Le domande con cui i fedeli delle due religioni si trovano oggi a fare i conti sono sufficientemente condivise
Ultimo aggiornamento: 23/07/2024 15:30:22
«Esiste la possibilità di fare lo stesso identico discorso sugli arabi e per gli arabi»[1]. Con quest’ardita affermazione Samir Kassir chiudeva la sua prefazione al pamphlet L’infelicità araba, poco prima di perdere la vita in un attentato, nel giugno 2005. Con un non scontato adattamento da “arabi” a “musulmani”, penso che questa frase esprima bene una delle scommesse di questi primi nove anni di Oasis. Non è necessario tenere un discorso ad extra per i musulmani – nel solco del “dialogo” e della cortesia – e un altro discorso ad intra, per le comunità cristiane d’Occidente e d’Oriente. Le domande con cui i fedeli delle due religioni si trovano oggi a fare i conti sono sufficientemente condivise per permettere una comprensibilità reciproca, a condizione naturalmente che ve ne siano l’intenzione e gli strumenti culturali.
Per la verità, questa scoperta si è dischiusa a noi solo gradualmente. All’inizio infatti l’accento fu posto soprattutto sul legame di comunione che unisce le comunità cristiane d’Occidente e d’Oriente. Appariva (e tuttora appare) essenziale far interagire le differenti modalità di vivere la fede cristiana (ciò che ho chiamato “le interpretazioni culturali della fede”), in un arricchimento reciproco. Tale resta il punto sorgivo di tutta la nostra intrapresa: esplorare le dimensioni della vita cristiana, attraverso il confronto tra le diverse modalità espressive che essa assume, offrendo dove possibile un sostegno di tipo culturale a quelle tra di esse che faticano maggiormente. Tuttavia in quest’idea era già contenuta in nuce la successiva apertura verso i credenti musulmani, quel “parlare su di loro e con loro” a cui si riferisce Kassir. Il modo di vivere la propria fede infatti non può prescindere dalla considerazione del contesto in cui essa si colloca. Il che, applicato al Medio Oriente, significa: non è possibile separare le minoranze cristiane dalle società musulmane in cui vivono. Mi sembra questa una delle ragioni profonde per cui il dialogo tra i credenti non può ridursi a una «scelta stagionale o strategica», ma rappresenta «una necessità vitale», per riprendere la parole di Benedetto XVI a Colonia[2]. Oggi a Tunisi si verifica un ulteriore allargamento: è infatti la prima volta che Oasis si affaccia a una realtà nella quale la Chiesa è numericamente molto ridotta e per la grande maggioranza costituita da stranieri. Qui l’incontro con l’Islam appare imprescindibile: la tentazione del recinto o dello “splendido isolamento”, che talvolta può affacciarsi nel Levante, non ha luogo, per il semplice fatto che non esiste nessun’isola sulla quale ritirarsi, nessun recinto nel quale rifugiarsi.
Tuttavia, la “fase due” dell’incontro con le società musulmane già apre allo sviluppo successivo, una “fase tre” efficacemente espressa nel sottotitolo del nostro convegno: la Tunisia interpella l’Occidente. A questo proposito, credo che a nessuno sfugga l’apparente paradossalità del luogo del nostro convenire. Se vogliamo aggiungere alla nostra riflessione il tema dell’Occidente, perché tenere il nostro Comitato a Tunisi? In effetti, la scelta non troverebbe reale giustificazione se il nuovo orizzonte da esplorare fosse, parallelamente a “il Cristianesimo in Oriente”, qualcosa come “l’Islam in Occidente”. Allora sì che il nostro incontro sarebbe fuori posto. Ma sarebbe fuori posto tutta la nostra iniziativa, perché finiremmo per giustapporre un argomento all’altro. Non lo è invece una volta chiarito che il tema vero, che si sviluppa dal medesimo punto sorgivo per dinamica interna, è per noi oggi il meticciato di civiltà e culture. Su questa sfida epocale, come cercherò di mostrare, cristiani e musulmani di ogni latitudine possono illuminarsi a vicenda.
Lo smarrimento
«Non domandarci la formula che mondi possa aprirti / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»[3]. Quando Eugenio Montale componeva questi versi, all’interno della raccolta Ossi di seppia (uno dei vertici poetici del Novecento italiano), aveva probabilmente in mente come primo referente il fascismo. Era il 1923 e l’impossibilità a dire se non «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» denunciava non tanto la censura e il controllo poliziesco del regime di Mussolini, all’epoca ancora piuttosto blando, ma la crisi interna al pensiero occidentale, che a quel regime aveva aperto la strada. Non diversa mi pare oggi la condizione esistenziale per tanti in Occidente. «Ciò che non vogliamo» è molto chiaro: non vogliamo la crisi, non vogliamo perdere il lavoro, non vogliamo finire nell’insignificanza e nella solitudine. Forse sappiamo balbettare anche qualcosa in positivo: vogliamo rapporti più veri, persone che ci assicurino, abbiamo ancora a cuore la famiglia, come ho potuto toccare con mano in modo imponente durante l’incontro mondiale che si è svolto a Milano. Ma non sappiamo come fare a dare carne a questi desideri, perché stentiamo a dire, in positivo, «ciò che noi siamo». A livello pratico, della vita di un popolo, e pur considerando l’esistenza di minoranze che si sottraggono a questa impietosa diagnosi, ciò può essere visto come l’ultimo effetto di un processo iniziato secoli addietro: la crisi dell’universale.
La crisi dell’universale è in Occidente prima di tutto la crisi della religione, anzi più precisamente di una religione ben precisa, o meglio dell’interpretazione culturale predominante che essa aveva assunto nel corso del Medioevo: è la crisi della cristianità sacrale, che dopo la riforma si divide in due campi avversi, impegnati a combattersi in una serie di guerre devastanti per il continente. I primi passi della filosofia moderna possono essere letti, tra le altre cose, anche come un tentativo di preservare l’universale del Cristianesimo senza il Cristianesimo. Le intenzioni soggettive possono essere anche le migliori; penso all’esempio di Leibniz che s’illudeva, con la sua filosofia, di aver trovato una spiegazione “razionale” dell’Eucarestia sulla quale potessero finalmente concordare cattolici e protestanti. Tuttavia il risultato fu un attacco frontale al valore universale della singolarità cristiana. Mentre la fede veniva ridotta a faccenda privata, altri universali secolarizzati facevano la loro comparsa: la Scienza, la Ragione, il Diritto, la Storia, poi più rozzamente la Razza, la Classe o il Mercato[4]. La critica che questi universali mossero alla religione ebbe effetti devastanti per la religione (il beato Newman così sintetizzava la preghiera del tipico teologo liberale del suo tempo: “O Dio, se esisti, salva la mia anima, se ho un’anima”) e non può essere liquidata con un improponibile ritorno all’antico; ma al tempo stesso è oggi evidente che questi universali secolarizzati non hanno mantenuto la loro promessa. Da qui un certo ritorno del religioso in Occidente, ma soprattutto la diffusione di un atteggiamento di “gaia rassegnazione”[5], una rinuncia compiaciuta all’universale, e dunque alla ricerca di un senso umano della propria esperienza. Fino a quando è scoppiata la crisi economico-finanziaria, che ci ha tolto la gaiezza per lasciarci soltanto la rassegnazione[6]. Come uscirne?
Una nuova insistenza
Anche se il percorso storico che ho soltanto accennato non è certo sconosciuto al mondo musulmano, soprattutto alle sue regioni, come la Tunisia, che sono da più tempo in contatto con l’Occidente, rimane vero che per la grande maggioranza di queste popolazioni l’Islam continua a svolgere la funzione di riferimento universale. È quanto hanno dimostrato anche le elezioni del 2011, con il successo dei partiti d’ispirazione religiosa. «Ciò che siamo» dunque è abbastanza chiaro ai più: dei musulmani. Peraltro le rivoluzioni arabe, nella loro grande diversità, hanno lanciato con forza la questione della libertà. Si può dire infatti che praticamente su tutto c’è oggi disaccordo in questi Paesi, tranne che su una cosa: non si vuole il ritorno della “cultura dell’autoritarismo”, che si è espressa per lunghi decenni. Anche se è chiaro che la domanda di libertà è una costante per ogni civiltà, in ogni epoca, nondimeno mi pare nuova, in questa fase di transizione, l’insistenza d’accento.
Tuttavia la libertà politica comporta per sé stessa un rischio: può anche assumere la faccia poco attraente della frantumazione e del babelismo. «Libertà sì, ma fino a un certo punto» – ragionano perciò alcuni, preoccupati dall’attacco all’universale che vedono profilarsi all’orizzonte. L’attenzione si sposta allora alla conquista di un’egemonia che eserciti una funzione livellatrice, per garantire un minimo comun denominatore alla società. Il problema è però che cosa avviene alla religione al termine di questo processo: non rischia forse di mutarsi in pura e semplice ideologia? Come si domanda il pensatore iraniano Dariush Shayegan, «Rivoluzione o Islam? È la religione che cambia la rivoluzione, la santifica, la risacralizza? O è al contrario la rivoluzione che storicizza la religione, che fa di essa una religione impegnata, in breve un’ideologia politica?»[7]. Il fondamentalismo, qualsiasi forma assuma nelle diverse civiltà, rivela qui la sua subordinazione alla modernità. È una parte del problema, non la sua soluzione.
La persona e la sua libertà
Vent’anni dopo la poesia di Montale, tutta la portata distruttiva del fascismo si era manifestata in Italia. Era tramontata l’illusione che potesse essere una via per la restaurazione degli antichi valori. Malgrado le iniziali, ingenue illusioni, era vero il contrario: gli antichi valori erano stati subordinati alla volontà di potenza e al culto del capo. In campo cattolico, uno dei primi ad avvertire l’esito fatale della parabola era stato Jacques Maritain nel suo Umanesimo integrale del 1936. Un suo appassionato lettore, Augusto del Noce, cercava poco dopo di applicarne la lezione al contesto italiano. Dato che il parallelo con l’esperienza della Democrazia Cristiana è stato più volte proposto per i nuovi partiti a riferimento religioso islamico, non è forse inutile accostarsi con maggiore precisione alla proposta politica che essa sviluppò nel primo dopoguerra italiano. Scrive del Noce:
L’unità di oggi, della città, non può essere l’unità della fede. L’unità della città moderna non sarà quindi data da un presupposto, l’unità della fede: ma da uno scopo: stabilire condizioni di vita tali che la verità possa dal singolo soggetto venir vissuta in quanto verità […] Lo stato medievale aveva un’unità massimale, un’unità nei principi che reggono la città. Lo stato moderno deve tener conto di quella che è la grande scoperta della spiritualità moderna, la scoperta della forma: l’unità non deve essere cercata nei principi ma nella garanzia della forma in cui questi principi sono accolti, nella garanzia quindi della libertà. Ma questa forma non è astratta, ma ha un contenuto, il valore della persona[8].
L’ampia citazione merita qualche commento. Innanzitutto, l’esigenza di unità è insopprimibile anche nella città moderna. Senza di essa, infatti non si può dare comunità. Tuttavia tale unità non può più riposare – afferma il filosofo – su un presupposto anteriore. Non è infatti possibile fare appello direttamente alla religione come fondamento della politica, perché il campo religioso si è irrimediabilmente frantumato. Ma se il presupposto della città viene meno, non ne viene meno lo scopo. A questo proposito Del Noce non teme di usare la parola, all’epoca ancora abbastanza corrente (oggi molto meno), di verità. In questo senso la proposta si smarca da una concezione relativista della convivenza democratica, nella quale l’unità della città viene ricercata nel paradossale accordo sull’assenza di ogni presupposto e fine comune. Tale verità tuttavia non è intesa solo come una questione primariamente intellettuale, ma praticamente connessa a condizioni di vita tali da rendere possibile un’esistenza all’altezza dell’essere umano.
Da ciò discende l’ultima, fondamentale precisazione: «Questa forma non è astratta, ma ha un contenuto, il valore della persona». È la dignità della persona, tante volte invocata durante la rivoluzione tunisina, a evitare che dalla forma si scada nel formalismo. Da qui si comprende per inciso l’insistenza sulla libertà religiosa nel magistero recente. Difendere la libertà religiosa infatti significa riconoscere che la persona umana ha una dignità insopprimibile, anche quando oggettivamente sbaglia, prendendo un cammino che non solo giudichiamo, ma realmente è, errato o comunque parziale. Fatte salve le necessarie precisazioni sul giusto ordine pubblico, essa rimane pertanto la cartina di tornasole di tutte le altre libertà e dunque del fondamento su cui solo può riposare una città plurale.
Sembrerebbe pertanto che l’universale della religione, per conservarsi senza tradirsi nell’ideologia, debba oggi assumere una dimensione personalista (che ovviamente implica anche una nuova concezione dei rapporti sociali ed economici), senza la quale l’insistenza sulla libertà rischia di rimanere formale e retorica. Ovviamente, anche la dignità della persona, non potendo essere presa come auto-evidente, richiede una sua fondazione, che credo possa essere convincentemente rinvenuta a partire da un’attenta considerazione del bene pratico dell’essere insieme. Tuttavia in questa sede rinuncio a questo lavoro di giustificazione, facendo invece leva sul senso intuitivo della dignità della persona che cristiani e musulmani riconoscono quando pongono l’uomo come interlocutore di una Parola divina. È chiaro che in una società plurale una tale affermazione va tradotta, per riprendere Habermas, in termini comprensibili anche ai non-credenti[9].
Possiamo allora provvisoriamente concludere che la presenza musulmana ricorda all’Occidente come esso non abbia ancora finito di fare i conti con la questione dell’universale e dell’universale religioso in particolare. Essa lo interpella – ecco ricomparire il termine del nostro sottotitolo – a sottoporre a revisione il modello che ha elaborato, senza per questo rinnegare le indubbie acquisizioni in termini di convivenza civile.
È chiaro che vale anche il processo inverso, poiché l’Islam, a detta di molti suoi pensatori, è chiamato a pensare in modo nuovo il tema della libertà. Senza addentrarmi in questo terreno, vorrei soltanto lasciar intuire come nell’esperienza travagliata del rapporto che il Cristianesimo ha instaurato con la modernità politica, tra rifiuto, illusione passatista e assunzione critica delle istanze positive, si possano rinvenire elementi utili anche per i popoli musulmani e per la domanda di libertà che le loro rivoluzioni hanno così potentemente messo in campo.
Proprio in questo senso parlo di un’illuminazione reciproca, ovvero, per uscire dalla metafora, di un’oggettiva rilevanza culturale che il Cristianesimo oggi assume per l’Islam, e viceversa. Una rilevanza reciproca, un orizzonte comune in cui è a mio avviso racchiuso il significato e la sfida di quel processo di mescolamento di popoli oggi sempre più evidente e a cui abbiamo dato fin dal primo numero di Oasis il nome di meticciato di civiltà e di culture.
Eppure come due vecchi vicini, che si sono scontrati per tutta la vita, cristiani e musulmani faticano a prendersi in seria considerazione. Risuona ancora la domanda provocatoria di Natanaele: «Da Nazaret può venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46). Sì, da Narazet può venire qualcosa di buono, anche oggi, anche per le società musulmane. Ecco perché sono convinto che, se sapremo andare oltre il pregiudizio del già saputo, vedremo spalancarsi davanti a noi spazi inaspettati: il nuovo cantiere di Oasis.
*Intervento pronunciato al Comitato Scientifico di Oasis “La religione in una società in transizione. La Tunisia interpella l’Occidente”, Tunisi, 18-19 giugno 2012
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[1] Samir Kassir, L’infelicità araba, Einaudi, Torino 2006, IX.
[2] Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti di alcune comunità musulmane, Colonia 20 agosto 2005.
[3] Eugenio Montale, Ossi di seppia, Mondadori, Milano 2003, 5. Prima edizione: Gabetti, Torino 1925.
[4] Cfr. Francesco Botturi, Secolarizzazione e laicità, in Pierpaolo Donati (a cura di), Laicità: la ricerca dell’universale nelle differenze, Il Mulino, Bologna 2008, 295-337.
[5] Cfr. Angelo Scola, La solidarietà esigenza etica e speranza spirituale?, in «La Rivista del Clero Italiano» 93 (2012) n. 3., 168-182.
[6] Ha affermato di recente Benedetto XVI, all’assemblea generale della Conferenza episcopale italiana: «Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale», Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea generale della CEI, Roma, 24 maggio 2012.
[7] Dariush Shayegan, Les illusions de l’identité, Éditions du Felin, Paris 1992, citato in Khaled Fouad Allam, L’Islam globale, Rizzoli, Milano 2002, 79.
[8] Augusto Del Noce, Posizioni del cattolico, testo manoscritto inedito del dicembre 1943, ora in ID., Scritti politici 1930-1950, a cura di Tommaso Dell’Era, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001, 186.
[9] Su questi argomenti mi permetto di rinviare a: Angelo Scola, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007; ID., Buone ragioni per la vita in comune. Religioni, politica, economia, Mondadori, Milano 2010; ID., La società plurale. Prospettiva teologica, in Gabriel Richi Alberti (a cura di), Pensare la società plurale, Marciaum Press, Venezia 2010, 7-22.