L’invisibile leader di Isis Abu Bakr al-Baghdadi è stato più volte dato per morto o ferito. Ecco come la propaganda jihadista giustifica la sua legittimità di “comandante dei credenti”
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:29
Sfuggente e invisibile, per i jihadisti dello Stato Islamico d’Iraq e Siria, che terrorizzano il Medio Oriente, l’Europa e il Nord America, Abu Bakr al-Baghdadi è il “califfo”. La loro propaganda forza i testi sacri islamici per giustificare la sua legittimità a “comandante dei credenti”, mentre nel mondo musulmano gli uomini di religione confutano le loro tesi e gridano all’impostore. Era il 15 maggio 2010 quando il majlis al-shura (il consiglio consultivo) dello Stato Islamico nominava Abu Bakr al-Baghdadi nuovo “comandante dei credenti”.
Leggi anche: La storia dello Stato Islamico: dalla sua fondazione alla morte del califfo
Il leader dello Stato Islamico è stato dato più volte per morto o ferito, soprattutto durante i mesi del 2017 in cui tra Iraq e Siria sono state condotte operazioni militari contro le roccaforti del "califfato" e l'Isis ha perso territorialità. Il 12 febbraio, la Cnn citando fonti della sicurezza americana che hanno raccolto materiale negli interrogatori con detenuti dello Stato Islamico, ha rivelato che Abu Bakr al-Baghdadi sarebbe stato ferito in un raid aereo - non è chiaro se della coalizione a guida americana o dai russi - a maggio 2017 vicino a Raqqa, in Siria, e sarebbe stato costretto a cedere il comando per cinque mesi.
All’epoca della nomina di al-Baghdadi a “comandante dei credenti”, lo Stato Islamico d’Iraq, tra alti e bassi, esisteva già da quattro anni: era stato proclamato il 15 ottobre 2006, anche se in Occidente molti si sono accorti della sua esistenza soltanto nel giugno 2014, in seguito alla presa della città irachena di Mosul. Ad aprile 2010, i precedenti leader dell’organizzazione, l’emiro Abu ‘Umar al-Baghdadi e il ministro della Guerra Abu Ayyub al-Masri, erano stati uccisi in un raid americano a Tikrit, e lo Stato Islamico d’Iraq affrontava per la prima volta il problema della successione. Come i suoi predecessori, al momento della nomina Abu Bakr al-Baghdadi era sconosciuto ai più, anche agli stessi jihadisti iracheni. Il comunicato, diffuso online dal Markaz al-Fajr li-l-I‘lam, rendeva nota la nomina del “combattente Abu Bakr al-Baghdadi al-Husseini al-Qurashi a comandante dei credenti dello Stato Islamico d’Iraq, e del combattente Abu ‘Abdallah Al-Hasani al-Qurayshi a primo ministro e suo vice”. Poco tempo dopo la bay‘a, la dichiarazione di fedeltà al nuovo leader, il portavoce dello Stato Islamico Muhammad al-‘Adnani che, secondo l’intelligence statunitense sarebbe il regista degli attentati di Parigi del 13 novembre, spiegava chi era quell’uomo misterioso.
Al-Baghdadi “è un Husayni della tribù dei Quraysh, discendente dalla stirpe pura degli Ahl al-Bayt [la famiglia del Profeta], sapiente, servitore di Dio e combattente. In lui ho visto la dottrina, la tenacia, l’audacia e l’ambizione di Abu Mus‘ab [al-Zarqawi], la mitezza, la giustizia, il giudizio e la modestia di Abû ‘Umar [al-Baghdadi], l’intelligenza, la perspicacia, la perseveranza e la pazienza di Abu Hamza [al-Masri]”.
Queste poche parole erano sufficienti ad accreditare l’uomo misterioso agli occhi dei mujahidin e ne legittimavano la successione in virtù delle sue nobili origini. Al-Baghdadi apparterrebbe al ramo alide della famiglia del Profeta dell’Islam, sarebbe in particolare un discendente di Husayn, il figlio minore di ‘Ali ibn Abu Talib, ultimo dei quattro califfi “ben guidati”, e della figlia del Profeta, Fatima. Quando fu proclamato “comandante dei credenti” Ibrahim Awwad Ibrahim al-Badri, poi divenuto noto con il nome di guerra Abu Bakr al-Baghdadi, aveva soltanto 39 anni. Era nato nel 1971 a Samarra, un’antica città a nord di Baghdad, nel Medioevo sede per qualche decennio del califfato abbaside, da una famiglia modesta e profondamente religiosa. Il padre teneva lezioni di Corano in una moschea locale e il figlio, fin da bambino, era solito trascorrere molto tempo in preghiera.
Tra baathismo e salafismo
Ibrahim al-Badri è cresciuto nel clima controverso dell’Iraq degli anni ’80 e ’90. Era il periodo in cui iniziava ad amplificarsi quella frattura confessionale che di lì a pochi anni avrebbe investito violentemente l’Iraq, gettandolo in una guerra civile tra la minoranza sunnita e la maggioranza sciita. Nel clima settario alimentato dalle politiche repressive di Saddam Hussein le famiglie irachene si trovavano spesso divise tra l’adesione al partito Baath che, seppur ostile all’attivismo religioso, raccoglieva un gran numero di adesioni tra chi era in cerca di un lavoro e di un ruolo nella società, e l’Islam a tendenza salafita.
La famiglia di al-Baghdadi è esemplificativa di questa scissione: alcuni dei suoi membri finirono per aderire al partito e arruolarsi nell’esercito di Saddam, altri tra cui il giovane al-Baghdadi si orientarono invece verso i Fratelli musulmani o il salafismo jihadista. La guerra contro l’Iran negli anni ’80 segnò un’inversione di rotta nella politica e nella sensibilità religiosa di Saddam. Il rais, in cerca del sostegno della minoranza sunnita, liberò i salafiti che aveva fatto arrestare nel decennio precedente, e cercò di dare un’impronta islamica alle sue politiche per guadagnarsi il loro consenso. Non è un caso che proprio nel 1989 Saddam Hussein abbia fondato l’università per gli Studi islamici a lui dedicata e che abbia addirittura donato 28 litri del suo sangue da utilizzare come inchiostro per incidere un Corano che avrebbe dovuto essere conservato nella moschea “Madre di tutte le battaglie”, fatta costruire nel 1991.
Il nuovo clima di propaganda religiosa non poteva che suscitare l’entusiasmo del giovane al-Baghdadi che, dopo essersi laureato in studi coranici all’università di Baghdad nel 1996, si iscrisse a un master in recitazione del Corano all’università di Studi islamici di Saddam Hussein, concluso nel 1999. Ma la carriera universitaria di al-Baghdadi non finì lì, perché nel 2007, tra un arresto e le attività militanti, riuscì a conseguire anche il dottorato.
Maradona a Camp Bucca
“Se non ci fosse stata una prigione americana in Iraq, ora non esisterebbe lo Stato Islamico. Bucca era una fabbrica. Ci ha creati tutti. Ha costruito la nostra ideologia”, confessò al Guardian un ex detenuto. Nel febbraio 2004, al-Baghdadi fu arrestato a Falluja mentre era in visita da un amico, uno dei “most wanted men” sulla lista dei ricercati dell’intelligence statunitense. Restò nel centro di detenzione di Camp Bucca, nel sud dell’Iraq, per dieci mesi (diversamente dalla versione dei fatti più diffusa, secondo la quale sarebbe stato rilasciato soltanto nel 2009), dove fu schedato come “detenuto civile”, segno che le sue tendenze salafite-jihadiste non erano ancora note. Nel periodo di detenzione al-Baghdadi si dedicò allo studio, alle public relation, e al calcio – sport per il quale era particolarmente dotato, tanto da essere soprannominato “Maradona”. Quanto alle sessioni di public relation, gli consentirono di creare quella rete di persone che qualche anno dopo sarebbero andate a ingrossare le fila dello Stato Islamico. Una volta fuori da Camp Bucca fu facile riprendere i contatti con gli ex compagni di prigione: i detenuti si erano scritti i rispettivi numeri di telefono sugli elastici della biancheria.
A Damasco
Mentre al-Baghdadi era a Camp Bucca, al-Zarqawi dava vita al ramo iracheno di al-Qaida, chiamandolo al-Qaida in Iraq (AQI). Il salafita giordano voleva scatenare una guerra civile su base settaria e trarre vantaggio dai disordini per creare uno Stato islamico. Una volta rilasciato, al-Baghdadi prese contatto con i capi della filiale locale di al-Qaida, che lo convinsero ad andare a Damasco, in Siria. Un militante con laurea, master e dottorato in scienze coraniche era una rarità nella galassia salafita e non poteva rischiare di essere ucciso.
All’epoca la Siria era tranquilla e il presidente Bashar al-Assad favoriva il passaggio da e per l’Iraq di foreign fighters e le loro attività. Nel giugno 2006, Zarqawi era ucciso in un raid dell’aviazione statunitense. Il suo progetto di costruire uno Stato islamico fu continuato dal successore Abu Ayyub al-Masri, che il 15 ottobre dello stesso anno dissolse AQI e proclamò lo Stato Islamico d’Iraq. Al-Masri assunse la carica di ministro della Guerra e Abu ‘Umar, un iracheno, fu nominato emiro. A questo punto, entra in scena anche al-Baghdadi: a lui furono affidati gli Affari religiosi dello Stato Islamico. Poco tempo dopo fu nominato supervisore del Comitato della sharî‘a e membro del Comitato consultivo, incaricato di assistere l’emiro Abu ‘Umar.
La scalata al potere continua, rapida: da membro del Comitato di coordinamento dello Stato Islamico – un board di tre uomini incaricati di supervisionare le attività dei comandanti dello Stato Islamico – a “comandante dei credenti” a maggio 2010. Intanto, nel 2013, lo Stato Islamico d’Iraq estende la sua azione in Siria, diventando Stato Islamico d’Iraq e Siria (ISIS, in arabo Daesh). Questo passaggio provoca la rottura definitiva dei rapporti con al-Qaida, che vorrebbe limitarne la sfera d’influenza all’Iraq. Quando il 29 giugno del 2014 lo Stato Islamico annuncia la restaurazione del “califfato” universale, Abu Bakr al-Baghdadi è nominato “califfo”. Alcuni giorni dopo, il 4 luglio, fa la sua prima e finora ultima apparizione pubblica nella Grande moschea di Mosul dove tiene il sermone della preghiera del venerdì. Un video lo ritrae con il turbante e l’abito nero – una mise tutt’altro che casuale, indossata già dai califfi abbasidi – e un Rolex al polso.
Perché per i jihadisti il “califfo” sarebbe legittimo
Per la prima volta dopo l’abolizione del califfato ottomano ad opera della Turchia repubblicana e kemalista, nel mondo islamico qualcuno osava attribuirsi l’“imamato supremo”. E mentre i seguaci dello Stato Islamico seminano il terrore in Siria, in Iraq e in Europa, la propaganda jihadista diffonde sul web documenti che spiegano le ragioni per cui al-Baghdadi sarebbe il califfo legittimo della umma universale. Il califfo – ricorda uno di questi testi – soddisfa tutte le condizioni previste dai giuristi dell’epoca classica per l’imamato: “Per essere idoneo l’imam deve soddisfare dieci condizioni: dev’essere maschio, libero, adulto, dotato di ragione, musulmano, giusto, coraggioso, discendente dei Quraysh, sapiente, capace di assolvere ai compiti affidatigli, ovvero la politica e gli interessi della umma. Nel momento in cui si giura fedeltà a colui che possiede queste qualità – e non ci sono altri imam – allora si ritengono vigenti il patto di fedeltà e l’imamato. A questo punto la sottomissione è obbligatoria se non ci si vuole ribellare a Dio e al suo Inviato”. Al-Baghdadi, prosegue il testo, riunirebbe in sé le principali caratteristiche del buon governante: “una conoscenza religiosa (‘ilm) e una genealogia che risalgono al Profeta”.
La conoscenza al-Baghdadi l’avrebbe acquisita nel percorso di studi e gli sarebbe stata concessa da Dio che, secondo un detto del Profeta, “istruisce nella religione colui a cui vuole bene”. Il califfo quindi sarebbe un eletto di Dio e avrebbe “purificato le zone dell’Iraq e del Levante dall’abominio safavide [dinastia musulmana sciita che regnò in Persia nei sec. XVI-XVIII] ed alawita e dall’apostasia, estendendo su di esse l’Islam”. Il documento spiega inoltre, riprendendo le parole di al-Nawawi (m. 1278), giurisperito del XIII secolo, che, per essere valido, l’atto di fedeltà (bay‘a) non deve essere “necessariamente sottoscritto all’unanimità da tutti gli uomini o dalla Gente del patto (ahl al-hall wa al-‘aqd). È sufficiente che a giurare fedeltà siano gli ‘ulama’, i capi e i notabili che hanno la possibilità di riunirsi”. Concluso il patto che lega il califfo alla umma, i musulmani sono invitati a non trasgredire le regole fissate dal califfo e a rendergli omaggio in virtù della sua discendenza nobile. A questo proposito è citato un passo tratto dal commentario coranico di Ibn Kathir (m. 1373), noto esegeta vissuto nel XIV secolo:
“Non negate le disposizioni degli Ahl al-bayt e l’ordine di agire bene nei loro confronti, portare loro rispetto e onorateli. Essi sono una stirpe pura, la più nobile delle famiglie che esista sulla terra, gloriosa e nobile nelle origini”.
Infine il califfo avrebbe il diritto di imporre la propria autorità sui luoghi conquistati con la forza, anche senza il consenso della popolazione locale. Perché “la conquista rappresenta il momento più alto dell’Islam (…) e come disse Ibn ‘Abd al-Wahhab – fondatore del wahhabismo in Arabia Saudita –, ‘chi conquista un Paese ha autorità su tutte le cose. Se non fosse così il mondo terreno non sarebbe giusto perché da molto tempo gli uomini, prima dell’imam Ahmad [Ibn Hanbal] e fino ai giorni nostri, non si trovano d’accordo su un imam’”.
Perché il “califfo” non è legittimo
Questa presunta legittimità è in realtà contestata da molti ulema, sia da parte dell’Islam istituzionale sia da parte salafita. Il 19 settembre 2014 centoventisei rappresentanti dell’Islam istituzionale sottoscrivevano una lettera aperta di condanna ad al-Baghdadi in cui confutavano in ventiquattro punti le interpretazioni del Corano e della Sunna messe in campo dal “califfo” per giustificare la proclamazione del califfato e le atrocità commesse nei confronti della Gente del Libro e dei musulmani considerati cattivi fedeli. In questi ventiquattro punti i sottoscrittori sancivano il divieto nell’Islam di uccidere gli innocenti, lanciare il jihad offensivo, dichiarare infedeli le persone, maltrattare la Gente del Libro tra cui rientrano anche gli yazidi, torturare le persone, sfigurare i morti, distruggere le tombe e i mausolei dei profeti, e soprattutto re-istituire il califfato senza il consenso di tutti i musulmani.
Da parte salafita si può segnalare la diffusione, nell’agosto del 2015, del libro intitolato Hanno detto sullo Stato di al-Baghdadi, che raccoglie le confutazioni dei leader e degli ideologi di diversi movimenti salafiti jihadisti. Tra questi, persino Ayman al-Zawahiri, subentrato alla leadership di al-Qaida nel 2011 in seguito alla morte di Osama bin Laden, sconfessa lo Stato Islamico e si proclama “innocente ed estraneo al suo progetto e ai suoi metodi”. Al-Maqdisi, uno dei più importanti ideologi del salafismo jihadista, dichiara che “lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante ha deviato dalla verità, ha imboccato la strada dell’eccesso, ha versato sangue di innocenti, ha confiscato il loro denaro, le loro ricchezze e i loro territori”.
È certamente singolare che la battaglia contro la legittimità del “califfo” e del “califfato” si combatta anche all’interno della galassia fondamentalista, i cui protagonisti fanno a gara nel lanciare anatemi contro il più estremista del momento. Tuttavia le critiche e le prese di posizione non impediscono però ad al-Baghdadi di continuare a reclutare militanti in tutto il mondo. 1Si tratta di Abu Ayyub al-Masri, noto anche come Abi Hamza al-Muhajir al-Masri. Di origini egiziane, al-Masri succede a Zarqawi quando questi viene ucciso. Muore in uno scontro a fuoco con i soldati statunitensi e iracheni il 18 aprile 2010.
***
Per saperne di più:
William McCants, The Believer, Brookings Institute, disponibile su http://www.brookings.edu/research/essays/2015/thebeliever.
William McCants, The Isis Apocalypse. The History, Strategy, and Doomsday Vision of the Islamic State, St. Martin’s Press, New York 2015.
Open Letter To Dr. Ibrahim Awwad Al-Badri, alias ‘Abu Bakr Al-Baghdadi’, and to the Fighters and Followers of the Self-declared ‘Islamic State’, disponibile su http://www.lettertobaghdadi.com/pdf/Booklet-Combined.pdf.
Sîra dhâtiyya li-khalîfat al-muslîmîn / Abû Bakr al-Baghdâdî.
Qâlû ‘an dawlat al-Baghdâdî, Katâ’ib rad‘ al-khawârij, 2015.