In Senegal, il riformismo islamico fa proseliti tra i musulmani che sono alla ricerca di un Islam purificato dalle pratiche della religiosità popolare. Un imam denuncia l’aura di sacralità che circonda le confraternite sufi e i marabutti.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:33
Conversazione con Ahmadou Makhtar Kanté a cura di Chiara Pellegrino
Ahmadou Makhtar Kanté è stato imam alla moschea dell’Università Cheick Anta Diop di Dakar dal 1994 al 2005. Oggi è imam della moschea di Point-E di Dakar. Richiamandosi al riformismo, l’imam Kanté rappresenta un’eccezione nel panorama islamico senegalese, dominato dalle confraternite sufi. Oasis l’ha incontrato a casa sua a Dakar.
Può raccontarci il suo percorso di formazione?
Mi chiamo Ahmadou Makhtar Kanté, ma qui sono conosciuto più semplicemente come imam Kanté, con il nome di famiglia. Ho frequentato la scuola coranica come tutti i senegalesi e, in parallelo, ho fatto la scuola pubblica francese. Ho sempre pensato che fosse importante non abbandonare nessuna delle due culture, conservando sia la cultura arabo-islamica sia quella francese. Oggi ci sono molte questioni aperte e il fatto di non conoscere una di queste due culture può costituire un limite. Chi padroneggia soltanto quella arabo-islamica ha difficoltà a comprendere certe fonti, a causa della sua mentalità. E non lo dico in senso dispregiativo che gli arabofoni in Senegal hanno una certa mentalità. È normale, ciascuno è formattato secondo una forma mentis che dipende dall’ambiente intellettuale, familiare e tradizionale in cui è stato formato. L’importante è saper riconoscere con umiltà che bisogna avere un’apertura mentale per poter pensare le cose in maniera più complessa rispetto a come ci sono state trasmesse. Allo stesso modo, la mentalità della scuola francese celebra la Francia e la sua storia in Senegal con un certo paternalismo. Per guadagnarsi una credibilità intellettuale bisogna sempre citare pensatori o filosofi occidentali, soprattutto francesi, ciò che lascia pensare che non ci sia nulla di interessante nella storia africana e nel pensiero degli studiosi arabofoni.
Io ho studiato diverse discipline: ho conseguito la laurea in Studi ambientali e ho frequentato per due anni la scuola dottorale di Filosofia all’Università Cheikh Anta Diop di Dakar come uditore per acquisire i rudimenti della filosofia. Sono stato imam nella moschea dell’università per dieci anni, dal 1994 al 2005. Nel frattempo, curavo una rubrica di studi islamici all’interno di una rivista trimestrale intitolata “Lo studente musulmano”, e questo mi ha obbligato a documentarmi costantemente per essere sempre sul pezzo.
Tornando al mio ruolo di imam, nel sermone del venerdì trattavo sempre dell’attualità. L’originalità dei miei sermoni stava proprio in questo, nell’attualità e nell’uso della lingua francese. I sermoni classici e tradizionali sono sermoni ripetuti, quasi sacralizzati e scollegati dall’attualità, in cui gli imam si accontentano di citare e commentare i sapienti delle antiche generazioni. I sermoni classici sono pronunciati in arabo mentre io li tenevo in francese, la lingua parlata all’università. Tutti gli studenti erano francofoni: c’erano magrebini, che quindi parlavano anche l’arabo, ma c’erano anche persone di altre nazionalità africane. Questa scelta linguistica ha creato non pochi problemi nelle altre moschee di Dakar, che ritenevano grave il fatto di tenere un sermone in francese. Io, personalmente, mi sono sempre rifiutato di rimanere bloccato in certe interpretazioni, ed è la ragione per cui molti pensano che io sia un provocatore. Hanno questa percezione perché ritengono che le loro convinzioni siano immutabili perciò, non appena dici cose che le mettono in discussione, pensano che tu voglia provocare la gente. Credo che dovremmo accettare la libertà di mettere in discussione qualsiasi convinzione.
Secondo lei, manca la libertà di espressione in Senegal?
Sì. In linea di principio la libertà di espressione è garantita dalla Costituzione, ma di fatto sulle questioni cosiddette sensibili non si può discutere.
A quali questioni si riferisce?
Dipende. A volte è l’attualità, ma più spesso è la questione delle confraternite sufi, dei marabutti e del lascito degli antichi sapienti. Le persone sono molto chiuse su questi temi, tanto più che la massa non ha gli strumenti per fare analisi approfondite. La massa aderisce a persone o a famiglie che vengono quasi sacralizzate. Io l’ho denunciato, ho detto che nell’Islam non c’è famiglia sacra a parte quella del Profeta (la pace e la salvezza siano su di Lui). Ma non appena sollevi una questione, questa viene considerata un attacco alle confraternite e ai loro capi, che in Senegal chiamiamo marabutti. Alcune persone sono state picchiate semplicemente per aver detto che un tale marabutto si era sbagliato su un tale argomento. Anche il Profeta (la pace e la salvezza siano su di Lui) ha detto o fatto cose che il Corano ha corretto. Eppure, gli studiosi musulmani dicono che il Profeta è infallibile, nel senso che Dio non l’ha mai lasciato persistere nell’errore. Ma a parte lui, non c’è nessun altro di cui si deve pensare che tutto ciò che dice in materia di fede sia assolutamente vero. Questo è un grande problema in Senegal perché tutti ritengono il proprio marabutto l’unico vero erede del Profeta. Ciò fa sì che, di tanto in tanto, fedeli appartenenti a confraternite diverse entrino in contrasto per puro spirito di rivalità e culto della persona. Io, per esempio, sono stato criticato e persino insultato per quello che ho scritto sulla nuova moschea dei muridi a Dakar. Ho parlato solo della moschea, ma l’80% delle persone ha pensato che stessi attaccando i muridi e Serigne Touba (“il marabutto di Touba” in wolof, NdR).
Che cosa ha detto della moschea Massalikoul Djinane?
La moschea non è lontana da qui. Qualche giorno prima dell’inaugurazione, ero a casa e stavo parlando con alcuni giovani. Dopo che se ne sono andati ho sentito una recitazione del Corano ad alto volume. Era circa l’una del pomeriggio, l’ora in cui di solito faccio la siesta. Mi sembrava strano e ho pensato che, forse, era il ragazzo del distributore di benzina dietro casa mia che stava ascoltava il Corano alla radio. Sono andato a cercare il ragazzo e lui mi ha detto che il suono proveniva dalla moschea Massalikoul Djinane. Ora, ci sono regole di buona creanza anche per quanto riguarda il Corano. Quando mettiamo il Corano è per ascoltarlo con attenzione e fervore, è il Corano stesso che lo dice di sé. Il Corano non è musica. Qualche giorno dopo, ho scritto un post sulla mia pagina Facebook con parole ben misurate. Ho elogiato la moschea come luogo di preghiera e patrimonio musulmano, e mi sono congratulato con i muridi, che ne sono i promotori. Ho concluso dicendo che, per quanto riguarda il volume, sarebbe meglio controllarlo per non disturbare le persone che vivono vicino alla moschea. Ho anche detto che nell’insegnamento di Serigne Touba non c’è nulla che esorti all’eccesso. La gente ha dimenticato l’80% delle cose che ho detto e mi ha attaccato come fossi un nemico dei muridi e di Serigne Touba. Come vede, è molto difficile affrontare questi temi, anche se il problema del volume l’avevo affrontato più volte ben prima di Massalikoul Djinane: già in passato avevo denunciato il fatto che ci sono troppe chiamate alla preghiera prima dell’alba (fajr). Tutti gli studiosi sanno che questo ha a che fare con la tradizione più che con l’ortodossia. Fortunatamente, la moschea Massalikoul Djinane fa una sola chiamata per ogni preghiera, ma ce ne sono altre che ne fanno diverse. Le cose però stanno cominciando a cambiare.
Il nostro rapporto con l’eredità che ci hanno lasciato le nostre grandi figure è molto problematico perché è troppo emotivo. La moschea dei muridi è solo un esempio che mi ha riguardato personalmente. Ogni giorno nei media c’è qualcuno che viene accusato di tutto e di più solo perché non ha la stessa comprensione delle masse. Così facendo, anche il dibattito islamico puro si sta perdendo. Gli stessi intellettuali a volte cadono nel populismo religioso e dicono ciò che la massa non istruita è abituata a sentire rispetto al lascito delle nostre grandi figure musulmane.
È molto critico verso le confraternite. Può raccontarci il suo percorso di fede?
Il mio percorso ha molto a che fare con l’ambiente islamico in cui sono cresciuto. Mio nonno si è trasferito in Senegal, a Diourbel, dalla regione di Kayes, in Mali. È nato qadiri [membro della confraternita Qadiriyya, NdR] ed è morto qadiri.
Mio padre è nato a Diourbel e si è avvicinato alla Tijaniyya perché in quella località non c’erano molti marabutti qadiri. In Senegal la Qadiriyya è regredita con l’azione di Oumar Foutiyou Tall, che ha lanciato il jihad per diffondere la Tijaniyya. Siccome era diventato difficile ricevere la trasmissione dell’insegnamento qadiri, mio nonno ha affidato mio padre a una famiglia tijani che viveva vicino a lui.
Mio padre, che è ancora vivo e ha 95 anni, è stato uno dei primi a essere formato per lavorare nelle ferrovie e quindi ha viaggiato molto in Europa. A poco a poco è diventato un liberale e, nella nostra famiglia, non ci ha mai costretti a essere tijani o seguaci di altre confraternite. Questa libertà mi ha permesso di incontrare, durante l’adolescenza, alcuni insegnanti arabi che mi hanno influenzato. Molti di loro provenivano dai Paesi del Maghreb (Marocco, Algeria) e dall’Egitto. Avevano studiato all’università nei loro Paesi e quando sono arrivati in Senegal hanno messo in discussione alcune credenze delle confraternite. Io ho avuto la “fortuna” di incontrare alcuni di loro, che facevano attività di predicazione animando dei circoli nelle case. Mi avevano impressionato per la loro semplicità e facevo loro molte domande sulle confraternite e su altri aspetti dell’Islam. Ero giovane e non avevo gli strumenti per capire, ma dal punto di vista razionale nutrivo molte riserve su alcune credenze e pratiche. Loro mi hanno spiegato che il Corano non ha molto a che vedere con certe credenze e pratiche, che invece dipendono più dalle nostre tradizioni africane. Nelle confraternite è molto difficile accedere ai marabutti e confrontarsi con loro. Questi ustāz (professori arabofoni), invece, mi invitavano a casa loro, prendevamo il tè insieme, mangiavamo insieme, discutevamo insieme e potevo fare qualsiasi domanda. Queste persone avevano una pedagogia. Mi hanno spiegato il dogma del tawhīd, cioè l’unicità di Dio, che mi interessava molto.
Come ha reagito la sua famiglia di fronte a questa scelta?
Mio padre si è sorpreso e preoccupato molto. Ero un adolescente e passavo tutto il tempo a mettere in discussione le credenze e le pratiche popolari e, soprattutto, il rapporto di sottomissione del discepolo nei confronti del marabutto, che rasentava il culto della personalità. Quando ho cominciato a leggere il Corano da solo a casa, mio padre e i miei fratelli avevano paura. Mi dicevano che leggere il Corano direttamente era pericoloso e poteva creare dei problemi. Allora mio papà ha chiesto ai miei fratelli e alle mie sorelle di parlarmi e loro gli hanno risposto: «Non possiamo parlargli, non abbiamo gli strumenti. Appena cominci a parlargli, lui ti cita un versetto e non possiamo continuare a discutere». Dicevano che frequentavo degli stranieri, degli arabi che hanno un Islam diverso da quello del Senegal. E quando ho cominciato a fare le preghiere notturne, come faceva il Profeta, mio padre ha chiamato mio zio chiedendogli di intervenire. Mio zio mi ha detto che era da pazzi pregare la sera da solo in un angolo della casa.
È così che sono arrivato a questa comprensione razionale dell’Islam. Comunque resto aperto al dibattito, ho una comprensione dell’Islam che mi soddisfa, ma sono in grado di evolvere se trovo qualcosa di più soddisfacente.
Come si definirebbe come musulmano?
Mi rifiuto di farmi classificare, io sono semplicemente nell’Islam. Non aderisco formalmente a nessuna confraternita ma allo stesso tempo non penso che i miei scritti possano essere inquadrati nel salafismo tradizionale.
Negli ultimi anni il Senegal ha conosciuto una diffusione del discorso salafita. Quante moschee salafite ci sono a Dakar?
Sento spesso persone che si rifanno al salafismo e lo difendono. Non ho delle cifre, perché non mi interessano. Non mi piace questa logica di classificazione delle moschee. Quando le persone mi chiedono qual è l’orientamento della moschea di Point-E, rispondo sempre che è una moschea musulmana, aperta, com’è giusto che sia, ai musulmani di tutte le sensibilità – muridi, tijani, layène, salafiti… Ogni moschea ha ovviamente un gruppo di promotori alla base, ma non può essere ridotta a questo. Ogni moschea inoltre è ancorata a un ambiente e a pratiche proprie, e anche questo è normale. Se vai alla moschea Massalikoul Djinane non troverai necessariamente le stesse pratiche che si trovano a Tivaouane. Ma questo non è un problema, perché i fondamentali della preghiera sono rispettati in tutte le moschee. Io, per esempio, quando vado in missione in Senegal prego in qualsiasi moschea. Non mi chiedo mai a quale sensibilità appartengono i gestori di quella moschea.
Quali reazioni hanno suscitato i discorsi salafiti in Senegal?
Alcuni intellettuali che io chiamo “comunitaristi” dicono che bisogna opporsi al salafismo per principio, in quanto corrente di pensiero violenta estranea alle confraternite. Personalmente non condivido la loro posizione. Come nel caso delle confraternite, bisogna affrontare il salafismo nei suoi argomenti. Non possono dirmi che soltanto la Tijaniyya è l’Islam, altrimenti perché ci sono i muridi o i qadiri? Nessuno detiene il monopolio della verità, nessuno può dire “io sono l’Islam”. Penso che si debba avere una mentalità aperta e accettare il principio della libertà di appartenenza alla sensibilità che si vuole: poiché si è liberi di aderire alle confraternite, bisogna che anche agli altri sia garantita la libertà di appartenenza. Per il resto, si tratta di aprire il dibattito nel rispetto reciproco.
Prendiamo il caso del Dr. Ahmad Lo, una delle figure più influenti del movimento salafita in Senegal. Ahmad Lo si dice apertamente salafita e ha conseguito il dottorato all’Università di Medina. Gli intellettuali comunitaristi dicono che non ha il diritto di insegnare in Senegal perché questo potrebbe creare dei problemi. Ora, nessuno può dire che quello che si studia a Medina non è l’Islam. Quindi bisogna affrontarlo nel merito. Io leggo quello che scrive, a volte mi trovo d’accordo con lui, a volte no. Per evitare i conflitti c’è solo il dibattito.
I Paesi del Golfo esercitano un’influenza diretta sull’Islam senegalese?
No, non sono loro che prendono le decisioni importanti sull’Islam in Senegal, e la maggior parte dei musulmani senegalesi non segue le loro autorità religiose. In generale, i senegalesi che si considerano salafiti hanno studiato nei Paesi del Golfo e hanno dei legami con organizzazioni musulmane e shaykh di lì. Questo è un fatto oggettivo, lo dicono loro stessi e non ne fanno segreto. In Senegal hanno creato associazioni e scuole e, a volte, vengono accompagnati da persone del Golfo. Questo non mi dà fastidio. Il Senegal è un Paese aperto, ognuno va dove vuole e con chi vuole, e io rispetto questa libertà.
Come intellettuale musulmano mi interessa avere un Islam che non sia soffocato da elementi della tradizione africana. Non molto tempo fa ho partecipato a un dibattito televisivo con i layène, secondo i quali il profeta Muhammad (la pace e la salvezza siano su di Lui) si sarebbe reincarnato nella persona del loro capo spirituale, che loro considerano il Mahdi atteso. Ho scritto dicendo che, sulla base delle mie conoscenze del dogma dell’Islam e degli hadīth sul Mahdi, questa credenza è priva di fondamento. Ciò ha suscitato delle violente reazioni verbali e scritte nei miei confronti da parte dei seguaci di questo gruppo. Alla fine, c’è stato il tanto temuto dibattito televisivo durato circa due ore. Al termine del dibattito, dall’altra parte ci sono stati molti problemi perché il mio antagonista non ne è uscito bene. Da parte mia, non potevo essere biasimato per aver criticato un punto di vista che si dice musulmano, perché questo non è peccato. L’Islam delle origini ha conosciuto la tradizione del dibattito, poi c’è stato un declino e sono andati affermandosi il fanatismo e l’attaccamento eccessivo alle scuole giuridiche, alle confraternite e alle persone.
È mai stato in Medio Oriente?
No, non ci sono mai stato. Ho visitato l’Algeria, il Marocco e la Tunisia. Non ho ancora fatto neppure il pellegrinaggio alla Mecca. Ma leggo le cose che vengono dal Medio Oriente. Mi interessa seguire un po’ la loro attualità, per il resto ho constatato che sono società di consumo e del lusso, e questo non mi interessa. D’altra parte, la letteratura islamica prodotta là mi interessa per forza: devo sapere che cosa pensano, e come la storia e l’Islam sono evoluti in Medio Oriente. Ciò che mi interessa è il dibattito aperto tra studiosi e comunità, tra sunniti e sciiti.
Che cosa pensa degli sciiti?
Sono decisamente antisciita, ma questo non significa che gli sciiti non abbiano nulla a che fare con il Senegal. Bisogna dibattere con loro. Io farò del mio meglio per dire ai musulmani senegalesi: «Non siate sciiti». È un’eresia!
Perché crede che sia un’eresia?
Per una questione dottrinaria. Credo che abbiano esagerato la questione dell’imamato fino a cadere nel culto degli imam infallibili.
Lei segue una scuola giuridica?
No. Leggo tutte le scuole giuridiche e prendo le opinioni che ritengo più soddisfacenti rispetto al tema che mi interessa. La convinzione che vuole che si aderisca in via definitiva a una scuola giuridica non regge. All’origine di questa mentalità ci sono i conflitti nella storia dei musulmani. Le scuole giuridiche sono apparizioni storiche, elaborazioni formidabili del genio umano e musulmano, che non bisogna sacralizzare ma rivitalizzare partendo da ciò che le ha originate, vale a dire la ricerca, la compilazione delle fonti, e la messa a confronto di queste ultime per trarre delle sintesi soddisfacenti su determinate questioni in un dato momento. L’esatto contrario di ciò che è attualmente in vigore nel mondo musulmano in nome di queste scuole e delle grandi figure che le hanno contraddistinte. L’Islam precede queste cose. Io sacralizzo soltanto Dio. Il tawhīd, l’unicità di Dio, è il fondamento dell’Islam e della fede abramitica.
Quali sono i suoi riferimenti islamici?
Diffido anche dei riferimenti. Cerco di leggere tutti i grandi pensatori perché bisogna necessariamente conoscere i riferimenti del mondo sunnita – dai Compagni del Profeta alle quattro scuole giuridiche, agli ulema e agli altri pensatori che sono venuti dopo... Ma tutti loro sono stati sapienti e imam del loro tempo, e questo va sempre tenuto presente. Anch’io cerco di essere un imam del mio tempo.
Prendiamo Hasan al-Banna, per esempio. Lo considero un riferimento in quanto riformista nella misura in cui era una persona abbastanza flessibile, non conservatore, e voleva che i musulmani fossero autonomi rispetto all’Europa. Ho grande rispetto per lui, ma resta il fatto che il contesto egiziano degli anni ’20 del Novecento è diverso dal nostro. Alcune sue interpretazioni sono legate al conflitto tra l’Egitto e l’Inghilterra, e tra le correnti del pensiero islamico che ha potuto conoscere, quindi non posso seguirlo in tutto. Il movimento dei Fratelli musulmani non può radicarsi in Senegal come si è radicato nell’Egitto degli anni ’20. Lo stesso discorso vale per alcuni aspetti del pensiero salafita arabo che non si applicano al Senegal. Discuto spesso con i salafiti a questo riguardo. Invece, i pensatori contemporanei mi interessano molto, perché vivono nel mio tempo. Leggo, per esempio, Yūsuf al-Qaradāwī o gli intellettuali che riflettono sul rapporto tra il Corano e la scienza, e sulla grande questione della concordanza tra i versetti coranici e le scoperte scientifiche.
Che cosa pensa dell’esegesi scientifica?
Trovo che sia una materia complessa e che ci siano delle esagerazioni nella ricerca di contenuti scientifici nel Corano. Mi domando sempre perché aspettiamo che sia l’Occidente a fare una scoperta per dire che questa si trovava già nel Corano. Perché i musulmani, che credono e che leggono il Corano tutti i giorni, non sono stati capaci di trarre questa scienza dal Testo sacro? Personalmente sono contrario al concordismo ingenuo. Ai miei interlocutori dico sempre di fare attenzione perché nel momento in cui citano un versetto coranico, la scienza potrebbe già essere evoluta. Di tanto in tanto ascolto dei video su YouTube di intellettuali egiziani, e non solo, che citano centinaia di versetti nel quadro di questo concordismo senza avere però alle spalle alcuna formazione scientifica.
Allo stesso tempo, rifiuto la posizione di quelli che dicono che non c’è niente di scientifico nel Corano. La scienza è un’attività della ragione umana e il Corano è un libro di Segni. Noi, teologi musulmani, diciamo che Dio ha inviato due tipi di Segni – i Segni del Libro e i Segni della natura – e in entrambi i casi bisogna decifrarli. Dio ci parla perché riflettiamo. La questione è capire come l’approccio scientifico può aiutarci a comprendere meglio i versetti coranici che parlano della natura. In ogni caso dobbiamo lavorarci in maniera lucida, evitando le scorciatoie e le posizioni categoriche.
Lei ha lavorato molto sulle divergenze legate alla determinazione dell’inizio del mese di Ramadan. Qual è la sua tesi a questo riguardo?
Il mondo musulmano fatica a risolvere questo problema perché le persone sono bloccate nella tradizione dell’avvistamento e credono che questo sia un obbligo immutabile, mentre è una tradizione risalente al tempo del Profeta e dei suoi Compagni. Oggi possiamo stabilire l’inizio e la fine del Ramadan e di tutti gli altri mesi lunari con il calcolo astronomico. Ma quando l’ho detto e l’ho scritto, molti religiosi, anche con un buon livello d’istruzione, sono rimasti scioccati.
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