Tra aprile e maggio 2018, l’Armenia ha vissuto la sua Rivoluzione di Velluto. La popolazione ha manifestato pacificamente per settimane a Yerevan, la capitale, fino a indurre il Primo ministro a dare le dimissioni

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:54:51

L’uso della non-violenza per cambiare un governo è una novità in un Paese non occidentale. Un segno di maturità del popolo armeno, che negli ultimi mesi ha messo in atto una vera e propria rivoluzione pacifica. Ma il difficile deve ancora venire.

 

Il contesto storico-politico

L’Armenia è una repubblica post-sovietica, indipendente dal 1991. Non ha risorse energetiche proprie e dal punto di vista militare e politico dipende dalla Russia. Oltre a essere un piccolo Paese di 3 milioni di abitanti, con poche risorse e una situazione geopolitica estremamente grave, le sue frontiere sono chiuse in due direzioni: a ovest con la Turchia, erede della Repubblica che ha operato il genocidio armeno nel 1915 e non lo ha ancora riconosciuto; a est con l’Azerbaijan, con il quale ha combattuto una guerra sanguinosa dal 1991 al 1994 per la regione del Nagorno-Karabakh, sospesa temporaneamente da un armistizio.

 

Dal 1991 fino a oggi, l’Armenia non ha ancora trovato il modo di uscire da questa situazione geopolitica, nonostante il sostanzioso apporto finanziario proveniente della sua ricca diaspora. In Russia, infatti, vivono almeno 2 milioni di armeni (forse 3) e altri 5 o 6 milioni sono sparsi nel resto del mondo. Cospicue rimesse arrivano nel Paese da singoli lavoratori, come da associazioni più strutturate, in sostegno ai privati, ma anche come finanziamenti pubblici per progetti, opere e infrastrutture.

 

Un Paese post-sovietico

Nei primi anni ’90, l’Armenia era uno dei Paesi post-sovietici più democratici, ma questa tendenza si è indebolita nel ventennio successivo, quando è stata governata da due presidenti del partito repubblicano. Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan, entrambi originari del Nagorno-Karabakh ed “eroi di guerra” per l’indipendenza della regione dall’Azerbaijan, si sono succeduti in maniera contestata da molti per frode elettorale. Entrambi hanno rappresentato un gruppo di potere molto chiuso, che ha egemonizzato tutte le leve economiche e politiche del Paese, aumentando i livelli di corruzione della classe politica e accaparrandosi la maggior parte delle ricchezze del Paese, comprese quelle provenienti dalla diaspora. Al di là del declino del sistema democratico, comunque migliore rispetto ad altri Paesi della maggior parte dell’area post-sovietica, il problema principale è la qualità della vita, troppo bassa, che penalizza buona parte della popolazione, costringendola a emigrare.

 

Come la maggior parte delle repubbliche post-sovietiche, l’Armenia era una Repubblica presidenziale: il presidente deteneva la maggior parte dei poteri e aveva un vincolo temporale di due mandati. Nel dicembre 2015, l’allora presidente Serzh Sargsyan ha indetto un referendum che avrebbe trasformato la Repubblica armena da presidenziale a parlamentare, oltre a prolungare il mandato del capo di Stato da 5 a 7 anni. Alla vigilia del termine del suo secondo mandato, nell’aprile 2018, non potendo ricandidarsi alla presidenza senza violare la Costituzione, Sargsyan si è autoproclamato capo del Governo, in modo da prolungare il suo governo. Un escamotage che in molti non hanno visto di buon occhio. L’indignazione della popolazione ha creato una forte opposizione, alla cui guida si è posto Nikol Pashinyan.

 

Nato come giornalista, Pashinyan è un personaggio politico molto attivo, già parlamentare e capo di un piccolo partito di opposizione. Dopo giorni di manifestazioni pacifiche, è riuscito a convincere la maggioranza del Parlamento, compresi i repubblicani al Governo, che la popolazione non era d’accordo sulla nomina del Primo Ministro Sargsyan e, per evitare la guerra civile, è riuscito a provocarne le dimissioni, presentate il 23 aprile 2018. Dopo un breve periodo di transizione, l’8 maggio Nikol Pashinyan ha ottenuto dal Parlamento la nomina a Primo Ministro.

 

La novità della non-violenza

In un Paese non occidentale è raro che chi detiene il potere, potendo usare la forza in un momento decisivo e critico per la propria posizione, decida di cederlo senza spargimento di sangue. Questo è un forte segnale di maturità democratica. In passato, l’Armenia ha vissuto diversi episodi di violenza politica, ma la società civile ha conosciuto dei passi avanti verso una maggiore democraticità e durante la Rivoluzione di Velluto, come l’hanno definita gli stessi manifestanti, lo Stato ne ha preso atto, optando per la non-violenza. A Serzh Sargsyan e al partito repubblicano bisogna riconoscere di aver preferito fin dal principio il tentativo conciliatorio al pugno di ferro. La svolta di alcuni poliziotti, che hanno preso parte alle manifestazioni verso la fine di aprile, ha contribuito alla transizione pacifica.

 

L’equilibrio geopolitico

Il difficile, però, viene adesso. L’Armenia ha fatto un passo importante verso un sistema maggiormente democratico, ma i gravi problemi economici e geopolitici rimangono. Il piccolo Paese caucasico continua a dipendere dalla Russia, con la quale, tuttavia, i rapporti sono molto buoni. Yerevan è inoltre obbligata a relazionarsi con Mosca perché ha bisogno della sua protezione militare sul territorio, per via delle tensioni con l’Azerbaijan. Ancor prima di essere nominato capo del Governo, Nikol Pashinyan si è affrettato a rassicurare il Cremlino riconfermando la fedeltà armena alla Russia: un gesto inevitabile per la stessa esistenza politica e militare del Paese. Da parte sua, Mosca è stata molto prudente sulla rivoluzione armena, affermando che si trattava di una questione interna al Paese e che avrebbe rispettato le scelte popolari, sebbene dietro le quinte si sia sincerata che non ci sarebbero stati cambiamenti a livello geopolitico.

 

Il nuovo Governo capitanato da Pashinyan ha riconfermato che in politica estera manterrà la stessa linea dei predecessori, ma la vera sfida sarà affrontare la questione economica interna. L’aspettativa da parte della popolazione è molto alta: il nuovo Governo dovrà dimostrare di meritare l’enorme fiducia che la popolazione gli ha riservato. Ma le prospettive ci sono e sono buone.

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