Legalismo e spiritualità, ragione e mistica, il percorso umano e intellettuale di uno dei massimi teologi musulmani
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:53
Abū Hāmid al-Ghazālī (1058-1111) è stato uno dei più grandi pensatori sunniti dell’Islam. Gli epiteti con cui è passato alla storia – ḥujjat al-Islām (“prova dell’Islam”), zayn al-dīn (“ornamento della religione”), mujaddid (“rinnovatore”) – testimoniano con chiarezza il grande contributo offerto, da un lato, alla difesa e alla sistematizzazione dell’Islam sunnita e, dall’altro, al suo rinnovamento.
Quadro storico e culturale
Al-Ghazālī nacque nel 1058[1] a Tūs, una città della regione del Khorāsān, in Persia (attuale Iran nord-orientale), in un’epoca di profonde trasformazioni. Il grande califfato abbaside si era, a quel tempo, frammentato in una serie di potentati governati da diverse dinastie, seppure sotto la guida nominale del califfo. Dal 1040, la regione del Khorāsān era caduta sotto il dominio dei turchi selgiuchidi i quali, non molto tempo prima che al-Ghazālī venisse al mondo, si impadronirono anche dell’Iraq. Nel 1055 infatti, il selgiuchide Toghril Beg (m. 1063) entrò a Baghdad scacciando la dinastia persiana sciita dei Buyidi, al potere dal 945. I successori di Toghril Beg estesero poi i confini del loro impero verso Occidente, inglobando Siria, Palestina e Anatolia dove, nel 1071, inflissero una dura sconfitta all’esercito di Bisanzio nella battaglia di Manzikert[2].
I Selgiuchidi si fecero proclamare sultani e si presentarono come i difensori del sunnismo. Fu in particolare l’operato del visir Nizām al-Mulk (m. 1092) a far riacquistare vigore all’Islam sunnita. Questi fondò infatti, in numerose città dell’impero, delle madrase o scuole chiamate nizāmiyya dal suo nome, con cui egli si proponeva di dare, in funzione anti-sciita, un’istruzione conforme alle direttive del governo. Lo sciismo, in particolare l’ismailismo dei Fatimidi, costituiva un serio pericolo per il sunnismo, sia dal punto di vista politico che dogmatico; la setta ismailita dei Fatimidi, ad esempio, era riuscita a creare un califfato rivale a quello abbaside con capitale Il Cairo. Il califfato fatimide, seppure all’epoca decisamente indebolito, rappresentava ancora una minaccia per Baghdad, soprattutto da quando Hasan-i Sabbāh (m. 1124) aveva dato vita all’ordine noto come hashīshīn (assassini), provocando una spaccatura all’interno dell’ismailismo. Impadronitosi nel 1090 della roccaforte di Alamūt in Persia, Hasan-i Sabbāh aveva quindi iniziato a svolgere la sua propaganda (da‘wā) inviando agenti e missionari nel mondo sunnita e perpetrando una serie di omicidi politici che culminarono in quello dello stesso visir Nizām al-Mulk[3].
L’azione ismailita non era tuttavia l’unico fattore destabilizzante per il sunnismo all’epoca di al-Ghazālī. Le disquisizioni dogmatiche delle diverse scuole teologiche e giuridiche[4], acuite dalla rivalità tra i dotti che le propugnavano, avevano finito con il generare un clima di forte intolleranza all’interno dell’Islam, imprigionandolo in una serie di norme e di precetti che lasciavano inappagato il fervore religioso dei credenti. Contestualmente, movimenti come il sufismo e la filosofia[5] avevano generato una serie di interpretazioni e dottrine di tipo razionale o esoterico che prendevano le distanze dalla lettera delle Scritture o ponevano in secondo piano le prescrizioni cultuali, minando in qualche modo i fondamenti della fede.
La figura di al-Ghazālī si staglia in questo complesso quadro: la sua opera può leggersi infatti come l’ambizioso tentativo di conciliare esoterismo ed exoterismo, spiritualità e legalismo, filosofia e dogmatica, in perfetta consonanza con quell’ideale della “via mediana” o del “giusto mezzo” tipico del sunnismo.
Biografia
Al-Ghazālī ricevette la sua formazione prima nella città natale, assieme a suo fratello Ahmad (m. 1123 o 1126) – che divenne in seguito un noto predicatore e pensatore sufi – poi a Jurjān e infine a Nīshāpūr, capitale della provincia e sede di un’importante madrasa nizāmiyya, dove ebbe come maestro al-Juwaynī (m. 1085), il più eminente teologo ash‘arita del tempo. Ciò lo portò in stretto contatto con la corte del sultano selgiuchide Malikshāh (che regnò dal 1071 al 1092) e con il suo visir Nizām al-Mulk, il quale nel 1091 lo invitò a insegnare nella prestigiosa nizāmiyya di Baghdad, dove rimase fino al 1095.
Questo soggiorno relativamente breve nella più grande metropoli islamica del tempo e sede del califfato abbaside fu caratterizzato da una serie di eventi decisivi per la vita di al-Ghazālī. Egli divenne in poco tempo un maestro stimatissimo e uno degli intellettuali più influenti del suo tempo. Tuttavia, proprio mentre era al culmine della carriera, al-Ghazālī decise di abbandonare Baghdad e dedicarsi alla vita ascetica, praticando il sufismo. Nella sua celebre autobiografia, intitolata al-Munqidh min al-dalāl (“La salvezza dalla perdizione”)[6], egli spiega la sua decisione raccontando di essere passato attraverso due crisi. La prima, di tipo gnoseologico, lo portò a dubitare di ogni conoscenza – tanto quella basata sui dati sensibili che sulle verità razionali. Egli afferma di esservi uscito soltanto «grazie ad una luce che Dio mi proiettò nel petto»[7]. In seguito a questa crisi, al-Ghazālī capì di dover abbandonare il taqlīd, l’acritica accettazione del sapere ricevuto dai padri, per ricercare la vera conoscenza e perseguire la certezza (al-yaqīn). L’altra crisi fu di tipo morale, giacché si rese conto che ciò che lo spingeva a insegnare non era tanto il desiderio di servire Dio, quanto quello di ottenere onori, ricchezze e fama. Egli racconta diffusamente il suo lungo travaglio interiore – iniziato nel luglio del 1095 e durato vari mesi – il cui esito fu la decisione di rinunciare alla sua brillante posizione a Baghdad per dedicarsi alla vita contemplativa nella speranza di ottenere la felicità eterna.
Alcuni studiosi hanno messo in discussione le motivazioni illustrate nel Munqidh, rilevando come la situazione politica di quegli anni fosse delle più complesse. Le incursioni degli ismailiti di Alamūt erano infatti culminate nel 1092 con l’assassinio di Nizām al-Mulk, il patrono di al-Ghazālī, e nello stesso anno era morto anche il sultano Malikshāh. La lotta per il potere che ne era seguita aveva poi generato forti tensioni, portando infine nel 1095 all’ascesa di Barqiyārūq (m. 1105), inviso al califfo abbaside del tempo al-Mustazhir (m. 1118) e al fianco del quale si presume che al-Ghazālī fosse schierato[8]. Tuttavia, a nostro parere, le eventuali motivazioni politiche non inficiano la veridicità delle crisi vissute dall’autore, senza le quali non si spiegherebbero né il percorso di rifondazione della conoscenza né quello di rinnovamento della fede fortemente perseguiti nei suoi scritti. Piuttosto si può dire che la situazione politica di quegli anni abbia in qualche modo contribuito a suscitare e caratterizzare quelle crisi – nel modo in cui la realtà sempre interroga l’uomo – facendogli capire ad esempio che condurre una vita religiosa virtuosa non era compatibile con il servizio di sultani, visir e califfi: beneficiando dei loro favori si finiva inevitabilmente con l’essere invischiati in lotte di potere che mettevano a repentaglio l’onestà intellettuale e la prospettiva di una vita degna di ricompensa nell’aldilà.
Dopo aver lasciato Baghdad, al-Ghazālī si recò a Damasco, poi a Gerusalemme, e da lì a Hebron per visitare la tomba di Abramo, poi andò in pellegrinaggio a Mecca e Medina. Dei suoi spostamenti successivi non si hanno notizie certe. È noto tuttavia che non smise di insegnare: sebbene infatti avesse abbandonato l’insegnamento nelle istituzioni ufficiali dello stato, continuò a praticarlo in piccole scuole (zāwiya) finanziate da donazioni private e, una volta rientrato nella propria città natale, vi fondò anche una propria scuola e un “convento” sufi (khanqa). Quando nel 1106 decise di accettare l’invito del nuovo visir Fakhr al-Mulk, figlio di Nizām, a insegnare nella nizāmiyya di Nīshāpūr, giustificò la sua scelta con la volontà di riformare l’Islam, ritenendosi predestinato ad essere il mujaddid (“rinnovatore”) che, secondo una celebre tradizione sunnita (hadīth), Dio suscita all’inizio di ogni secolo (ricorreva allora il 499 dell’egira). Negli ultimi anni ritornò a insegnare nella sua zāwiya di Tūs, dove morì nel 1111.
La ricerca della verità
Ad al-Ghazālī sono attribuite circa 400 opere, sebbene molte siano di dubbia autenticità. È innegabile, tuttavia, che la sua produzione sia molto ricca e pertanto impossibile da presentare in maniera compiuta ed esaustiva[9]. Utilizzando come punto di partenza la sua autobiografia, composta nel periodo del suo ritorno all’insegnamento a Nīshāpūr, è però possibile tratteggiare il percorso intellettuale dell’autore, ricordandone le tappe e le opere principali.
Nel Munqidh min al-dalāl al-Ghazālī afferma che, dopo aver rifiutato il taqlīd, si mise alla ricerca della vera scienza, indagando il sapere di teologi, batiniti, filosofi e sufi. Della teologia (ʿilm al-kalām), egli dice che essa ha lo scopo di difendere il credo sunnita dall’innovazione (bidʿa) e non di indagare la realtà delle cose: non è dunque una scienza in grado di garantire certezza e non deve quindi pretendere di farlo. Per quanto concerne la filosofia (falsafa) invece, egli non la rifiuta in blocco, ma la divide in sei branche: matematica, logica, fisica, politica, etica e metafisica. Tra queste, la matematica, la logica, la politica e l’etica sono considerate più o meno innocue dal punto di vista religioso; mentre la fisica e soprattutto la metafisica, sono presentate come gli ambiti in cui i filosofi hanno commesso errori religiosamente rilevanti.
È utile ricordare, in proposito, che la filosofia nacque nel mondo arabo in seguito ad una lunga fase di traduzione delle opere filosofiche e scientifiche greche durata all’incirca dall’VIII al X secolo e che alla fioritura del movimento filosofico contribuirono arabi musulmani, cristiani, ebrei e pagani. Al-Ghazālī concentra però le sue critiche sui primi perché questi – in particolare i famosi al-Fārābī (m. 950) e Ibn Sīnā (m. 1037), noto nel mondo latino come Avicenna – svilupparono sistemi filosofici che sfidavano le convinzioni fondamentali della teologia islamica, in particolare su temi quali la creazione, la profezia e l’escatologia.
Non è possibile qui analizzare nel dettaglio le 20 proposizioni filosofiche criticate da al-Ghazālī nella sua opera più famosa dedicata all’argomento, il Tahāfut al-falāsifa (“l’Incoerenza dei filosofi”), scritta nel periodo del suo insegnamento a Baghdad. È però utile rilevare che la maggior parte di queste vengono classificate come innovazioni (bidʿa) e solo tre sono considerate meritevoli dell’accusa di miscredenza (kufr): l’eternità del mondo, la limitazione della conoscenza divina agli esseri universali e la negazione della resurrezione dei corpi. Queste affermazioni erano infatti in contraddizione con gli insegnamenti fondamentali dell’Islam e ledevano l’onnipotenza e l’onniscienza di Dio.
Tuttavia, quel che è più interessante mettere in luce è che al-Ghazālī non attacca la filosofia per il fatto di essere una scienza “razionale”, ma piuttosto perché non lo è “realmente”. Come ha ampiamente dimostrato Frank Griffel, al-Ghazālī critica le argomentazioni filosofiche sostenendo che queste non sono articolate in maniera tale da soddisfare i requisiti della dimostrazione (burhān) ma che piuttosto si basano su premesse non provate, accettate tra i filosofi ma non stabilite in alcun modo dalla ragione[10]. La filosofia è quindi, a suo avviso, un sapere basato sul taqlīd, nel senso che i suoi fautori non fanno che ripetere gli insegnamenti ricevuti senza sottoporli a un serio esame critico[11].
In tal senso, i filosofi possono essere accomunati agli sciiti ismailiti, noti come bātiniti (fautori del bātin, ossia del senso “interiore” ed esoterico delle Scritture) o come taʿlīmiti (seguaci del taʿlīm, ossia dell’“insegnamento” esoterico dell’imām). Anche la loro dottrina, infatti, si basa per al-Ghazālī sul taqlīd: sull’accettazione acritica di un’idea che egli ritiene del tutto irrazionale, ossia la necessità di un maestro infallibile, l’imām, considerato l’unico depositario della verità. Alla confutazione delle dottrine ismailite, al-Ghazālī dedicò diverse opere, tra cui la più nota è Fadāʾih al-Bātiniyya wa fadāʾil al-Mustazhiriyya (“Le infamie dei Batiniti e le eccellenze dei Mustazhiriti”), conosciuta anche più semplicemente come al-Mustazhirī, dal nome del califfo che gliela commissionò. Lo scopo del testo è duplice: da un lato, da un punto di vista politico, ribadire la legittimità del califfo abbaside al-Mustazhir e contrastare quella dell’imām sciita; dall’altro, dal punto di vista dottrinale, ripristinare la centralità del profeta Muhammad come unico riferimento dogmatico[12].
Ma se né la teologia, né la filosofia, né il bātinismo/taʿlīmismo sono in grado di offrire un sapere esente da errori ed opinioni soggettive, dov’è allora la verità, il sapere certo? Nel Munqidh al-Ghazālī afferma di averlo trovato nel sufismo (tasawwuf), la cosiddetta “mistica” dell’Islam, il movimento volto a mettere in luce gli aspetti spirituali e interiori della fede. Nel sufismo la dimensione teorica e quella pratica sono strettamente collegate e inseparabili, perché lo scopo del sufi è la progressione spirituale. Per questo motivo, la comprensione delle verità di fede e la descrizione teorica delle diverse tappe spirituali da percorrere per giungere a Dio vanno per forza di cose di pari passo con la loro realizzazione. É precisamente il “gusto” (dhawq), la “sperimentazione” pratica delle verità di fede – normalmente solo razionalmente comprese se non acriticamente accettate – che fa del sufismo un approccio alla fede “completo”.
Esso s’incentra attorno al cuore (qalb), inteso allo stesso tempo come la culla delle tendenze morali dell’individuo, la sede della conoscenza, il luogo della contemplazione divina e, come tale, esso costituisce l’essenza dell’uomo, vero e proprio centro del suo essere. Nella Ihyā’ ‘ulūm al-dīn (“Il ravvivamento delle scienze religiose”), l’opera magistrale composta nel decennio successivo alla partenza da Baghdad e divisa in quattro tomi (al-ʿIbādāt, “Gli atti cultuali”, al-ʿAdāt, “I costumi”, al-Muhlikāt, “Le cause di perdizione” e al-Munjiyāt, “I mezzi di salvezza”), al-Ghazālī dedica alla trattazione di quelle che definisce le “meraviglie del cuore” (‘ajā’ib al-qalb) un intero libro, il primo del terzo tomo[13].
La centralità che il tema riveste nel suo pensiero è evidente già nella collocazione al centro esatto della sua opera. Esso funge da spartiacque tra i primi due tomi, che trattano del comportamento che l’uomo deve tenere nella sua devozione a Dio e nella società; e gli ultimi due, che presentano i vizi umani, i modi per combatterli e le tappe spirituali per giungere a Dio. Nel libro egli spiega che il cuore è in grado di conoscere la realtà delle cose, perché è come uno specchio: come infatti le cose visibili hanno una loro forma – e lo specchio è in grado di riflettere l’immagine di quella forma – così ogni intelligibile, ogni cosa conoscibile, ha una sua realtà e lo specchio del cuore è in grado di riflettere l’immagine di quella realtà. La conoscenza – spiega al-Ghazālī – è proprio «la presenza nel cuore dell’immagine corrispondente alla realtà dell’intelligibile»[14].
Quest’ultima può essere conseguita per al-Ghazālī in tre modi principali: attraverso il taqlīd, dunque attraverso la semplice accettazione delle nozioni religiose trasmesse dai genitori o dalle autorità – e questo è il modo di conoscenza proprio delle masse; attraverso l’iktisāb, ossia l’acquisizione, che consiste nel conoscere gradualmente le cose attraverso lo studio e l’apprendimento – e questo è il metodo di conoscenza proprio degli studiosi e dei sapienti, gli ‘ulamā’ (ulema) – e, infine, per conoscenza diretta o ‘ilm ladunī, più precisamente per wahy (“rivelazione”) o ilhām (“ispirazione”) – che sono i due modi di conoscenza propri rispettivamente agli anbiyā’ (“profeti”) e agli awliyā’ (“santi” o, più precisamente, “intimi” di Dio, coloro che godono della Sua prossimità).
La differenza tra questi ultimi due metodi (quello dell’acquisizione o iktisāb e quello diretto o ladunī) è così spiegata da al-Ghazālī: il cuore ha due porte, una che affaccia sul mondo del mulk, ossia il “mondo materiale”, terreno, e l’altra che affaccia sul mondo della malakūt, ossia il “mondo celeste”, divino. L’uomo può arrivare a Dio o mediante un sapere che parte dai sensi e arriva dal creato al Creatore attraverso la porta del cuore che affaccia sul mulk, oppure può arrivare a Lui mediante un sapere che nasce dall’intimo, dall’interno del cuore, attraverso la porta che affaccia sulla malakūt. In entrambi i casi si arriva a Dio, ma a distinguere i due metodi è la cosiddetta “rimozione del velo”, intesa come eliminazione di ogni ostacolo che impedisca al cuore una visione chiara e diretta della verità. Si può vedere il sole splendere sulla terra osservandolo direttamente e si può contemplarlo nell’immagine che ne riflette un fiume. In entrambi i casi si sta guardando il sole, ma chi guarda l’acqua che ne riproduce la forma non guarda il sole vero e proprio. Allo stesso modo, chi arriva a Dio mediante sola acquisizione non avrà mai il “gusto” (dhawq) del diretto accesso alla presenza divina, proprio invece di chi arriva a Lui mediante un sapere che nasce da dentro ed è frutto di un’illuminazione divina.
Questa “rimozione del velo” non avviene per volontà dell’uomo, nel senso che non può attuarsi tramite sforzo individuale, ma è un dono della grazia divina. L’uomo può però prepararsi a riceverla, dedicandosi alla purificazione del cuore (tazkiyat al-qalb) e consacrandosi al pensiero di Dio (dhikr Allāh). Solo così potranno manifestarsi in esso le meraviglie del mondo invisibile. Il cuore è infatti in grado di contenere Dio solo dopo essersi svuotato di ogni elemento manifestato.
Tuttavia, che l’uomo sia in grado di “ricevere” Dio nel cuore, non significa che sia una sola cosa con Lui: al-Ghazālī critica quei sufi come al-Hallāj (m. 922) che, nell’esaltazione dell’estasi, parlavano di ittihād o “unificazione”, “identificazione”, proclamandosi uno con Dio. A suo avviso, essi incorrevano nello stesso errore dei cristiani nel “deificare” Gesù. Tale identificazione, nel suo senso letterale, va per lui rigettata, perché contraria al senso più profondo dell’Islam. Secondo al-Ghazālī, questo senso è il tawhīd o “monoteismo”. Nel Kitāb al-tawhīd wa-l-tawakkul o “Libro del monoteismo e della fiducia (in Dio)” dell’Ihyā’, al-Ghazālī spiega che cosa sia il tawhīd, distinguendone quattro tipi. Il primo è quello degli “ipocriti” (munāfiqūn), consistente nel pronunciare la frase della professione di fede (shahāda) «Non c’è dio se non Dio» soltanto con la lingua; il secondo è quello della “gente comune” (al-‘awāmm), consistente nell’adesione del cuore al significato della frase; il terzo è quello dei “ravvicinati” (muqarrabūn), consistente nella visione dell’unicità divina per mezzo di uno “svelamento” (kashf), grazie al quale essi contemplano ogni cosa – a dispetto della sua pluralità – come originata da un’unica fonte: Dio; e l’ultimo è quello di “coloro che sono giunti al massimo grado di veracità nella fede” (siddiqūn), consistente nel non vedere esistente che Uno solo (lā yarā fī-l-wujūd illa wāhidan)[15]. Se dunque, nel suo primo e più letterale significato, il tawhīd è per l’autore il riconoscimento di un Dio uno ed unico, esso diventa, nel suo significato più profondo e spirituale, il riconoscimento che Dio è l’unico vero esistente, perché è l’unico Essere che esiste in sé e per sé e grazie al quale esistono tutte le altre creature, l’unica Luce che brilla di luminosità propria, mentre gli altri esseri brillano di luminosità riflessa.
Il giusto mezzo nella fede
Questa considerazione ci porta a quella che, a nostro avviso, è la caratteristica fondamentale del pensiero ghazāliano: la ricerca dell’equilibrio, del giusto mezzo nella fede. Affermare infatti che l’assorbimento in Dio del sufi non è ittihād ma tawhīd non è per al-Ghazālī una mera questione terminologica, né un tentativo strumentale di rendere “ortodossa” una dottrina di per sé “eterodossa”, ma è propriamente il vero senso di quell’assorbimento – non a caso coincidente con il fondamento dell’Islam: il monoteismo o unicità divina. Detto in altre parole, sperimentare Dio nel cuore significa cogliere il senso più profondo del monoteismo islamico. Questo senso più profondo (il bātin, il senso “interiore”), non va tuttavia a scapito di quello letterale (lo zāhir, il senso “esteriore”), bensì lo ricomprende in sé, è in perfetta consonanza con esso, in un’armonia che caratterizza tutto il pensiero di al-Ghazālī, il quale intende mostrare e mettere in luce la concordia e l’intima corrispondenza tra zāhir e bātin, tra esoterico ed exoterico, tra mulk e malakūt.
Questo aspetto è particolarmente evidente nella dottrina ghazāliana del taʾwīl o “interpretazione allegorica”, che egli illustra in dettaglio nel suo Faysal al-tafriqa bayn al-Islām wa-l-zandaqa o “Criterio decisivo di distinzione tra l’Islam e la miscredenza”[16]. In questa opera, per combattere lo spirito di intransigenza e di esclusivismo che portava i rappresentanti delle diverse scuole teologico-giuridiche dell’Islam ad accusarsi reciprocamente di kufr (“miscredenza”) anche per minime divergenze interpretative della lettera coranica, egli specifica che chiunque creda nei fondamenti dell’Islam – ossia in Dio, nel Profeta Muhammad e nel Giorno del Giudizio – non può essere considerato un infedele. Solo chi accusa di menzogna il Profeta dell’Islam, rinnegando le sue parole, può essere considerato tale; ma se vi presta fede, pur interpretandole in modi diversi, resta un credente a tutti gli effetti.
Non è possibile addentrarsi nei dettagli di questa dottrina[17]. Basterà qui ricordare che al-Ghazālī individua cinque gradi di esistenza – ai quali fa corrispondere cinque gradi d’interpretazione allegorica – e spiega che chi riconosce come vera l’esistenza di ciò che ha riferito Muhammad in uno qualsiasi di questi cinque gradi, non può essere accusato di smentire il Profeta, giacché tale accusa investe soltanto chi li nega tutti e cinque, pretendendo che le parole di Muhammad siano delle pure menzogne. Così facendo, al-Ghazālī da un lato fonda la legittimità dell’interpretazione allegorica mentre dall’altro pone alla base della scelta interpretativa l’esame razionale, teorizzando la necessità di passare al vaglio critico della ragione i versetti delle Scritture al fine di stabilirne la corretta lettura. Egli specifica infatti che solo se si ha la prova evidente (burhān) dell’inaccettabilità del senso letterale di un versetto coranico o di un hadīth, si può passare al grado interpretativo successivo. La citazione nel Faysal di alcune sue opere precedenti concernenti la logica – in particolare il Mihaqq al-nazar fī l-mantiq (“La pietra angolare dello studio della logica”) e il Qistās al-mustaqīm (“La retta bilancia”) – mostra inoltre come per lui il burhān coincidesse sostanzialmente con la dimostrazione sillogistica[18].
Il fatto però che per al-Ghazālī l’esame razionale e l’utilizzo della logica siano fondamentali non significa né che egli sia un filosofo – quanto meno non nel senso in cui si definivano tali al-Fārābī e Ibn Sīnā – né che l’uso della ragione e della logica siano da sole sufficienti a raggiungere la verità. Anzitutto, per al-Ghazālī, una difesa della logica non è una difesa della filosofia. Si potrebbe dire infatti che egli tenti di sottrarre la logica alla filosofia, islamizzandola: nel Qistās al-mustaqīm, al-Ghazālī cerca di provare che la logica sillogistica trova il suo fondamento dal e nel Corano, allo scopo di legittimarla e favorirne l’utilizzo all’interno del kalām: la teologia islamica[19]. Se ciò significa che per lui il punto critico non è l’utilizzo in sé della dimostrazione razionale per interpretare il Corano, ma il cattivo uso che di questa fanno, in molti casi, i filosofi, è anche vero che il disvelamento del vero, il grado della certezza nella fede, non si raggiunge per lui attraverso una dimostrazione razionale ben congegnata, bensì attraverso la sperimentazione concreta, vissuta, consentita dal sufismo, dell’adesione intellettuale di base. Del resto, un uso corretto della ragione comporta per al-Ghazālī anche il riconoscimento dei suoi limiti: non può esserci, ad esempio, alcuna prova razionale evidente (burhān) che supporti l’impossibilità per Dio di reintegrare gli spiriti nei loro corpi al momento della resurrezione – come sostenevano i filosofi –, essendo Dio onnipotente. Ancora una volta, questo significa promuovere il “giusto mezzo”: integrare nell’Islam il sufismo e la filosofia – epurati dei loro eccessi in modo che il bātin non prevalga sullo zāhir e la ragione sul mistero divino – permette di arricchire la fede lasciando salvi i capisaldi dottrinali dell’Islam.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
[1] Questa è la data indicata dalla maggior parte degli storici musulmani. Frank Griffel, tuttavia, basandosi su alcune annotazioni contenute nelle lettere e nell’autobiografia di al-Ghazālī, la anticipa al 1055/1056. Cfr. Frank Griffel, Al-Ghazālī’s Philosophical Theology, Oxford University Press, New York 2009, pp. 23-25.
[2] Sulla storia del califfato abbaside si veda Claudio Lo Jacono, Storia del califfato islamico (VII-XVI secolo), vol. 1, Einaudi, Torino 2003, pp. 141-319, in particolare pp. 270-279, che trattano dell’emirato buyide e della sua sconfitta ad opera dei Selgiuchidi e pp. 300-304, sulla conquista dell’Anatolia.
[3] Cfr. Ibid., pp. 279-319.
[4] Per comprendere il ruolo e le diverse scuole della teologia e della giurisprudenza nell’Islam d’epoca classica cfr. Alberto Ventura, L'islam sunnita nel periodo classico (VII-XVI secolo), in Giovanni Filoramo (a cura di), Islam, Laterza, Bari 2018 (edizione digitale).
[5] Sulla filosofia nel mondo arabo-islamico, si veda Cristina D’Ancona (a cura di), Storia della filosofia nell’Islam medievale, 2 voll., Einaudi, Torino 2005; sul sufismo, Giuseppe Scattolin, Spiritualità nell’Islam, EMI, Bologna 2004 e Angelo Scarabel, Il sufismo, Carocci, Roma 2007.
[6] Il testo è disponibile in traduzione integrale in al-Ghazālī, Scritti scelti, Laura Veccia-Vaglieri e Roberto Rubinacci (a cura di), UTET, Torino 1970, pp. 72-140.
[7] Ibid., p. 85.
[8] Ad esempio Duncan B. MacDonald, storico studioso di al-Ghazālī, si chiese se potesse essere solo un caso che al-Ghazālī abbia abbandonato l’insegnamento nella nizāmiyya di Baghdad nello stesso anno dell’ascesa di Barqiyarūq e che lo abbia ripreso nella nizāmiyya di Nīshāpūr l’anno della morte di quest’ultimo. Cfr. Duncan B. Macdonald, The life of al-Ghazzālī with Especial Reference to His Religious Experiences and Opinions, «Journal of the American Oriental Society», vol. 20 (1899), pp. 71-132, disponibile al link https://www.jstor.org/stable/pdf/592319.pdf
[9] Ad al-Ghazālī è dedicato un sito che rappresenta uno strumento molto utile e relativamente aggiornato in cui è possibile reperire diverse fonti e materiali di e sull’autore, tanto in arabo che in lingue europee, con traduzioni parziali o anche integrali di diverse sue opere: https://www.ghazali.org/
[10] Cfr. l’articolo su al-Ghazālī scritto da Frank Griffel per la «Standford Encyclopedia of Philosophy» disponibile all’indrirzzo https://plato.stanford.edu/entries/al-ghazali/
[11] Cfr. Frank Griffel, Taqlīd of the Philosophers. Al-Ghazālī’s Initial Accusation In the Tahāfut, in Sebastian Günther (a cura di), Ideas, Images, and Methods of Portrayal. Insights into Arabic Literature and Islam, Brill, Leiden 2005, pp. 253-273.
[12] Cfr. in proposito Massimo Campanini, In defence of Sunnism: al-Ghazālī and the Seljuqs, in Christian Lange e Songül Mecit (a cura di), The Seljuqs: politics, society and culture, Edinburgh University Press, Edinburgh 2011, pp. 228-239.
[13] Il volume è disponibile in traduzione italiana: al-Ghazālī, Le meraviglie del cuore, a cura di Ines Peta, Il leone verde, Torino 2006.
[14] Ibid., p. 59.
[15] Cfr. al-Ghazālī, Ihyā’‘ulūm al-dīn, Tabāna Badawī (a cura di), 4 voll., Il Cairo 1957, vol. 4, p. 245.
[16] La data di composizione dell’opera è incerta. Frank Griffel ne discute dettagliatamente nell’introduzione alla sua traduzione in tedesco, Über Rechtgläubigkeit und religiöse Toleranz, Spur-Verl, Zürich 1998, pp. 43-46, ritenendo che si collochi tra il 1106 e il 1109, più tardi dunque del periodo ipotizzato da George F. Hourani, A Revised Chronology of Ghazālī’s Writings, «Journal of Islamic Studies» vol. 104, n. 2 (1984), p. 300, il quale reputa sia stata scritta tra il 1095 e il 1106.
[17] Per un’analisi approfondita dell’argomento si rimanda a Ines Peta, L’interpretazione del Corano alla luce della ragione in al-Ghazālī e Ibn Rushd, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica» n. 4 (2016), pp. 1005-1012.
[18] Cfr. al-Ghazālī, Le critère de distinction entre l’islam et l’incroyance, edizione bilingue francese-arabo a cura di Hogga Mustapha, Vrin, Paris 2010, pp. 64-66 e 87-89 del testo arabo. Cfr. inoltre, sul valore del burhān nell’interpretazione dei testi sacri, l’analisi di Martin Whittingham, Al-Ghazālī and the Qur’ān. One book, many meanings, Routledge, Abingdon 2007, pp. 80-100. Per gli altri aspetti, non legati al ragionamento razionale, di cui l’interprete deve tener conto per giudicare un testo come lecitamente interpretabile o meno, ad esempio l’ijmā‘ (il consenso comunitario) o il tawātur (la trasmissione ininterrotta), si veda Iysa A. Bello, The Medieval Islamic Controversy between Philosophy and Orthodoxy, Ijmā‘ and Ta’wīl in the Conflict Between al-Ghazālī and Ibn Rushd, Brill, Leiden 1989, pp. 29-51, e Ines Peta, Il dibattito tra al-Ghazālī e Ibn Rushd: Filosofia e Legge rivelata a confronto, in Giulio d’Onofrio (a cura di), The Medieval Paradigm: Religious Thought and Philosophy, Papers of the International Congress (Rome, 29 October – 1 November 2005), 2 voll., Brepols, Turnhout 2012, vol. 1, pp. 417-439.
[19] Il testo si trova in traduzione italiana in: al-Ghazālī, La bilancia dell’azione e altri scritti, a cura di Massimo Campanini, UTET, Torino 2005, pp. 275-350.