Come fondare un vivere insieme senza identificare un nemico comune?
Ultimo aggiornamento: 27/06/2024 14:24:09
La teoria mimetica di René Girard offre un aiuto fondamentale per comprendere il nesso tra la violenza, il sacro e l’origine delle culture umane. E apre alla provocazione: come fondare un vivere insieme senza identificare un nemico comune?
I processi che consentono agli uomini di moderare la loro violenza sono tutti simili, e nessuno di loro è estraneo alla violenza[1]
La teoria antropologica elaborata da René Girard, nota come teoria mimetica, fornisce una potente spiegazione dei rapporti tra la violenza, il sacro e l’origine delle culture umane. La sua attualità risiede nel fatto che essa costringe a prendere coscienza del ruolo della logica sacrificale nella costituzione delle comunità umane e sfida i credenti a testimoniare un Dio che non sia in alcun modo complice della violenza. Cercherò ora di dimostrare come essa apra la via a una demistificazione radicale della violenza.
Prima di presentare brevemente i principali temi sviluppati da Girard, credo sia utile sottolineare l’originalità del suo percorso intellettuale e spirituale[2]. Come lui stesso ha affermato in più occasioni, il suo ritorno alla religione non può essere dissociato dal suo percorso intellettuale. In una certa misura si può sostenere che esso discenda dalle sue prime scoperte. È attraverso lo studio della letteratura, in particolare dei grandi romanzi del XIX secolo, e poi delle tragedie greche e di Shakespeare, che Girard ha elaborato la sua teoria del desiderio umano e della violenza, prima di estendere le sue ricerche ai miti e ai rituali, al religioso arcaico e infine alla Bibbia.
Il desiderio mimetico
Già Aristotele aveva compreso l’importanza di quel fatto antropologico che è la nostra propensione all’imitazione: «L’uomo si distingue dagli altri animali in quanto è più incline a imitare». Un’altra scoperta importante, di molto successiva (Freud), rivela il ruolo del desiderio nei processi psichici.
Il concetto girardiano di desiderio mimetico combina queste due idee. Esso è riassumibile nella formula «l’uomo desidera sempre secondo il desiderio dell’Altro». Il desiderio umano è perciò radicalmente diverso dai bisogni e dalle pulsioni animali, anche se questi fanno ugualmente parte della sua natura: nell’uomo c’è una particolare intensità del desiderio legata al suo carattere mimetico.
Una volta soddisfatti i loro bisogni naturali, gli uomini desiderano intensamente, ma non sanno esattamente che cosa, non essendo guidati da nessun istinto. Essi non hanno un desiderio proprio. Il proprio del desiderio è di non essere proprio[3].
Secondo Girard, la struttura fondamentale del desiderio umano è triangolare. È questo carattere relazionale a dare al desiderio la sua colorazione, la sua intensità propriamente umana. «L’appetito per il cibo e il sesso non sono ancora il desiderio. Sono una questione biologica che diventa desiderio con l’imitazione di un modello»[4]. In ogni desiderio c’è un soggetto, un oggetto e un mediatore, colui che indica al soggetto ciò che deve desiderare. Girard prende l’esempio dei bambini che si contendono lo stesso gioco per illustrare il fatto che il desiderio mimetico non risiede in un rapporto definito tra un soggetto e un oggetto, ma nell’imitazione di un desiderio altrui. È la convergenza dei desideri a costituire l’oggetto – reale o immaginario – del desiderio.
Il cuore della teoria mimetica è il rapporto tra desiderio mimetico e violenza[5]. In sintesi, il desiderio mimetico genera rivalità, a sua volta fonte principale della violenza. Occorre tuttavia precisare che l’imitazione non conduce soltanto alla violenza. La capacità d’imitazione e la propensione a imitare sono ciò che permette all’essere umano d’imparare e riprodurre modelli di comportamento adeguati alla vita in società. Così, l’ammirazione è una forma generalmente molto positiva di imitazione. Ciò non toglie che i modelli che orientano e strutturano il desiderio siano sempre suscettibili di diventare ostacoli o rivali, tanto più se si tratta di individui reali e se si collocano allo stesso livello di esistenza sociale del soggetto del desiderio. Per di più, la rivalità stimola il desiderio mimetico, ciò che può causare una frenesia che tende a sfociare nella violenza.
La violenza al cuore dell’ordine sociale
Quando all’interno di un gruppo la violenza mimetica si esaspera, essa mette in gioco la stabilità del gruppo e la sua stessa sopravvivenza. La tesi di Girard è che i primi gruppi umani sono usciti dalla condizione animale per effetto di un’intensificazione del mimetismo, che per questo essi hanno dovuto confrontarsi con dinamiche di autodistruzione senza poter disporre dell’argine rappresentato nelle nostre società dall’istituzione giudiziaria, e che il sacro e la cultura sono apparsi innanzitutto come risposte pratiche a questa sfida. L’invenzione del sacro, che è tutt’uno con il processo di ominizzazione, è il risultato della sacralizzazione di fenomeni catartici di espulsione della violenza a scapito di una «vittima espiatoria» unanimemente respinta dal gruppo. Per sacralizzazione s’intende qui il fatto di emarginare una realtà percepita dall’insieme del gruppo come diversa, portatrice di una rottura nel senso comune, e di attribuirle uno statuto particolare. In questo senso, il sacro implica per definizione il mistero, l’incomprensione. Fin dalle sue origini la cultura umana è dunque un’impresa di contenimento della violenza: non un addomesticamento cosciente fondato sul controllo razionale delle passioni, ma piuttosto un patto oscuro stipulato col desiderio assassino e fondato sull’ignoranza di quest’ultimo. Attraverso l’interpretazione di un gran numero di miti e rituali arcaici, ma anche con la rilettura delle tragedie greche e dei grandi testi della letteratura mondiale, Girard mostra allo stesso tempo l’universalità di questo meccanismo elementare e la diversità delle forme culturali che esso produce.
Nella Violenza e il sacro (1972), Girard mostra che i riti sacrificali sono mimi, tentativi di riprodurre eventi sanguinosi che hanno consentito al gruppo di fare l’esperienza misteriosamente gratificante dell’unanimità. L’essenza del sacrificio consiste nella sostituzione delle vittime espiatrici con vittime rituali, esseri umani e poi animali messi a morte allo scopo di riprodurre il meccanismo di polarizzazione dei sentimenti all’interno del gruppo. Quanto ai miti, essi sono le tracce memoriali di quegli eventi, il risultato di lunghi processi di rielaborazione volti più o meno consapevolmente a nascondere, giustificare e razionalizzarne la violenza bruta. Uno dei temi più importanti di Girard è quello dell’incomprensione. Le storie che gli uomini si raccontano, i simboli e le istituzioni – tutto l’edificio della cultura umana – sono legati a un fondamento omicida di cui conservano la traccia e la logica pur nascondendone la brutale realtà. Le istituzioni sono sempre, in un certo modo, eredi del sacrificio e non è un caso che ad esse si attribuisca un carattere sacro. L’esempio della giustizia è emblematico.
L’Agnello immolato
Anche il Vangelo racconta apparentemente la stessa storia, quella di un sacrificio salvifico. Ma lo schema è invertito: la storia è raccontata dal punto di vista dell’Agnello, della vittima innocente. La Bibbia nel suo insieme può essere letta in questa prospettiva, come una rivelazione/denuncia progressiva della violenza e del suo radicamento nel desiderio mimetico (l’invidia, la gelosia). La scoperta di una violenza insita nell’uomo diventa sempre più precisa, mentre Dio ne è correlativamente esonerato. Da questo punto di vista la condanna dei sacrifici da parte dei profeti rappresenta uno spartiacque decisivo. La Passione di Cristo segna il compimento di questo processo: Dio prende il posto della vittima innocente per rendere manifesto lo scandalo di un ordine umano fondato sulla violenza. Come ha mostrato James Alison[6], uno dei continuatori di Girard nel campo della teologia, l’assoluta non violenza di Dio è sottolineata con particolarmente chiarezza nei racconti dell’apparizione di Cristo risorto, dove Egli si mostra libero da qualsiasi risentimento o desiderio di vendetta.
Cristo indica inoltre la via della conversione del desiderio mimetico, designando se stesso come modello perfetto la cui imitazione consente di sfuggire alla trappola del desiderio mimetico. Modello perfetto per la perfezione del suo messaggio ma anche perché sottomette completamente il suo desiderio alla volontà del Padre («non la mia, ma la tua volontà»). In altri termini, secondo lo schema girardiano del desiderio, Cristo si presenta come mediatore di un desiderio privo di invidia e rivalità perché subordinato al desiderio al Padre, l’assolutamente Altro che per noi non può essere un rivale[7].
L’interpretazione della passione di Cristo come inversione dello schema sacrificale è il cuore della lettura girardiana dei Vangeli. Nei suoi primi scritti sul Cristianesimo, questa scoperta aveva condotto Girard a rifiutare l’uso della parola sacrificio per parlare della Passione, criticando apertamente la Lettera agli Ebrei su questo punto. In seguito, influenzato dal teologo Raymund Schwager, Girard ha cambiato posizione, come riconosce nella postfazione del libro di Schwager. Ma non senza precisare che se la morte di Cristo – e più precisamente qualsiasi dono di sé – può essere qualificato come sacrificio è a condizione di un cambiamento radicale del senso del termine: «Tra il sacrificio così definito e il sacrificio arcaico la distanza è così grande da non poterne immaginare una maggiore»[8]. Girard illustra tale dualità con l’episodio del giudizio di Salomone, che mette in scena due possibili significati del termine sacrificio, quello dell’omicidio riconciliatore e quello del dono per la vita.
Una forza autonoma
La Teoria mimetica consente di comprendere meglio i meccanismi della violenza, cause ed effetti del suo scatenamento. Si può certamente obiettare che esiste una violenza predatrice che avvicina l’uomo all’animale: essa si manifesta quando gli esseri umani rubano, saccheggiano e uccidono spinti dalla fame. Ma l’essenza della violenza umana, ciò che essa ha di tipicamente umano, appartiene a un altro registro. Che sia l’effetto diretto di una rivalità o il risultato di un processo più o meno complesso di espulsione, di contenimento o di deviazione, la violenza mantiene un carattere fondamentalmente mimetico. Ciò significa che essa è contagiosa, esplosiva e poco dominabile. E significa anche che non bisogna mai prendere troppo sul serio le ragioni che essa si dà. La violenza non è mai semplicemente un mezzo che può essere messo a servizio di un fine, è una forza autonoma che sfugge inevitabilmente al controllo di chi si lascia contagiare da essa. Per comprendere la dinamica di un conflitto violento o potenzialmente violento conviene considerarlo fin da subito come una situazione di rivalità mimetica piuttosto che cercare di soppesare le motivazioni razionali dei protagonisti. Del resto la violenza umana più tipica è quella che oppone i fratelli nemici, come molti esempi storici dimostrano.
La guerra tra gli Stati si è voluta razionale, codificando il ricorso alla violenza in un diritto di guerra. Ma questo inquadramento non ha mai resistito agli assalti della violenza mimetica. L’ultima opera di Girard, Achever Clausewitz (2007), mostra come il grande teorico della guerra moderna avesse compreso questo aspetto. Per Clausewitz l’essenza della guerra è il duello, la violenza reciproca che conduce quasi necessariamente all’«ascesa degli estremi». La guerra del 14-18 illustra bene questa realtà. Le cause iniziali del conflitto, sulle quali gli storici ancora discutono, furono rapidamente oscurate dall’odio reciproco, mentre le motivazioni e i comportamenti dei rivali diventavano indistinguibili, mossi com’erano dalla stessa furia distruttrice. Se da qualche decennio le forme storiche della guerra tra le nazioni sono in declino, lo stesso non si può dire per le guerre civili, i massacri di massa e il terrorismo. Siamo regolarmente assaliti da ondate di odio omicida che difficilmente trovano una spiegazione in cause oggettive. Girard ci aiuta a prendere coscienza del carattere imprevedibile, ricorrente e poco dominabile della violenza collettiva, un processo ciclico che si nutre dei suoi stessi effetti.
Nelle società cosiddette civilizzate, la violenza è incanalata e regolata in diversi modi. Oltre che tramite l’istituzione giudiziaria, ciò avviene inculcando precocemente norme comportamentali che implicano un rigoroso controllo dell’aggressività fisica o ancora grazie all’estensione degli ambiti di attività sociale che consentono l’espressione legittima e regolata della violenza, come l’attività economica e lo sport. Nonostante questi paletti, rischiamo in ogni momento di essere travolti dalla forza esplosiva dei processi mimetici. Se la violenza è tanto difficile da dominare, è anche perché essa produce la propria narrazione, la propria menzogna, e ciò contribuisce a mascherarla e ad alimentarla. È l’essenza dei miti, ma anche del discorso nazionalista e di tutte le ideologie che puntano a rafforzare l’unità e l’identità di un gruppo umano, qualunque sia la sua dimensione e la sua natura. Oggi come ieri, il modo più semplice per definirsi è designare un nemico reale o immaginario, oppure stigmatizzare una devianza.
A titolo illustrativo, ricordiamo fino a che punto le guerre moderne abbiano contribuito a creare le nazioni europee, rendendo possibile, tra le altre cose, l’istituzione di meccanismi di solidarietà collettiva. La storia peraltro è ricca di episodi di linciaggio e caccia alle streghe, comode soluzioni per consentire a una comunità in crisi di ritrovare la sua unità. È evidente che l’ascesa dei partiti estremisti in un’Europa che si trova a dover fare i conti con la disoccupazione e la stagnazione economica rientra nello stesso ordine di fenomeni. Ma il male e ben più esteso e subdolo di quanto potremmo pensare. A dirla tutta, esso è di una temibile banalità. Si pensi innanzitutto ai casi di molestie sul lavoro o nelle scuole, ma anche a molte altre situazioni in cui ci viene comodo, in buona coscienza, rafforzare i nostri legami e creare una sorta di convivialità a scapito di capri espiatori, di “parafulmini”, che pur essendo fisicamente assenti e dunque non esposti direttamente ai nostri sarcasmi, non per questo ne sono meno vittime. A ben vedere, la stabilità dei gruppi di cui facciamo parte, la forza del loro essere insieme, ha spesso come “puntello” nascosto un individuo ritualmente deriso o criticato, una figura di “ciò che noi non siamo”. Basti ricordare la banale esperienza di un pasto tra amici durante il quale raramente si riesce a evitare che siano l’odio e il disprezzo per qualcuno a creare comunione.
«Vi do la mia pace»
Nelle nostre società la violenza ordinaria resta comunque contenuta. Nella maggior parte dei casi i linciaggi sono diventati puramente verbali. Senza dimenticare l’effetto dei paletti menzionati sopra, Girard osserva che grazie al Cristianesimo siamo diventati più consapevoli e, in una certa misura, prevenuti verso i processi di vittimizzazione. D’istinto sappiamo che non è consentito fare di un capro espiatorio una vera vittima. Dietro ogni vittima della violenza vediamo infatti la figura del Crocifisso, anche se non ne abbiamo coscienza. Nietzsche non si sbagliava quando denunciava la pietà come una delle conseguenze nefaste del Cristianesimo. Il posto che le vittime occupano nello spazio pubblico riflette una delegittimazione della violenza. Ma essa non ci rende ancora capaci di inventare modi di essere insieme che non si fondino sull’esclusione e perciò sulla violenza. Se è vero, come dimostra Girard, che l’uomo ha imparato a fare società attraverso l’esperienza rassicurante dell’unanimità assassina, non stupisce che la violenza faccia parte di noi stessi.
A questo punto occorre domandarsi che cosa significhino veramente queste parole di Gesù: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Nella prospettiva girardiana esse assumono chiaramente un significato molto preciso. La pace del mondo è la pace che si fa sulla pelle di un terzo, un patto subdolo stipulato con la violenza. Costruire la vera pace non può avere altro significato che cercare di costruire un essere insieme che possa fare a meno di un nemico e del capro espiatorio o, per dirlo in altri termini, creare comunità «la cui unità non sia il risultato della contrapposizione ad altri»[9].
Nonostante la venuta di Cristo, il legame tra la violenza e il sacro è continuamente rinnovato. Nella Francia laica i monumenti ai caduti hanno a volte preso il posto dei santuari. Non è un caso che durante la prima guerra mondiale si sia parlato di unione sacra, e che la strada utilizzata dai rinforzi che andavano a combattere a Verdun sia stata chiamata Via sacra. In questi fatti si scorge una permanenza del sacro più arcaico all’interno di società che si credono moderne.
Ma bisognerebbe parlare anche della persistente ambiguità del senso del sacrificio all’interno del Cristianesimo stesso, delle sofferenze inutili imposte agli altri e a se stessi credendo in questo modo di compiacere Dio. Il ripudio della violenza e di tutto ciò che a essa conduce è il cuore del messaggio cristiano. Prenderne coscienza costringe a interrogarsi su quanto della violenza sacrificale permanga nella nostra concezione della vita religiosa e nelle nostre immagini di Dio. Il sacrificio rimane il punto cruciale in cui il peggio affianca il meglio. È fin troppo evidente che questa ambivalenza continua a contaminare la nostra immagine di Dio. A questo proposito vorrei citare le parole di un celebre canto di Natale: «Mezzanotte! Cristiani, è l’ora solenne in cui l’uomo Dio discese fino a noi. Per cancellare la macchia originale e di suo Padre arrestare l’ira». Siamo capaci di pensare Dio come «sorgente di bontà non ambivalente»[10], totalmente per noi, privo ogni sadismo e spirito di vendetta?
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
[1] La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972, 41.
[2] René Girard è nato nel 1923 ad Avignone. Ha insegnato negli Stati Uniti ed è membro dell’Académie Française. Ha acquisito notorietà nel 1961 con un’opera di critica letteraria Mensonge romantique et vérité romanesque, che contiene una prima esposizione della sua teoria del desiderio. Tra le sue opere più note La violence et le sacré (1972) e Des choses cachées depuis la fondation du monde (1978), in cui tratta per la prima volta del Cristianesimo.
[3] Je vois Satan tomber comme l’éclair, Grasset, Paris 1999, 1-5.
[4] Ibid.
[5] È quanto suggerisce la Bibbia fin dalle prime pagine: «Nel libro della Genesi il desiderio è chiaramente rappresentato come mimetico: Eva è istigata da un serpente a mangiare la mela e Adamo, con la mediazione di Eva, desidera lo stesso oggetto, in una evidente catena mimetica. C’è inoltre un elemento di invidia nell’omicidio di Abele da parte di Caino. E l’invidia è la rivalità mimetica»: Ibidem.
[6] James Alison, The Forgiving Victim, Doers Publishing, Glenview 2013.
[7] «L’unica libertà che abbiamo è imitare Gesù, o imitare qualcuno che imita Gesù; ricordate ciò che Paolo dice ai Corinzi: “Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori!” (1Cor 4,16). Non lo chiede con lo spirito dell’orgoglio individuale. Si mostra come esempio perché imita Gesù, che a sua volta imita il Padre. Fa semplicemente parte di una catena infinita di una “imitazione buona”, un’imitazione priva di rivalità che il Cristianesimo cerca di costituire. I santi sono gli anelli di questa catena». Girard, Les origines de la culture, Desclée de Brouwer, Paris 2004, 137.
[8] Raymund Shwager, Avons-nous besoin d’un bouc émissaire?, Flammarion, Paris 2001, 357.
[9] Nel suo commento ad Atti 10, Alison mostra come Pietro (attraverso le sue visioni di alimenti impuri) arrivi a capire che la Chiesa di Cristo non può essere fondata su prescrizioni rituali la cui funzione primaria sia definire i confini di un gruppo. The Forgiving Victim, cap. 7.
[10] Ibidem, cap. 6