finalizzati a orientare e valutare i programmi elaborati e realizzati da enti internazionali e ONG. Dominato da un’ossessione neopositivista per la misurazione, questo sapere fatto di metrics e benchmark ha generato una visione fortemente distorta della realtà sul terreno e ispirato un serie di interventi rivelatisi clamorosamente errati, impedendo per esempio di capire che la riduzione del numero degli incidenti causati dalla guerriglia in determinate zone non indicava, come credevano gli americani, il miglioramento della sicurezza dell’area, ma il progresso della “pacificazione” talebana.
La débâcle intellettuale ha posto così le premesse del fiasco politico, a cui è dedicata la seconda parte del volume. Nel 2001 l’emirato talebano viene liquidato in pochi mesi. Tuttavia, la sua rinascita come movimento insurrezionale spinge la coalizione occidentale a optare per una vera e propria operazione di state-building, diventato un «leitmotiv della comunità internazionale tra il 2004 e il 2014» (p. 125). Ma l’assenza di una visione chiara degli obiettivi da raggiungere, una lettura inadeguata della società e un’amministrazione scoordinata compromettono ogni possibilità di successo. Già minato da un esercizio estremamente personalizzato del potere, il nuovo Stato afghano è ulteriormente indebolito dalla pletora di organismi internazionali presenti nel Paese, che si sovrappongono alle istituzioni locali creando un labirinto decisionale e amministrativo. Questo “governo transnazionale” inefficiente e ridondante crea un fossato tra le autorità locali e la popolazione, favorendo distorsioni e abusi di ogni genere.
Non va meglio sul piano delle operazioni militari, analizzate nella terza parte del libro. La coalizione internazionale non era infatti preparata a impegnarsi in una lunga ed estenuante azione di contro-guerriglia. Le truppe americane non facevano i conti con una situazione simile dai tempi della guerra in Vietnam, mentre la maggior parte degli altri Paesi coinvolti in Afghanistan – in particolare Francia, Germania, Italia e Spagna – ha adottato una strategia puramente difensiva, il cui obiettivo era la limitazione delle perdite. E anche la sproporzione tra i mezzi messi in campo dalle due parti in conflitto si è rivelata un boomerang. Le eliminazioni mirate coi droni, moltiplicatesi soprattutto a partire dalla presidenza Obama, non hanno impedito un rapido ricambio negli effettivi dei Talebani, provocando inoltre un alto numero di vittime civili. La costituzione e il finanziamento di milizie locali da parte della CIA non solo non ha potuto arrestare l’ascesa talebana, ma ha accresciuto nel Paese caos e violenza, producendo per reazione l’alienazione di parti consistenti della popolazione.
Preso atto del colossale fallimento, rimane da capire quali lezioni se ne possano ricavare. Dopo aver messo in guardia dai difetti di un empirismo esasperato, Dorronsoro trae alcune considerazioni che trascendono i confini del Paese asiatico: «I conflitti recenti – Iraq, Afghanistan, Siria e Libia, Sahel – segnano un punto di flessione legato al declino dei paesi occidentali. Lo dimostrano i limiti del coinvolgimento della NATO in Afghanistan o di quello francese in Mali. Così, i costi e gli effetti sempre più incontrollabili di queste operazioni militari sono un sintomo tra gli altri di una tendenza di lungo periodo, in cui la trasformazione della superiorità militare in vantaggio politico diventa notevolmente aleatoria, almeno per le potenze occidentali» (p. 256-257).
Michele Brignone
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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