Educare nella laicità. Cosa significa veramente insegnare? Quale rapporto profondo si attua tra maestro allievo? E che dinamica si istituisce tra l’apprendere e il trasmettere? Così il moderno pensiero europeo ha indagato una delle esperienze umane più ricche e misteriose.

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Ultimo aggiornamento: 30/07/2024 12:03:48

Nell’introduzione a Differenza e ripetizione, Deleuze si sofferma a delineare il campo di pertinenza dell’atto educativo, insistendo sulla qualità relazionale implicata: «La riproduzione dello Stesso non è motrice di gesti. È noto che persino l’imitazione più semplice comprende la differenza tra l’esterno e l’interno. […] L’apprendimento non si fa nel rapporto che va dalla rappresentazione all’azione (come riproduzione dello Stesso), ma nel rapporto che va dal segno alla risposta (come incontro con l’Altro)» [Deleuze 1968; trad. it. 1971, 44]. 

L’in-segnante è appunto colui che fa segno all’allievo, esigendo una risposta (libera), cioè una ripetizione che non è più quella omogeneizzante dello Stesso (il segno non è infatti riproducibile tale e quale, come accade quando ci rappresentiamo in astratto un’azione da compiere); la risposta, al contrario, è una ripetizione che implica la differenza, sia perché avviene nell’incontro con l’Altro che in-segna, sia perché fa emergere una distanza (una «eterogeneità», dice Deleuze), cioè uno scarto inevitabile, dovuto al modo singolare in cui il segno viene di volta in volta imitato. Il che, secondo Deleuze, costituisce l’aspetto inquietante, intrinsecamente rischioso, dell’educazione: dato che la risposta dell’allievo non è riproduzione di un input, ne segue che «non è possibile dire in anticipo come l’individuo apprenderà, per quali amori si diventa bravi in latino, per quali incontri si è filosofi». Come dire che il rapporto che va dal segno alla risposta non è un movimento meccanico, bensì un «passaggio vivente», che consiste per l’appunto di “amori” e di “incontri” [Deleuze 1968; trad. it. 1971, 268].

Del resto, «noi non apprendiamo nulla con chi ci dice di fare come lui», ovvero con chi non consegna la sua alterità in-segnante in un legame, in uno spazio educativo che include il rischio di una distanza incolmabile e imprevedibile tra segno e risposta. «I nostri soli maestri – continua Deleuze – sono quelli che ci dicono di fare con loro, e che, anziché proporci dei gesti da riprodurre, hanno saputo trasmettere dei segni da sviluppare nell’eterogeneo» [Deleuze 1968; trad. it. 1971, 44].

Ecco perché, si può ben dire che apprendere è «un compito infinito» [Deleuze 1968; trad. it. 1971, 269], non tanto nel senso un po’ banale del “c’è sempre qualcosa da imparare”, ma nel senso che l’incontro educativo con l’Altro è condizione permanente della vita umana. Del resto, se – come dice ancora Deleuze – «ogni educazione è un rapporto d’amore», chi può dire sinceramente di averne abbastanza?  Si potrebbe a questo punto leggere la crisi contemporanea dell’educazione come l’esito di un’incapacità di pensare, e dunque di istituire, lo spazio educativo come spazio di amore e dunque di eterogeneità radicale, come uno spazio che nessuna “tecnicalità”, per quanto raffinata, può addomesticare.

Infatti, più si tenta di governare tecnicamente la relazione educativa, rimuovendo la dimensione inquietante di incontro con l’Altro, più si profila lo spazio della “riproduzione dello Stesso” che, come dice Deleuze, non è “motrice di gesti”. Risultato: all’ipertrofia della tecnica, che non fa segno per nessuno, segue l’impotenza a generare risposte che mettano in gioco il desiderio di imparare facendo con qualcuno. Questo non significa – beninteso – che il savoir-faire tecnico sia, di per sé, da evitare. Anche perché, a ben vedere, lo spazio educativo non è pensabile nemmeno senza una certa “tecnologia dell’insegnamento”: in fondo, persino la semplice disposizione dei banchi in una classe scolastica suppone uno sguardo tecnologicamente avvertito. Dunque suppone la messa in gioco di un potere che, come direbbe Foucault, include la relazione educativa all’interno di un dispositivo politicamente definito e potenzialmente oppressivo [1]. Il punto, però, è se questo sguardo tecno-politico è pensato per favorire l’accadere del rapporto segno-risposta, oppure come un suo surrogato. Solo nel primo caso, la tecnologia dell’insegnamento non genera impotenza, perché siamo costretti – prima o poi – ad ammettere che nessuna tecnica è in grado di far accadere un autentico incontro educativo. 

 

Situazione di Doppia Contingenza

A tal proposito, è interessante notare che questo inevitabile «deficit tecnologico» emerge anche in una prospettiva funzionalistica come quella luhmanniana: la messa a punto del “sistema educativo” deve fare i conti con il fatto, non funzionalizzabile, che «il comportamento degli insegnanti e degli allievi è necessariamente tale che essi possono attribuirsi a vicenda la contingenza dell’azione, che quindi, agiscono sapendo che l’altro potrebbe agire anche in un altro modo». E questo, in fondo, è un buon modo di vedere lo spazio educativo come spazio dell’eterogeneità: «La condizione dell’insegnamento – continua infatti Luhmann – è quella di ogni situazione sociale, una situazione con una doppia contingenza di cui si diventa consapevoli su ambedue i fronti: entrambi sanno che entrambi sanno che si può agire anche diversamente» [Luhmann – Schorr 1979; trad. it. 1988, 131]. 

Tutto ciò ci suggerisce che in ogni relazione educativa, anche quando “tutto va bene”, c’è sempre qualcosa che “non va”, nel senso che nell’incontro in-segnante con l’Altro non tutto va secondo il programma. È chiaro allora che se si insegue il mito (tipicamente postmoderno) della “copertura” tecnologica totale dello spazio educativo, l’emergenza inevitabile del deficit, cioè di quella quota indisponibile di libertà che è in gioco nel rapporto segno-risposta, condannerà l’educazione allo scacco. Al contrario, cercare di farsi responsabili della “doppia contingenza” della relazione educativa, come dice Luhmann, significa ammettere che qualcosa sfugge ad ogni dispositivo di insegnamento.

Certo, è più facile (rassicurante) interpretare la relazione educativa come un trasferimento meccanico di sapere, dove quel che si trasmette corrisponde esattamente a quel che si riceve (come nella riproduzione dello Stesso di cui parla Deleuze, del tutto al riparo dall’inquietudine dell’incontro con l’Altro). Al contrario, se rendiamo operativo il “fare-con” tra maestro e allievo, mettiamo in conto la logica del desiderio, desiderio di sapere e di legame, che spariglia immancabilmente il risultato previsto. Ma se i conti non tornano mai, dobbiamo rassegnarci a praticare un pessimismo preventivo? Non è forse questo che Freud intendeva dire, nel 1937, quando dichiarò che quella dell’educare era da classificare nel registro delle «professioni impossibili» [Freud 1937; trad. it. 1989, 531] [2], il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo?

Per quanto assomigli ad una boutade, l’intento di Freud non era affatto banalmente provocatorio; era piuttosto un monito, rivolto innanzitutto a se stesso, a non dimenticare che ci sono “mestieri” in cui la relazione con l’altro è implicata in modo così radicale che nessuna competenza metodologica può padroneggiarne l’intrinseca rischiosità. È in questa stesso senso che Lacan, riprendendo l’avvertimento freudiano, rilevava come un sintomo prezioso il fatto che, di tanto in tanto, gli insegnanti «sono presi dall’angoscia» [Lacan 1974, 7], per poco che pensano al significato abissale, in termini di esposizione all’alterità, del loro gesto educativo. Un’angoscia che la tecnicalità ipertrofica di oggi, guarda caso, promette di evacuare, togliendo però al contempo la chance di “fare-con”: come dire, niente angoscia, ma niente educazione. Di qui, di nuovo, la crisi e, in un circolo vizioso, sempre più tecnica, come se, appunto, il problema fosse quello di un gap da colmare.

Se dunque pensiamo l’atto educativo nello spazio di quella che Lacan chiama la «dialettica vivente» che si genera tra maestro e allievo [Lacan 1951, 17], allora è chiaro che la risposta alla crisi non può essere (solo) tecnologica. C’è anche – per così dire – un fabbisogno di senso cui far fronte, che spinge piuttosto a riformulare innanzitutto la pregnanza antropologica dell’impresa educativa. E qui ci viene in aiuto von Balthasar, con l’esempio famoso del nuoto: all’allievo in difficoltà di fronte all’acqua, si può utilmente “fare segno”, dando il consiglio di «gettarsi prima nella corrente, per esperire, corpo a corpo con l’onda, che cosa è l’acqua e come vi si avanza». È infatti plausibile pensare che «chi non arrischia questo salto non sperimenta mai che cosa è nuotare». Ma in che senso tale salto è vicino al “fare-con” di cui parla Deleuze? Nel senso preciso che il salto, non è un semplice buttarsi per conto proprio, è invece un «primo atto di fede, della fiducia che si butta» [Balthasar 1985; trad. it. 1989, 29]. 

Potremmo allora dire che l’atto educativo non nasce dal nulla, né tantomeno dal dispositivo che ne disegna il pur necessario pendant tecno-politico; l’atto educativo si genera da un primo atto fiduciale, senza di cui non si darebbe l’eterogeneità richiesta per imparare “a fare con” qualcuno. Infatti, è nella fiducia che si incontra l’inquietante alterità dell’Altro; diversamente ci si butta, per l’appunto, da soli. O meglio, come sempre più accade, non ci si butta affatto. Ecco perché quest’atto fiduciale originario, dice ancora Balthasar, non è irrazionale, è piuttosto «la pura premessa ad accertarsi in via di principio dell’esistenza del razionale» [Balthasar 1985; trad. it. 1989, 29].

Come dire che del razionale si viene a sapere (ci si accerta) non perché ad un certo punto ci si allontana dalla fiducia originariamente accordata all’Altro, bensì permanendo criticamente nel suo orizzonte istitutivo. Qui sta, in fondo, l’idea che l’Occidente fatica a pensare o, forse, non è mai riuscito a pensare davvero: l’idea che nella ragione umana è inscritta la forma della fede. Motivo di più, allora, per continuare a scommettere sull’atto educativo, perché laddove accade, esso fa segno, per chi  vi è liberamente implicato, di una forma di essere-insieme per cui ne va di quel che siamo, oltre che, naturalmente, di quel che vale la pena continuare a insegnare e imparare. 

 

Bibliografia 

Hans Urs Von Balthasar, Theologik, I: Wahrheit der Welt, Johannes Verlag Einsiedeln, Freiburg 1985 (Trad. it. di G. Sommavilla, Teologica, I: Verità del mondo, Jaca Book, Milano 1989). 

Gilles Deleuze, Différence et répétition, PUF, Paris 1968 (Trad. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione,  Il Mulino, Bologna 1971). 

Sigmund Freud, Die endliche und die unendliche Analyse, in «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse», 23 (1937), 209-240 (Trad. it. Analisi terminabile e interminabile, in Opere di Sigmund Freud, a cura di Cesare L. Musatti, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino 1979). 

Jacques Lacan, Introduction théorique aux fonctions de la psychanalyse en criminologie, «Revue française de Psychanalyse», 15 (1951), 1, 7-29. 

Jacques Lacan, Conférence de presse du docteur Jacques Lacan au Centre culturel français, Roma, 29 ottobre 1974, «Lettres de l’École freudienne», 16 (1975), 6-26. 

Niklas Luhmann – Karl Eberhard Schorr, Reflexionsprobleme im Erziehungssystem, Ernst Klett, Stuttgart 1979 (Trad. it. di E. Koetti Cerretti e P. Cipolletta, Il sistema educativo. Problemi di riflessività, Armando, Roma 1988).  Riccardo Massa, Le tecniche e i corpi. Verso una scienza dell’educazione, Unicopli, Milano 1986.  


[1] Da questo punto di vista, sono senz’altro da valorizzare le intuizioni foucaultiane di Riccardo Massa: «L’educazione è resa possibile da una struttura storicamente determinata di procedure materiali e di linguaggi, che trova nel corpo il suo punto di esercizio e di applicazione» [Massa 1986, 572]. 
[2] Le altre due “professioni impossibili”, come è noto, sono “governare” e “psicoanalizzare”.  

 

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