La moschea-università egiziana è spesso definita “il Vaticano dell’Islam”. Questa antica istituzione è sicuramente tra i più prestigiosi centri del sapere musulmano nel mondo, ma attribuirle un primato nell’interpretazione della religione significa non comprendere la natura dell’autorità nel sunnismo.
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 10:05:37
Non è raro che la moschea-università dell’Azhar sia definita il “Vaticano dell’Islam”, e il suo grande imam “la massima autorità dell’Islam sunnita”. Se queste espressioni vogliono comunicare il prestigio di cui gode questa istituzione egiziana, esse nascondono però un’incomprensione di fondo sulla natura dell’autorità sunnita che, diffusa e scarsamente istituzionalizzata, non prevede né magisteri né gerarchie. Come scrivevano più di dieci anni fa Malika Zeghal e Marc Gaboriau «la pretesa supremazia [dell’Azhar] è continuamente rimessa in questione dall’esistenza di un campo religioso oggi estremamente plurale – e per questo concorrenziale, sia in Egitto […] sia a livello globale»[1]. Tuttavia, facevano notare i due studiosi, «la centralità dei grandi luoghi storici di produzione e di trasmissione del sapere religioso mostra che è possibile sfumare le ipotesi secondo le quali l’autorità religiosa musulmana sarebbe oggi frammentata e decentrata, in particolare attraverso il fenomeno di autorità religiose su internet. La riforma più incisiva ebbe luogo nel 1961, quando Nasser fece dell’Azhar uno strumento della sua politica religiosa, imprimendole una spinta modernizzatrice La persistenza delle autorità religiose tradizionali e la loro capacità di adattamento suggeriscono allora che si è probabilmente sopravvalutato il fenomeno dell’auto-proclamazione da parte di autorità religiose nuove rappresentate dagli islamisti e si sono trascurati fenomeni importanti di re-istituzionalizzazione dell’autorità religiosa»[2]. Il protagonismo dell’Azhar nel contesto creato prima dalla rivoluzione del 2011 e soprattutto dall’esplosione della violenza jihadista conferma questa tendenza. Tra l’altro, l’autorevolezza che media e studiosi occidentali attribuiscono all’Azhar è ormai rivendicata dalla stessa moschea egiziana. Essa non arriva ad autoproclamarsi “massima autorità dell’Islam sunnita”, ma, quando giornalisti e uomini politici occidentali le assegnano questo titolo, non esita a rilanciare le loro parole sul proprio sito e attraverso i social media[3].
Un passato glorioso, un difficile rinnovamento
Due date campeggiano sullo stemma dell’Azhar: 972 e 391. Indicano, rispettivamente secondo il calendario giuliano e quello islamico, l’anno di fondazione della moschea da parte della dinastia fatimide. In questo modo, l’Azhar colloca la propria autorità innanzitutto nella profondità delle sue radici, anche se, per un’ironia della storia, queste affondano nello sciismo ismailita in cui si riconoscevano i fatimidi. La moschea passò al sunnismo sotto gli ayyubidi (1174-1250), mentre sotto i mamelucchi (1250-1517) si consolidò il suo ruolo di istituzione per la trasmissione del sapere, che continuò anche durante il periodo ottomano (1517-1798). Alla fine del XVII secolo iniziò inoltre a emergere la figura dello Shaykh al-Azhar, che si sarebbe poi imposta nel corso del XX secolo come personalità religiosa preminente[4].
Durante l’occupazione napoleonica dell’Egitto (1798-1801), che convenzionalmente simboleggia l’impatto del mondo musulmano con la modernità europea, gli ulema egiziani non soltanto non persero la propria influenza sulla società, ma anzi l’accrebbero, tanto da risultare determinanti per l’affermazione di Muhammad Ali come governatore autonomo[5].
Questo stato di cose durò poco. La politica modernizzatrice e accentratrice messa in atto da Muhammad Ali incise duramente sullo status degli esperti religiosi, che persero risorse e prestigio, vedendosi affiancati e persino scavalcati da nuove élite legate agli ambiti della vita moderna. Gli ulema reagirono piuttosto passivamente, e allo scontro con il nuovo potere preferirono il ripiegamento nella propria fortezza. Per l’Azhar iniziò allora una fase di declino materiale e simbolico. Ma se in un primo momento gli ulema della moschea continuarono indisturbati – benché contrariati – a seguire il loro stile di vita tradizionale, essi furono ben presto chiamati direttamente in causa e additati come i responsabili del ritardo della società egiziana e dell’Islam in generale. È in questo contesto che si aprì il dibattito sulla necessità di riformare l’Islam, e di conseguenza anche l’organizzazione e i metodi di insegnamento dell’Azhar. È la violenza perpetrata dall’Isis in nome dell’Islam a porre la moschea egiziana al centro dell’attenzione internazionale Al centro di questo dibattito si trovava una coppia di concetti, taqlīd e ijtihād, tratti dall’arsenale metodologico dei giuristi musulmani. Il primo, che può essere tradotto con “imitazione”, ma che ha finito per rendere in generale l’idea di tradizione, esprime l’obbligo di attenersi all’opinione dei giuristi del passato; il secondo, letteralmente “sforzo interpretativo”, indica invece la possibilità, per il giurista particolarmente qualificato, di attingere direttamente alle fonti interpretandole. La tensione tra questi due elementi percorre tutta la storia dell’Islam. Tuttavia, nel discorso riformista otto-novecentesco, essa assunse una dimensione più ampia. Il taqlīd fu associato all’imitazione cieca, e quindi all’immobilismo di una religione e di una società incapaci di rinnovarsi, mentre l’ijtihād fu inteso come il metodo attraverso il quale restituire alla ragione i suoi diritti e operare una rilettura generale dell’islam. Gli ulema dell’Azhar finirono per essere identificati con il taqlīd, che essi difendevano anche come argine al caos interpretativo. L’ijtihād divenne invece la parola d’ordine dei riformisti, dal pioniere Rifā‘a al-Tahtāwī a Jamāl al-Dīn al-Afghānī e ai suoi discepoli Muhammad ‘Abduh e Rashīd Ridā[6].
Il processo di riforma
In ogni caso alla fine anche l’Azhar fu investita dal processo di riforma. Tra il 1872 e 1930 una serie di provvedimenti razionalizzarono l’organizzazione della moschea, ne standardizzarono i programmi, introdussero dei meccanismi di accertamento formale delle competenze degli ulema e avviarono la trasformazione da madrasa a università moderna, con la creazione delle tre facoltà di teologia (usūl al-dīn), diritto (sharī‘a wa qanūn) e lingua araba. La resistenza degli ulema rallentò invece la riforma dei contenuti e dei metodi d’insegnamento, ma questo non impedì un rinnovamento della moschea. Nel periodo compreso tra il 1927 e il 1963 infatti, almeno tre dei suoi grandi imam, Mustafā al-Marāghī, Mustafā ‘Abd al-Rāziq e Mahmūd Shaltūt, furono personalità significative del riformismo islamico. Non tutti collocano la moschea nel campo dei “moderati”. Molti intellettuali egiziani contestano i contenuti dei suoi insegnamenti La riforma più incisiva ebbe luogo però nel 1961, quando Gamal ‘Abd al-Nasser fece dell’Azhar uno strumento della sua politica religiosa, imprimendole una forte spinta modernizzatrice. La moschea fu nazionalizzata e i suoi ulema, trasformati in funzionari dello Stato, persero la propria indipendenza. Furono anche riformati gli istituti d’insegnamento primario e secondario e l’università, con l’introduzione di nuove discipline di studio e l’aggiunta di nuove facoltà non-religiose, come medicina e ingegneria. Fu inoltre creata l’Accademia delle ricerche islamiche, un corpo di ulema incaricati di studiare la posizione dell’Islam su questioni contemporanee. La nuova configurazione assunta dalla moschea-università decretava la sorveglianza dello Stato sull’autorità degli ulema, ma allo stesso tempo, inserendoli in una gerarchia amministrativa e dotandoli di risorse adeguate, ne accentuava il carattere di specialisti della religione, assegnando loro anche un preciso ruolo politico. Quando negli anni ’70 agli ulema viene concesso di uscire dalla «cittadella amministrativa» imposta dal regime di Nasser, essi sfruttano la posizione monopolistica offerta dalla modernizzazione del 1961 per ritrovare un più ampio margine di manovra, soprattutto quando i regimi di Anwar el-Sadat e Hosni Mubarak li mobilitano in funzione anti-islamista o come arbitri tra intellettuali laici e islamisti[7].
Tra rivoluzione e violenza
La rivoluzione del 2011 ha colto la moschea di sorpresa. Il suo Shaykh, Ahmad al-Tayyeb, era stato nominato l’anno prima da Mubarak e non poteva dunque vantare molte credenziali nel momento in cui la piazza chiedeva “la caduta del regime”. Tuttavia, dopo una cautela iniziale, al-Azhar approfitta del momento rivoluzionario per rivendicare una maggiore indipendenza dallo Stato. Inoltre, lo Shaykh promuove una serie di dichiarazioni, frutto della collaborazione tra ulema e intellettuali, con cui la moschea prende posizione su alcuni temi chiave della fase post-rivoluzionaria, come l’ordinamento dello Stato e il suo rapporto con la religione e il regime delle libertà. Poi, quando i Fratelli musulmani arrivano al potere, l’Azhar, sempre nella figura del suo Shaykh, si erge come contro-potere religioso di fronte alle pretese egemoniche dell’organizzazione islamista.
Ma se la rivoluzione permette all’Azhar di accrescere il proprio margine di manovra sul piano interno, è la violenza perpetrata dall’Isis in nome dell’Islam a porre la moschea egiziana al centro dell’attenzione internazionale, soprattutto dopo il famoso appello del presidente Abd al-Fattah al-Sisi a compiere una “rivoluzione” nel discorso religioso islamico. Al-Azhar in realtà si è mostrata piuttosto tiepida di fronte alle richieste del presidente, probabilmente perché non vuole che sia il potere politico a dettarle le priorità e le modalità con cui interpretare la religione. Così, nel 2016 ha contestato il progetto del governo di uniformare i sermoni pronunciati nelle moschee e nel 2017 si è opposta alla richiesta di Sisi di riformare il cosiddetto “divorzio orale”[8], adducendo la legittimità islamica di questa pratica.
Allo stesso tempo però, i vertici dell’Azhar non si sono sottratti al dibattito sulla riforma del discorso religioso, pretendendo anzi, in nome della loro autorevolezza e competenza, di fissarne i criteri e gli obiettivi. In un editoriale pubblicato su «Sawt al-Azhar» (“La voce dell’Azhar”), il settimanale della moschea, il grande imam al-Tayyeb ha scritto per esempio che rinnovamento non significa né l’eliminazione della religione, come vorrebbero i laicisti, né il mero ritorno alla purezza delle origini (una critica non troppo velata ai salafiti). Esso, partendo dal Corano e dalla sunna deve piuttosto integrare «i concetti dell’epoca contemporanea» facendoli interagire con la tradizione islamica. In secondo luogo, il rinnovamento deve operare un’apertura verso l’altro, per creare un quadro culturale comune. L’imam ha tuttavia aggiunto che la priorità è discutere i concetti utilizzati dai movimenti estremisti per legittimare la loro azione, come takfīr (la dichiarazione di miscredenza), jihād e califfato. Infine, l’articolo chiude con un’importante notazione sull’ijithād, che è la premessa di ogni tentativo di riforma. Scrive al-Tayyeb che lo sforzo interpretativo deve essere collettivo, perché il tempo dell’ijtihād individuale è passato e oggi, di fronte alla molteplicità delle competenze che esso richiede, non è più possibile praticarlo “in solitaria”. In questo modo l’imam delegittima le interpretazioni personali dell’Islam e assegna alle istituzioni religiose il compito di far evolvere il discorso religioso[9]. Secondo lo Shaykh al-Tayyeb, non è più possibile praticare lo sforzo interpretativo dei testi “in solitaria”. Così, l’imam delegittima le interpretazioni personali dell’Islam Le parole dello Shaykh si sono concretizzate in alcuni gesti: da un lato le conferenze internazionali organizzate dall’Azhar con la partecipazione di autorità musulmane e cristiane, tra cui l’evento che ha visto la partecipazione simultanea di Papa Francesco, del Papa copto Tawadros II e del Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo; dall’altra una nuova disciplina nei confronti degli ulema dell’Azhar che ammiccano al linguaggio e alle pratiche estremiste. È il caso del rettore dell’università, Ahmad Hosnī, rimosso per aver dichiarato apostata Islam Behery, un intellettuale già condannato per blasfemia dopo che aveva criticato alcuni testi della tradizione islamica.
Tre interrogativi
Restano tuttavia alcune incognite sull’efficacia delle iniziative intraprese dalla moschea. La prima riguarda la frammentazione e la pluralizzazione dell’autorità religiosa. L’imam Bin Bayyah, che insieme ad al-Tayyeb presiede il “Consiglio dei saggi musulmani”, una rete transazionale di ulema che ha lo scopo di “promuovere la pace all’interno dell’Islam”, ha affermato che la umma islamica si trova oggi in una situazione di «tashardhum marji‘ī»[10]: una locuzione che, con qualche libertà, potremmo tradurre “balcanizzazione dell’autorità”. È vero, come scrivevamo all’inizio, che oggi si assiste a un ritorno delle autorità istituzionali. Ma anche queste possono entrare in concorrenza, come mostra il prestigio internazionale di cui godono da una parte alcuni ulema sauditi e l’università di Medina, polo di irradiazione del wahhabismo, e dall’altra l’Azhar, con la sua vocazione a rappresentare un islam “mediano” e plurale[11]. In realtà, questa concorrenza giova alla stessa Azhar, che, se non può, come vorrebbe qualche osservatore occidentale, presentarsi come la massima autorità per i musulmani, può però accreditarsi come riferimento di un Islam aperto e dialogante.
Il problema – ed è la seconda incognita – è che non tutti sono disposti a collocare la moschea egiziana nel campo dei “moderati”. Molti intellettuali egiziani contestano infatti i contenuti dei suoi insegnamenti, accusati di essere non meno intransigenti e minacciosi di quelli fondamentalisti, e criticano le sue esitazioni nel condannare l’estremismo.
Ma la questione forse decisiva è il rapporto tra l’autorità discorsiva degli ulema e l’azione dei militanti jihadisti. Questi, più che un sapere religioso, cercano infatti una prassi (secondo l’influente ideologo islamista Sayyid Qutb “il vero ijtihād è il jihād”) e sono perciò insensibili alle riflessioni degli ulema. Lo ha sottolineato con precisione il sociologo Hamit Bozarslan, rifacendosi alle osservazioni di un grande storico medievale: «Questi dottori dal sapere tanto raffinato, capaci di ricamare […] sulle circostanze che possono invalidare un digiuno, non hanno capito la verità semplice che Ibn Khaldun aveva perfettamente colto al suo tempo: la da‘wa (chiamata, causa o ideologia) […] deve essere rustica per potere essere memorizzata; deve essere direttamente assiologica e non teorica o teologica»[12]. È questa la sfida più grande, anche per l’Azhar.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] Marc Gaborieau, Malika Zeghal, Autorités religieuses en Islam, «Archives des sciences sociales des religions» 125 (febbraio-marzo 2005), pp. 5-21, qui 14.
[2] Ivi, p. 13.
[3] Lo ha fatto per esempio quando la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha definito lo Shaykh al-Azhar “massima autorità sunnita del mondo”, ma anche in numerose altre occasioni, si veda http://bit.ly/2qY7tFn.
[4] Daniel Crecelius, “The Emergence of the Shaykh al-Azhar as the Pre-Eminent Religious Leader in Egypt”, Convegno internazionale sulla storia del Cairo (27 marzo-5 aprile 1969), Ministero della cultura, Il Cairo 1972.
[5] Id., Nonideological Responses of the Egyptian Ulama to Modernization, in Nikki R. Keddie (a cura di), Scholars, Saints and Sufis. Muslim Religious Institutions since 1500, University of California Press, Berkley e Los Angeles 1972, pp. 167-209.
[6] Indira Falk Gesink, Islamic Reform and Conservatism. Al-Azhar and the Evolution of Modern Sunni Islam, I.B. Tauris, London-New York 2009, pp. 66-76.
[7] Si veda Malika Zeghal, Gardiens de l’Islam. Les oulémas d’Al Azhar dans l’Égypte contemporaine, Presses de Sciences Po, Paris 1996.
[8] Si tratta di una forma di divorzio che il marito compie pronunciando una semplice formula per tre volte.
[9] Ahmad al-Tayyeb, Al-tajdīd alladhī nantaziruhu, «Sawt al-Azhar» 913 (29 marzo 2017), p. 1.
[10] “Kayfa yarā al-‘allāma Ibn Bayyah al-nizā‘ al-yawm ‘alā sūrat al-Islām bayn marja‘iyyāt mukhtalifa? Wa kayfa yumkinu tajāwuz wad‘ al-tashardhum?”, http://bit.ly/2qs5yI8
[11] Secondo alcune agenzie, il Gran Mufti d’Arabia Saudita ha definito la visita del Papa all’Azhar «un sacrilegio per il mondo islamico» e accusato l’Azhar di non «rappresentare il vero Islam», http://n.annabaa.org/news19085
[12] Hamit Bozarslan, Révolutions et état de violence. Moyen-Orient 2011-2015, CNRS Éditions 2015, pp. 184-185.