Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:41
In alcuni Paesi europei l’obbligo di indossare la mascherina e il divieto di indossare il velo islamico stanno generando un paradosso. Anche se per ragioni diverse, sia l’azione di coprirsi che quella di non coprirsi il volto possono essere sanzionate.
La questione era stata sollevata la scorsa settimana dal Washington Post, che ha descritto la situazione francese: a causa della pandemia, per uscire di casa è necessario indossare la mascherina, pena una multa di 150 euro, mentre indossare il velo resta vietato perché incompatibile con i valori della Repubblica. Olivier Roy ha dichiarato che “non è un’ipocrisia, è una schizofrenia”, ed è connessa alla religione islamica: coprire il volto in nome dell’islam non è accettabile, ma lo è per altri motivi.
Come scrive Le Figaro, la legge del 2010 prevede espressamente la possibilità di indossare dispositivi che coprano il volto per motivi sanitari, ma la questione ha comunque scatenato un acceso dibattito in Francia. Anche perché, fino a poco tempo fa, la carenza di mascherine ha spinto le persone a usare sciarpe e foulard per coprirsi naso e bocca.
Il settimanale Marianne ha risposto duramente al quotidiano americano, sottolineando l’evidente differenza tra un dispositivo sanitario e un tipo di abbigliamento religioso, dichiarando inoltre che il solo intento del “WaPo” fosse quello di dipingere la Francia come “l’epicentro mondiale del razzismo e dell’intolleranza”.
L’articolo del Washington Post è stato poi ripreso anche da Kenneth Roth, il presidente di Human Rights Watch, che in un tweet ha accusato il governo francese di islamofobia. Anche in questo caso la risposta francese sul Figaro è stata fortemente critica: “I due oggetti non hanno gli stessi obiettivi: la salute pubblica per uno, e il confinamento delle donne per l'altro. Uno ha un ruolo primario nella salute, l'altro un ruolo autoritario di controllo sociale che è incompatibile con i nostri principi e la nostra civiltà”.
Una questione che non è nuova per la République. Al Jazeera ricorda che il presidente Sarkozy aveva infiammato il dibattito pubblico dicendo che il problema del velo non riguardava tanto la religione quanto “la libertà e la dignità delle donne”. Un discorso che era stato tacciato di strumentalizzazione del femminismo e della laicité per escludere i musulmani dall’identità francese.
Alla polemica si è unito anche il giornale canadese Le Devoir, secondo il quale il divieto di indossare simboli religiosi, tra cui appunto il velo islamico, garantisce la “neutralità religiosa” delle istituzionali statali, ed è un presupposto per il buon vivere comune, mentre la libertà religiosa e di coscienza individuale viene ugualmente tutelata dalla legge.
La questione è dibattuta anche in altri Paesi: il New York Times riporta le opinioni di varie personalità, tra cui una donna musulmana inglese che con il divieto di indossare il velo si è sentita “personalmente attaccata”, mentre ora la diffusione di dispositivi per coprire il volto l’ha fatta sentire “vittoriosa”. Karima Rahmani, a capo di un’associazione di donne che indossano il niqab nei Paesi Bassi (dove il divieto di indossare il velo è stato introdotto per ragioni di sicurezza) dice di trovare “ironica” la situazione, ma anche di aver notato un cambiamento positivo nei suoi confronti quando esce di casa: per anni è stata considerata “pericolosa e disconnessa dalla società, ma ora tutti indossano le mascherine”.
L’imminente disfatta di Haftar
È di lunedì la notizia della riconquista della base militare di al-Watiya da parte del governo libico internazionalmente riconosciuto di Fayez al-Serraj. La base si trova 90 miglia a sud della capitale Tripoli, scrive il Guardian, ed era in mano alle forze di Khalifa Haftar dal 2014. Il generale sta cercando di riprendere il controllo della capitale da oltre un anno, con scarsi risultati. Mercoledì il Governo di accordo nazionale (GNA) di Serraj ha riconquistato anche le città di Bader e Tiji, al confine con la Tunisia. Le Monde ricorda anche le battute di arresto che le forze di Haftar hanno subito a metà aprile, quando il GNA ha riconquistato le località costiere di Sabratha e Surman. Una vittoria resa possibile solo grazie al sostegno turco: Ankara ha infatti installato in Tripolitania una serie di difese antiaeree e ha rifornito le forze di al-Serraj con droni di ultima generazione che hanno permesso a Tripoli di riprendersi il controllo dei cieli.
La fornitura di materiale bellico da parte di Ankara è garantita grazie a un accordo di cooperazione militare siglato lo scorso novembre, insieme a un altro trattato che invece concede alla Turchia il controllo sul Mediterraneo orientale, ricorda Middle East Eye.
Anche Haftar è stato recentemente munito di ulteriore materiale bellico, ma da parte russa: Bloomberg documenta l’invio di almeno otto velivoli di fabbricazione sovietica partiti da una base aerea in Siria. Haftar, dopo il rifornimento, ha annunciato che si appresta a lanciare la più grande offensiva aerea della storia della Libia.
Consapevoli dell’imminente disfatta di Haftar, l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di ritirare il loro sostegno al generale, scrive Mada Masr. Secondo un funzionario egiziano “La questione oggi, per l'alleanza Egitto-UAE-Francia che ha sostenuto Haftar fino a questo punto, è di decidere la loro prossima mossa in vista della sconfitta di Haftar”. La sola strada percorribile al momento sembra quella diplomatica: Arab News riporta i tweet del Ministro degli Esteri emiratino Anwar Gargash, il quale ha invocato un immediato cessate il fuoco e il “ritorno al processo politico” per porre fine alla guerra.
Ma mentre il conflitto evolve verso la sua prossima fase, altre tensioni emergono in Libia. Middle East Eye racconta come a fine aprile gli uffici locali del General Authority of Religious Endowments and Islamic Affairs (Awqaf) siano stati costretti a chiudere dopo un discorso apparso in televisione del muftì Sadiq al-Ghariani che ha definito l’Awqaf un “nemico” che segue la “via di Al-Madkhali”. I madkhaliti sono una corrente salafita che a partire dal 2011 ha cercato di espandersi grazie alla guerra civile. Ora che sembra che il conflitto stia giungendo al termine, la Libia rischia di lasciare spazio a pericolosi scontri religiosi.
Aya Hachem e il settarismo
Domenica scorsa una giovane ragazza musulmana di origini libanesi è rimasta uccisa in una sparatoria a Blackburn, nel Regno Unito. Aya Hachem era al secondo anno di legge e amministratrice fiduciaria dell’ente di beneficenza The Children’s society. Trasferitasi a Lancashire dal Libano con la sua famiglia una decina di anni fa, è stata descritta da tutti come un’ottima studentessa che aspirava ad aiutare gli altri con il suo lavoro. “Un raggio di speranza”, la descrive il Guardian, riportando le parole di Mark Russell, direttore di The Children’s society.
Secondo le prime ricostruzioni, la ragazza non era l’obiettivo dell’attacco, ma solo una passante rimasta coinvolta in una faida tra gang locali. Finora la polizia inglese ha arrestato tredici sospettati e ha sequestrato un’auto che si pensa possa essere stata utilizzata nella sparatoria, scrive la BBC. Le forze di polizia che stanno indagando sul caso hanno sottolineato che non considerano l’incidente di matrice terroristica o a sfondo razziale, riporta Al Jazeera.
La comunità musulmana è rimasta scioccata dall’evento, verificatosi nel mese di Ramadan, e subito sono state avviate delle raccolte fondi a suo nome, tra cui una per la costruzione di una moschea che ha già raggiunto l’obiettivo di 30.000 sterline. Ma alla notizia che Aya potesse provenire da una famiglia sciita, i musulmani sunniti che stavano organizzando le raccolte fondi hanno preso in considerazione la possibilità di sospenderle, racconta Muslim Vibe. Il sito riporta i tweet (alcuni dei quali ora cancellati) che hanno dato avvio alla polemica e quelli di molti altri utenti musulmani che al contrario hanno denunciato questo modo di agire settario, soprattutto in una vicenda così drammatica.
Schermaglie informatiche tra Iran e Israele
Secondo quanto riportato dal Washington Post, il 9 maggio i sistemi informatici del porto Shahid Rajee in Iran hanno smesso di funzionare all’improvviso. Era chiaro che i computer che regolano il flusso di navi e merci del porto fossero stati hackerati da una potenza straniera, ma solo nelle settimane successive è emerso che dietro l’attacco ci fosse Israele.
Il cyberattacco israeliano deve però essere inteso in risposta a un precedente tentativo iraniano di penetrare nei sistemi informatici che regolano la distribuzione dell’acqua nelle aree rurali dello Stato ebraico. L’attacco iraniano si era verificato a fine aprile, ricorda Haaretz, e, sebbene fosse apparso sui media, non aveva ricevuto grandi attenzioni.
In base a quanto scrive il New York Times, l’intelligence israeliana inizialmente non aveva intenzione di rispondere all’offensiva di Teheran, perché un’eventuale ritorsione non avrebbe potuto causare danni elevati. Tuttavia, dopo la pubblicazione della storia sui media israeliani, l’ex Ministro della Difesa Naftali Bennett decise di reagire alla provocazione iraniana per mandare un chiaro messaggio alla Repubblica islamica: qualora le infrastrutture israeliane venissero colpite, ne avrebbero pagato le conseguenze.
In nessun caso si sono registrati morti o danni permanenti: nel caso dell’Iran il traffico del porto ha subito dei rallentamenti, mentre in Israele sono state danneggiate delle valvole del sistema idrico che sono già state sostituite. Ma quello che conta nella guerra cibernetica è la pressione psicologica. Come scrive il Times of Israel, gli ufficiali di sicurezza israeliani hanno intimato agli enti sensibili di innalzare i livelli di allerta in previsione di nuove minacce. Secondo Al Monitor, infatti, gli attacchi di aprile e maggio potrebbero solo essere le prove generali per una più estesa guerra informatica, ma viene anche da chiedersi se una guerra cibernetica possa trasformarsi in un conflitto convenzionale.
Nello scontro si sono immischiati anche gli Emirati Arabi Uniti. Martedì un volo Etihad è atterrato all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv con materiale sanitario per i palestinesi, nonostante gli EAU e lo Stato ebraico non abbiano formali legami diplomatici, commenta Al Jazeera, ma con questo primo volo commerciale sembra abbiano dato avvio a una nuova fase di cooperazione. La risposta dell’Iran non si è fatta attendere, e lo stesso giorno l’ayatollah Khamenei ha accusato Abu Dhabi di “aver tradito la Palestina sostenendo Israele”, scrive The Times of Israel.
Queste schermaglie si verificano in un momento particolarmente delicato per Israele. Domenica si è insediato il nuovo governo, che per i primi diciotto mesi sarà presieduto da Benjamin Netanyahu, il quale ha ribadito la sua volontà di annettere parte della Cisgiordania, anche se la decisione dovrà ricevere l’approvazione dell’amministrazione americana. Come ricorda La Croix, quest’ultima a novembre potrebbe cambiare, e lo sfidante di Donald Trump, Joe Biden, si è già dichiarato contrario all’annessione.
Nel frattempo, martedì il leader palestinese Mahmoud Abbas ha annunciato la fine della cooperazione con Israele e gli Stati Uniti, rifiutando tutti gli accordi presi finora, compresi quelli che riguardano la sicurezza israeliana.
Tuttavia, come spiega il Guardian, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina aveva già votato la decisione di porre fine alla cooperazione con Israele nel 2018, ma aveva lasciato ad Abbas la scelta di quando metterla effettivamente in pratica. Varie minacce da parte palestinese si sono susseguite negli anni ma non sono proseguite in azioni concrete. Al contrario, come ricorda Foreign Policy, Abbas finora ha sempre garantito la cooperazione palestinese con le forze di sicurezza israeliane. È evidente che la questione dell’annessione sia un punto dolente, e gli analisti sono divisi su come potrebbe evolvere la vicenda.
In breve
Il Qatar ha offerto di sostenere le riserve di valuta straniera della Turchia tramite l’ampliamento di un accordo di scambio (Financial Times)
La situazione finanziaria dell’Arabia Saudita è sempre più in bilico: la settimana scorsa Riad ha deciso di triplicare l’IVA a partire da luglio, portando l’imposta al 15% (BBC)
La caporedattrice del giornale egiziano Mada Masr, Lina Attallah, è stata arrestata e rilasciata qualche ora dopo (Al Jazeera)
Rami Makhlouf, cugino del presidente siriano Bashar al-Assad, ha pubblicato un terzo video su Facebook in cui afferma di pagare la cifra richiesta dal governo per liberare i suoi dipendenti, ma rifiuta di dare le sue dimissioni (France24)
Su alcuni quotidiani italiani è circolata la notizia dell’arresto di uno dei capi dell’ISIS in Iraq. L’uomo in questione, Abdul Nasser al-Qardash, non è capo dell’ISIS, era già stato arrestato l’anno scorso dalle forze americane e recentemente è stato consegnato alle autorità irachene (il Post)
Nella città di Smirne, in Turchia, al posto dell'adhan alcune moschee hanno diffuso la canzone "Bella ciao". La sezione pronvinciale della Direzione degli affari religiosi, dopo aver parlato di sabotaggio, ha avviato un'indagine interna (La Repubblica)
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