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Ultimo aggiornamento: 30/07/2024 12:00:42

Già nello scorso numero Oasis ha messo a tema la questione educativa. Dopo aver riflettuto sulle tradizioni, apparse tra l’altro come luogo concreto dell’inevitabile interpretazione culturale di ogni fede religiosa, parlare di educazione non è stato frutto di una scelta casuale: l’educazione, in prima approssimazione, è infatti proprio quel processo fatto anzitutto di buone relazioni e di pratiche virtuose, di trasmissione -(traditio) di un’interpretazione complessiva della realtà, offerto alla verifica della libertà dell’educando.  L’indagine condotta finora non ha potuto nascondere che l’impresa educativa è in affanno un po’ a tutte le latitudini. Lo è certamente in Occidente, dove ormai si parla apertamente di “emergenza educativa” [1] e dove non di rado sembra smarrita l’idea stessa di educazione, ma lo è anche nel resto del globo. Come scrive con lucida critica l’intellettuale algerino Mustapha Cherif, già Ministro dell’Insegnamento Superiore e della Ricerca scientifica, in un articolo apparso proprio nello scorso numero di Oasis, «Nel mondo musulmano [...] la società è presa tra due fuochi: quello degli ignoranti che censurano la società e la livellano verso il basso e quello dei gruppi che praticano un mimetismo ispirato a un modernismo immorale» [2]. In molte società post-coloniali il sistema delle scuole statali e non-statali non riesce ancora ad assicurare - un’istruzione di massa di qualità. Eppure – scrive ancora Cherif – «nella difesa della propria sovranità un paese dipende dalla capacità di produrre e assimilare conoscenze». In molti casi è la questione linguistica che diventa specchio del difficile rapporto con la modernità. Che cosa significa per uno studente ricevere la formazione umanistica e religiosa nella propria lingua nazionale e quella scientifica in inglese o francese? Non si insinuerà l’idea che le due aree del sapere siano incomunicabili, aprendo la strada ad atteg¬giamenti schizofrenici che facili concordismi tra scienza e fede non possono sperare di guarire? Non dimentichiamo, tra l’altro, che è stata proprio la questione linguistica a deciderci a pubblicare la rivista Oasis con la sua singolare formula editoriale.  Il nostro obiettivo tuttavia non è indulgere sugli aspetti critici né tanto meno stilare dubbie classifiche sulla rispettiva gravità delle emergenze educative d’Oriente e d’Occidente. Piuttosto, desideriamo offrire qualche linea di proposta.  Ritrovare l’Ampiezza della Ragione Per educare occorre un’idea di uomo e soprattutto una pratica dell’humanum. Non un’idea astratta quindi, ma quella inevitabilmente legata all’esperienza integrale ed elementare di ogni singolo. Redemptor hominis afferma con convinzione: «Non si tratta dell’uomo astratto, ma reale, dell’uomo concreto, storico» [4]. Purtroppo però l’idea di uomo implicita in buona parte della prassi educativa corrente, certamente in Occidente, ma anche a livello globale, per quanto concerne almeno la formazione delle élites transnazionali, è sempre più quella di un soggetto scisso: da un lato starebbe l’oggettivismo razionale e, dall’altro, come complementare, il soggettivismo emotivo. Solo la prima sfera sarebbe di pertinenza dell’educazione, che consisterebbe pertanto in una corretta trasmissione di informazioni, tecniche, abilità e competenze. Educazione in questa prospettiva diventerebbe dunque sinonimo di addestramento all’uso di una ragione per giunta ridotta alla sua componente strumentale. Fuori dal campo della ragione, e in ultima analisi dell’educazione, giacerebbe invece il mondo degli affetti, esclusivo dominio di un soggetto che si costruisce e s’inventa in un’autonomia tendenzialmente autoreferenziale e pericolosamente fragile. Inoltre, si deve almeno accennare al fatto che questa concezione dualista dell’umano sta sempre più cedendo il passo a un positivismo assoluto. Quello che, soprattutto in forza delle strabilianti scoperte delle neuroscienze e delle bioconvergenze, riconduce tutte le espressioni della sfera emotiva, affettiva e morale a pure attività cerebrali che in prospettiva potrebbero, secondo taluni, diventare addirittura artificiali. Siamo così confrontati a una concezione di ragione limitata alla sfera empirico-strumentale, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il logos umano [5] e che devono stare alla base di un’idea adeguata di educazione. Sono solito riferirmi a essa utilizzando il termine classico di paideia, reso celebre dagli studi di Werner Jaeger, ma qui ripreso in un senso largo suggerito da Maritain [6]. La nozione di paideia ha, per cristiani e musulmani, il grande vantaggio di rinviare a una delle due tradizioni che, in modalità diverse, condividono l’eredità classica e più propriamente tardo-antica, nella quale cioè inizia a prendere corpo il confronto tra pensiero ellenico e messaggio biblico.  Nel celebre trattato di etica composto nella Persia del X secolo da Miskawayh, La purificazione dei costumi, si può leggere: «La perfezione propria dell’uomo è duplice, perché egli possiede due facoltà, una delle quali è la cognitiva e l’altra la pratica. Con la prima egli desidera la conoscenza e le scienze e con l’altra l’organizzazione delle cose e la loro sistemazione in buon ordine. Queste due perfezioni sono quelle indicate dai filosofi, che dissero: “la filosofia è divisa nella parte teoretica e pratica. Quando un uomo le -padroneggia entrambe, consegue la piena felicità”» [7]. Questa citazione potrebbe essere di casa -indifferentemente ad Atene, Alessandria o Roma, per non parlare del Medioevo latino. Essa bene illustra quell’Accordo delle due sapienze – cristiana e musulmana – che in questo come in tanti altri campi non è difficile documentare.  Tuttavia, sarebbe ingenuo non tener conto delle acquisizioni del pensiero moderno e contemporaneo circa la struttura originaria (fondamento). Proprio in forza di esse e della loro critica radicale possiamo affermare che sempre e in ogni caso «qualcosa si dà a qualcuno» [8]. La formulazione non fa che ridurre all’osso la convinzione classica circa l’intelligibilità del reale e la capacità dell’uomo di ospitarlo. In questa prospettiva, compito dell’educatore sarà quello di introdurre l’educando a un’esperienza integrale della realtà. Egli lo guiderà a decifrarne il significato, poiché nel suo offrirsi alla mia libertà la realtà mostra di possedere già una sua unità e pertanto un logos, da scoprire [9].  Incontro di Libertà Si potrebbero illustrare agevolmente le ricchezze che questa visione della paideia racchiude rispetto a un’educazione ridotta a mero addestramento, chiusa, a causa di un’acritica riduzione dell’ampio spettro della ragione, a quella domanda sulle cose ultime che, secondo la celebre espressione di Comte, non si sarebbe dovuto più porre. Di forte interesse sarebbe anche, benché non sia possibile farlo qui, indagare che cosa significhi, per cristiani e musulmani, la convinzione che non solo la realtà si dà al soggetto che la ospita, ma è essa stessa data (o, per usare il termine teologicamente più preciso, creata) e rimanda perciò oltre se stessa a un Primo Donatore. Un’altra pista di ricerca comune potrebbe riguardare il processo di conoscenza, nel quale si manifesta una certa unificazione del molteplice che secondo alcuni rimanderebbe a una Unità antecedente, non di semplice carattere per così dire gnoseologico. Sarebbe opportuno discutere del ruolo possibile di un sapere intorno a Dio (non oso dire di una teologia, per le note difficoltà a rendere il termine nel linguaggio tecnico dell’Islam) come ipotesi interpretativa complessiva del reale. Ancora, -potremmo ritornare a indagare che cosa significhi che l’esserci nel mondo si situa per il soggetto nella catena delle generazioni, all’interno dunque di una tradizione. È evidente che si tratta di questioni ineludibili per una riflessione sull’educazione. Ma, come accennavo poco sopra, l’enfasi sulla capacità da parte del soggetto di ospitare il reale intelligibile rappresenta soltanto una dimensione della paideia. L’altra, altrettanto importante, è il suo chiamare in causa la libertà, anzi le libertà, di educatore e di educando sempre inserite in una trama di relazioni sociali. E qui è appropriato parlare di rischio educativo [10]. Infatti l’introduzione a un’ipotesi esistenziale unitaria circa il reale non avviene senza un duplice rischio. Rischio prima di tutto dell’educando, che non può chiamare “sua” alcuna verità se non la fa propria con la sua libertà, come ha visto genialmente Goethe: «Ciò che hai ereditato dai tuoi padri, fallo tuo, per poterlo possedere» (Was du ererbt von deinen Vätern hast, erwirb es, um es zu besitzen) [11].  D’altro canto anche l’educatore non può esimersi da un’auto-esposizione. Non educa colui che dice “fai così” ma colui che così invita: “fai con me così”. Egli infatti comunica ciò che più gli sta a cuore e così facendo si mette in un certo senso a nudo. L’educazione – insegna da sempre la Chiesa – è una forma di carità, un atto di amore nel quale l’educatore offre tutto se stesso nella testimonianza di quella verità che egli già vive come adeguata chiave interpretativa del reale. L’educazione è pertanto in ultima analisi generazione e rappresenta, in tutte le culture, un’esperienza di paternità e di figliolanza. Per noi cristiani essa ha la sua radice nelle relazioni intratrinitarie, relazioni che assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù con il Padre e con lo Spirito. Riflettendo su questo “incontro di libertà” che costituisce la seconda dimensione della paideia, occorre riconoscere con molto realismo che non sempre le religioni, soprattutto quando hanno assunto o si sono viste imporre la funzione di collante sociale, hanno saputo mantenersi al riparo dalla tentazione di immaginarsi portatrici di una verità “talmente evidente” da rendere del tutto estrinseco e quindi superfluo l’assenso da parte della libertà dell’interlocutore. Così oggi succede che mentre si diffonde, almeno a livello delle élite transnazionali, la tendenza a celebrare una libertà svincolata da ogni riferimento alla verità-bene, si manifesti, per reazione uguale e contraria, la spinta ad affermare una verità che non domanderebbe il coinvolgimento della libertà del soggetto per attestarsi come verità. La verità non sarebbe dono vitale ma solo insegnamento formale. È il fondamentalismo, una patologia dell’educazione grave quanto la rinuncia a riconoscere l’obiettiva “pretesa” della verità. Essa può arrivare fino all’uso della violenza, nella quale lo spirito di parte lacera la comunità distruggendo il bene politico dell’essere insieme: quel bene sociale pratico su cui si gioca il futuro delle nostre società plurali. Si ripete di frequente, e non senza ragione, che il migliore antidoto al fondamentalismo e alla violenza è l’educazione. Occorre però aggiungere: non qualsiasi educazione, ma un’educazione che sappia tenere insieme verità e libertà. E quest’ultima nella sua dimensione personale e in quella comunitaria (comprendendo dunque la libertà d’espressione e di critica, anche dolorosa, ove necessario e, quanto alla libertà religiosa, anche la conversione). Solo un’adeguata antropologia, fondata sull’io-in-relazione con Dio, con gli altri e con se stessi, permetterà quindi di evitare una deriva violenta, senza cedere a un insoddisfacente agnosticismo.  È a questo livello, a mio avviso, molto prima che nella questione dell’esegesi dei Testi Sacri, tanto spesso evocata e pure centrale, che si giocherà la partita decisiva per le religioni.  Valorizzare la Società Civile Tratteggiati così per sommi capi i due fulcri attorno a cui s’impernia l’impresa educativa, occorre aggiungere che la loro corretta articolazione dipende oggi anche dal modo in cui essa viene disciplinata dalle istituzioni statali. Infatti, sia nel mondo euro-atlantico, e in particolare nell’Europa continentale, sia nei paesi a maggioranza musulmana, per ragioni storiche che qui non è possibile approfondire, sono soprattutto i governi a farsi carico della gestione dell’istruzione e dell’organizzazione dei sistemi scolastici nazionali. Il modo in cui essi promuovono l’educazione finisce dunque per essere un indice significativo di come intendono il rapporto tra società civile e Stato e in particolare il rapporto tra Stato e religioni. L’affanno che abbiamo registrato in merito all’educazione è dunque anche un sintomo di un più generale travaglio della vita pubblica. Sono soprattutto due le distorsioni che le istituzioni statali possono indurre nel processo educativo. Da un lato la spinta a privilegiare a tal punto la libertà, intesa come pura libertà di scelta, da ritenere che solo un atteggiamento di stretta neutralità possa garantire l’espressione di tutti i soggetti implicati. Col pretesto di non ledere i diritti di nessuno, ci si prefiggerà di formare gli educandi senza proporre loro un’ipotesi sintetica di interpretazione della realtà. Ma tale metodo non solo è illusorio, dal momento che è inconcepibile scindere la mondo-visione con cui il docente interpreta la realtà dalla modalità con cui propone la disciplina che insegna, ma anche fallimentare, perché fatalmente destinato a indebolire la stessa capacità di apprendimento dello studente. Ogni conoscenza infatti scaturisce innanzitutto da un’affezione in grado di muovere le facoltà della ragione (memoria, percettività, proiettività, induttività, deduttività, logica, ecc.). Dal lato opposto è sempre in agguato il pericolo dell’indottrinamento. Proprio perché molti governi gestiscono direttamente l’istruzione, essi non vanno mai esenti dalla tentazione di imporre un insegnamento ufficiale a scapito della varietà di soggetti presenti nella società. Queste considerazioni finali non intendono tuttavia scoraggiare il coinvolgimento delle istituzioni statali nel processo educativo. Gli esiti di una libertà assoluta di educazione potrebbero infatti risultare assai incerti e -problematici, come dimostra, in alcuni paesi musulmani, il caso delle madrase radicali sorte al di fuori di ogni controllo pubblico. L’azione dei governi dovrà piuttosto trasferirsi dalla gestione diretta dell’educazione e dell’istruzione alla valorizzazione ed eventualmente al controllo dei soggetti presenti nella società civile e liberamente impegnati nell’impresa educativa. Se a livello antropologico l’educazione può essere descritta come l’affascinante intreccio di libertà e verità, la sua espressione più completa a livello politico si realizza attraverso la libertà di educazione. Essa misura la disponibilità dello Stato a svolgere la sua funzione di promotore e garante di una società civile vitale in cui le persone e tutti i corpi intermedi, a partire dalle famiglie, possano esercitare, tra gli altri, il diritto fondamentale primario di istruzione e di insegnamento. Tale dinamica di libertà, laddove effettivamente assecondata, anche solo in maniera parziale, mostra già evidenti benefici. Diverse esperienze in atto sia nei Paesi euro-atlantici che in quelli musulmani documentano per esempio che l’incontro tra uomini e donne di culture e religioni diverse è spesso molto più avanzato nelle scuole e nelle università che nel resto della società. Segno tangibile che l’educazione, se adeguatamente intesa, costituisce una delle vie maestre per orientare positivamente l’odierno processo di mescolamento di popoli e civiltà.

 

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[1] Rinvio in prima battuta alla Lettera alla Diocesi e alla Città di Roma di Benedetto XVI sul compito urgente dell’educazione (21 gennaio 2008) e al recente rapporto-proposta La sfida educativa (Laterza, Roma-Bari 2009), curato dal Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.
[2] Mustapha Cherif, Una riforma contro la violenza e la perdita del senso, «Oasis» 11 (2010), 55.
[3] Ibi, 52.
[4] Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 13.
[5] Cfr. Jacques Maritain, Distinguer pour unir ou les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Paris 1932 (Trad. italiana Distinguere per unire. I gradi del sapere, a cura di E. Maccagnolo, Morcelliana, Brescia 1974); cfr. Saturnino Muratore, Prefazione dei curatori, in Bernard J.F. Lonergan, Opere, III: Insight. Uno studio del comprendere umano, Città Nuova, Roma, 2007, XXI, n. 1.
[6] Jacques Maritain, Pour une philosophie de l’éducation, Fayard, Paris 1959 (Trad. italiana Per una filosofia dell’educazione, La Scuola, Brescia 2001).
[7] Ahmad Ibn Muhammad Miskawayh, The Refinement of Character: a translation from the Arabic of Ahmad Ibn Muhammad Miskawayh’s Tahdhi al-Akhlaq by Constantine K. Zurayk, the American University of Beirut, Beirut 1968, 36.
[8] Angelo Scola, Quale fondamento? Note introduttive, «Communio» 180 (2001), 16.
[9] Cfr. Angelo Scola, Ospitare il reale. Per un’idea di università, Mursia - Pontificia Università Lateranense, Milano - Roma 1999.
[10] Di grande attualità permane il geniale: Luigi Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2006.
[11] Johann Wolfgang Goethe, Faust, I, vv. 682-683.

 

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