Per gli sciiti il jihad militare è uscito dalla storia per ritornarvi solo alla fine. E tuttavia per tutti gli uomini è una battaglia già cominciata, ma qualcuno vuole anticipare lo scontro finale
Ultimo aggiornamento: 27/06/2024 14:32:42
La nozione di “guerra santa” (jihâd) ha svolto un ruolo determinante nel destino universale dell’Islam. Il profeta Muhammad fu il primo a combattere per imporre quella che considerava la verità a lui rivelata: prima con la parola, alla Mecca, poi, dopo l’esilio a Medina (hijra), con la forza delle armi. È durante il secondo periodo della sua predicazione che il termine jihad, che inizialmente indicava lo sforzo morale e fisico, acquisì il senso di “guerra santa”. Nonostante il jihad non faccia parte dei cinque pilastri dell’Islam, “combattere con la propria persona e i propri beni sulla via di Dio” è un dovere religioso per tutta la comunità islamica. Questo imperativo è subordinato a un obiettivo bellico e alla possibilità di vittoria.
Il primo scopo del jihad infatti non era la conversione di tutti, bensì la sottomissione all’ordine islamico. Quanto al sostegno di Dio, esso è promesso nei versetti 22,39-40:
È dato permesso di combattere a coloro che combattono perché son stati oggetto di tirannia: Dio, certo, è ben possente a soccorrerli. […] Iddio soccorrerà per certo chi soccorre lui
L’islamistica occidentale ha generalmente ripreso dalla tradizione maggioritaria sunnita la nozione di una “guerra santa” condotta da Muhammad e dai musulmani dopo di lui per il trionfo temporale della loro religione.
Il jihad secondo i musulmani sciiti
Questa rappresentazione unitaria ignora tuttavia le posizioni della principale minoranza dell’Islam, gli sciiti. Lungi dall’essere scismatici tardivi, i “partigiani” (shî‘a) di ‘Alî b. Abî Tâlib – cugino del Profeta e primo uomo ad aver creduto alla sua predicazione, sposo della figlia Fatima e padre della sua sola discendenza maschile – costituiscono storicamente il primo gruppo politico-religioso dell’Islam. Solo in seguito il partito maggioritario prenderà il nome di ahl al-sunna e li definirà eretici.
Gli sciiti imamiti o duodecimani, maggioranza della minoranza sciita, considerano ‘Alî e undici uomini della sua discendenza come uniche guide o imam legittimi della comunità dopo il Profeta, in virtù dell’infallibilità (‘isma) che Dio avrebbe loro concesso. Se gli sciiti sono diventati minoritari è perché sono usciti perdenti nel contesto delle violenze politiche che segnarono gli albori dell’Islam. La loro sconfitta e la vittoria di quanti avrebbero costituito la maggioranza sunnita determinò la costruzione storica della loro religione.
Tra sacralizzazione e secolarizzazione
Che cos’è dunque la “guerra santa” per quei vinti della storia che sono gli sciiti? Quale posto occupano nella loro visione del jihad i credenti delle altre religioni e gli adepti dell’Islam maggioritario? Per comprenderlo occorre innanzitutto tornare alla storia degli imam[1] secondo le più antiche raccolte di tradizioni o hadîth che sono loro attribuite[2] , e tenendo conto delle evoluzioni giuridiche e ideologiche che la nozione di jihad conobbe in seguito all’occultamento del dodicesimo imam. Emergerà allora che questa nozione conobbe nell’Islam sciita imamita un duplice movimento d’interiorizzazione e d’esteriorizzazione, di sacralizzazione e di secolarizzazione, dall’esito ancora imprevedibile.
La storia delle origini dell’Islam s’è aggrovigliata una prima volta all’indomani stesso della morte del suo profeta. Si afferma comunemente, seguendo le fonti sunnite, che Muhammad non abbia lasciato alcuna istruzione in merito sulla sua successione alla guida della comunità e che la designazione di Abû Bakr come califfo sia avvenuta per consenso. Le fonti sciite più antiche, oggi prese in considerazione dalla storia critica, narrano invece un’altra versione dei fatti. Esse affermano innanzitutto che ‘Alî b. Abî Tâlib fu espressamente designato dal Profeta come suo legittimo successore e testimoniano come nelle ore successive alla morte del Profeta, mentre ‘Alî era impegnato a lavarne il corpo, i compagni storici si siano riuniti in segreto per designare califfo uno di loro, attuando non solo un “colpo di stato” nel senso moderno del termine ma, dal punto di vista religioso di ‘Alî e dei suoi seguaci, un tradimento del Profeta e della Volontà divina. Fatima, figlia del Profeta e sposa di ‘Alî, fu privata dell’eredità, oggetto di molestie e violenze. Fu solo alla morte di quest’ultima, qualche mese dopo, che ‘Alî si rassegnò a giurare fedeltà al successore del Profeta.
I primi due califfi Abû Bakr e ‘Umar furono gli artefici delle guerre di conquista (futûhât) che portarono alla costituzione di un vero e proprio impero; un jihad espansionista dal quale ‘Alî si astenne. Quando quest’ultimo fu infine designato califfo nel 35/656, in seguito all’assassinio del terzo califfo ‘Uthmân, vide da subito contestata la sua legittimità. La risoluta opposizione del governatore della Siria Mu‘âwiya, futuro fondatore della dinastia omayyade, condusse alla sanguinosa battaglia di Siffîn (37/657). ‘Alî accettò un arbitrato che sfociò in un apparente statu quo e nel suo fallimento politico. ‘Alî finì assassinato nel 40/661 da uno dei suoi ex-seguaci.
Le fonti sciite attestano che a Siffîn ‘Alî chiamò al jihad contro i suoi avversari. Per la prima volta il detentore del titolo di “comandante dei credenti” (amîr al-mu’minîn) esortava a intraprendere la “guerra santa” contro degli altri musulmani. ‘Alî considerava probabilmente Mu‘âwiya e i suoi come degli “ipocriti” (munâfiqûn) e riteneva suo compito combatterli come Muhammad aveva combattuto i miscredenti (kuffâr), secondo l’interpretazione sciita dei versetti coranici 9,73 e 66,9: «O Profeta! Combatti i miscredenti e gli ipocriti». Ma colui che si era distinto nei combattimenti a fianco del Profeta, da califfo non riuscì a mobilitare i musulmani. Questo fallimento, riconosciuto dallo stesso ‘Alî, non è mai stato negato dagli sciiti.
Imam non invincibili ma puri
Da quel momento la figura della “guida divina” rappresentata dall’Imam non poteva che porsi in contrasto con la rappresentazione trionfalista del Profeta corrente nella storiografia sunnita. Per gli sciiti infatti l’infallibilità conferita da Dio ai loro imam non corrisponde all’invincibilità politica e militare, ma a una purezza morale e a una scienza perfetta, compatibili con il fallimento temporale.
Più decisivo ancora per la coscienza sciita fu il dramma di Kerbala (Karbalâ’, 61/680). Mentre il secondo imam al-Hasan, figlio primogenito di ‘Alî , aveva adottato una posizione conciliante nei confronti del califfo Mu‘âwiya, il terzo imam al-Husayn, secondo figlio di ‘Alî e nipote del Profeta, rifiutò di giurare fedeltà a Yazîd figlio di Mu‘âwiya. Rispose all’appello degli abitanti di Kufa che lo esortavano a mettersi a capo della rivolta, ma fu intercettato dall’esercito omayyade e ucciso ferocemente insieme alle sue esigue truppe e alla sua famiglia. Il figlio maggiore ‘Alî, l’unico maschio sopravvissuto al massacro, avrebbe continuato la linea degli imam consacrandosi alla pietà, lontano da qualsiasi attività politica.
Non è provato né che l’imam Husayn intendesse conquistare il potere, né che abbia chiamato formalmente al jihad. Ma per gli sciiti duodecimani Husayn resta l’ultimo imam ad aver combattuto i nemici della fede, intesi non come i seguaci di altre religioni bensì come i capi della maggioranza dei musulmani. Husayn resta soprattutto il “principe dei martiri” (sayyid al-shuhadâ’), la cui passione è commemorata ogni anno durante la cerimonia di ‘Âshûrâ’.
Così, con il dramma di Kerbala, la “guerra santa” degli sciiti si svincolava dalla promessa di una vittoria temporale per legarsi essenzialmente alla nozione di martirio (shahâda). Secondo gli imam successivi, Husayn sapeva bene che la sua era una battaglia persa in partenza; prima della sua nascita infatti l’angelo Gabriele aveva avvertito il Profeta Muhammad e sua figlia Fatima del suo tragico destino. Ci si può allora chiedere che cosa il suo combattimento avesse ancora in comune con il jihad del Profeta, e se il dramma di Kerbala non smentisca la promessa divina di sostegno al jihad. Alcune tradizioni parlano di un gruppo di angeli che, giunti troppo tardi per salvare Husayn, da quel momento fanno incessantemente penitenza. Altri riportano che in cambio del suo sacrificio, Dio concesse a Husayn che l’imamato appartenesse alla sua discendenza, che la terra di Kerbala assumesse virtù salutari e che la visita alla sua tomba portasse con sé la benedizione divina. L’imam avrebbe allora accettato una sconfitta esteriore, politica e militare, per ottenere un trionfo spirituale, etico e pacifico.
L’opzione quietista
Dopo Husayn, gli imam della sua famiglia abbandonarono qualsiasi prospettiva di lotta armata per la propria causa abbracciando un atteggiamento quietista. Il sesto imam invitò i credenti a praticare la dissimulazione pia (taqiyya) per conservare e trasmettere la fede e sviluppò una concezione apolitica dell’imamato come autorità spirituale distinta dal califfato. La sovranità temporale dell’Imam è rinviata alla venuta di un Salvatore alla Fine dei Tempi, il Mahdî, “il ben guidato”, o il Qâ’im, “il risuscitatore”. Nell’attesa della sua comparsa, la ricerca del potere politico, condizione necessaria per poter chiamare al jihâd armato, è esplicitamente condannata.
Nonostante il loro quietismo, gli imam discendenti di Husayn furono perseguitati uno dopo l’altro, se non eliminati dai governanti abbasidi. Alla morte dell’undicesimo imam nel 260/874 prevalse la tesi secondo cui un figlio segreto era stato nascosto per sfuggire alla minacce del califfo. Dopo un periodo durante il quale l’imam continuava a comunicare con i suoi fedeli attraverso dei rappresentanti, nel 329/941 questi fece sapere che interrompeva ogni comunicazione con gli uomini, fino alla sua riapparizione alla Fine dei Tempi. È l’inizio dell’ “occultamento maggiore” (al-ghayba al-kubrâ), che dura ancora oggi. Il jihad non è abolito – teoricamente sembrerebbe più necessario che mai, visto che l’Islam sarebbe stato confiscato dagli usurpatori – ma è sospeso fino al ritorno dell’Imam, l’unico capace di guidarlo e farlo trionfare.
Il dogma fondamentale dell’escatologia sciita è che «il Mahdî si solleverà alla Fine dei Tempi e riempirà la terra di giustizia, nella stessa misura in cui prima traboccava d’oppressione e ingiustizia». Questa liberazione universale sarà ottenuta attraverso una guerra di massa. Il jihad finale sarà il Taglione di Dio, la vendetta per i crimini commessi contro la Sua volontà sulle persone dei Suoi profeti e dei Suoi amici (awliyâ’). Questa concezione è sostenuta dalla credenza in una resurrezione detta raj‘a, anteriore alla grande resurrezione detta qiyâma. Essa riguarda solo i santi martiri della storia e i loro carnefici; i primi per assistere il Mahdî ed essere vendicati, i secondi per subire il loro castigo. L’imam Husayn fa ovviamente parte dei primi. Il caso di Gesù figlio di Maria è particolare: secondo le tradizioni egli non è morto in croce ma è stato direttamente assunto in paradiso da Dio e sarà rimandato sulla terra alla Fine dei Tempi per pregare dietro il Mahdî.
A differenza del jihad storico, il jihad escatologico non sarà subordinato a obiettivi bellici limitati, né aperto alla conciliazione o all’arbitrato. Alcune descrizioni elaborate dagli imam quietisti sono estremamente violente. Nella sua battaglia il Mahdî sarà sostenuto “militarmente” da Dio. Lo attornieranno gli angeli Gabriele, Michele e Serafiele (Isrâfîl), seguiti da intere armate: tutti gli angeli che furono con Noè sull’arca, con Abramo quando fu gettato nel fuoco, con Gesù quando fu elevato al cielo, con Muhammad quando sconfisse i miscredenti, e gli angeli che non riuscirono a soccorrere Husayn a Kerbala verranno in soccorso del Salvatore, che sarà munito inoltre delle armi soprannaturali dei profeti. Così, il sostegno di Dio (nasr) sarebbe venuto meno nella storia soltanto per meglio concentrarsi alla Fine dei Tempi.
Descritto spesso in riferimento alla battaglia di Badr (2/624), prima grande vittoria del Profeta contro i pagani della Mecca, questo scontro escatologico è soprattutto un riflesso rovesciato della storia dello sciismo, in particolare del dramma di Kerbala. Così, coloro che ritorneranno in vita per partecipare al jihad finale e vittorioso saranno innanzitutto coloro che l’avranno meritato con il loro sacrificio all’epoca del jihad iniziale e della sconfitta di Husayn. Allo stesso modo, se la battaglia di Husayn era persa in partenza, come l’imam sapeva, la battaglia del Mahdî sarà vinta a priori, come gli imam hanno pure insegnato. Essendo il contrario della storia dei vinti, la battaglia finale è prefigurata come rivolta contro i vincitori, i campioni dell’Islam maggioritario, discendenti dei pagani della Mecca. I seguaci delle altre religioni del Libro sono raramente menzionati come avversari del Mahdî. L’esercito di quest’ultimo dovrà anzi comprendere anche ebrei e cristiani perché la missione religiosa del Salvatore è resuscitare le religioni antecedenti, restituire lo spirito e la stessa lettera della Torah, del Vangelo o del Corano, tutti libri divini che gli sciiti ritengono essere stati falsificati dai nemici del Vero.
Il jihad dell’Imam è perciò ben diverso rispetto a quello del Profeta dopo l’egira. L’assenza d’incertezza sull’esito della battaglia contrasta con le campagne militari di Muhammad, il cui risultato era sempre incerto, ciò che conferiva all’impegno volontario tutto il suo valore. La battaglia del Profeta mirava a far trionfare la legge essoterica della religione mentre la missione dell’Imam è farne trionfare il senso esoterico. Muhammad avrebbe detto: «Io combatto per la rivelazione della lettera [del Corano], ‘Alî combatte per lo svelamento del [suo] spirito». Ecco perché le sconfitte militari degli imam ‘Alî e Husayn non significano per gli sciiti una sconfitta della loro missione, ma costituiscono la prova di una reale separazione tra lo spirituale e il temporale, l’essoterico (zâhir) e l’esoterico (bâtin), che si ricongiungeranno solo alla Fine dei Tempi. Se il jihad del Profeta aveva una finalità storica, il jihâd dell’Imam è uscito dalla storia per ritornarvi solo alla fine, per essere anzi la fine della Storia stessa, realizzando il trionfo dello spirito della Rivelazione.
Il combattimento “maggiore”
E tuttavia questo jihad è una battaglia che è già cominciata: non è riservata a un esercito di eletti ma incombe su tutti gli uomini, è la battaglia spirituale contro le inclinazioni dell’anima carnale. Un hadîth profetico la definisce “il combattimento maggiore” (jihâd akbar), mentre considera “minore” (asghar) il combattimento militare. Tale distinzione è propria degli sciiti e dei mistici che si rifanno al sufismo. Per i Fratelli della Purità (Ikhwân al-safâ’), filosofi ismaeliti del IV/X secolo, lo scontro iniziale tra Adamo e Iblîs (Satana) è il tipo del combattimento perpetuo che oppone l’anima razionale all’anima concupiscente e violenta. Per gli sciiti, se Adamo ha potuto errare, il profeta Muhammad e la gente della sua casa (ahl al-bayt) sono stati resi infallibili da Dio e di conseguenza escono sempre vincitori in questo jihad maggiore. Questa spiritualizzazione giustifica tutta la valle di lacrime della storia: la sconfitta nel jihad minore non è che il rovescio essoterico del trionfo del jihad maggiore. Si comprende allora che l’abbandono della nozione trionfalista del jihad possa accompagnarsi tra gli sciiti a un’enfatizzazione della superiorità dell’Imam. La vittoria militare avverrà solo alla Fine dei Tempi, mentre la vittoria spirituale è sempre già ottenuta dagli Impeccabili ed è alla portata di chiunque nel tempo della storia.
Questa concezione esoterica del jihad è presente in una tradizione molto antica e spesso commentata, “la tradizione delle armate dell’Intelligenza (hadîth junûd al-‘aql)”. Secondo questo racconto, l’Intelligenza, primo essere creato, testimoniò subito la sua obbedienza a Dio mentre l’Ignoranza, creata in seguito, manifestò la sua insubordinazione. Dio dotò l’Intelligenza luminosa di 75 eserciti e, per senso di giustizia, fece altrettanto con l’Ignoranza tenebrosa. Questo schema dualista oppone allora altrettante virtù e vizi ipostatizzati: la fede e l’infedeltà, la compassione e la crudeltà, la clemenza e la collera, l’ascesi e il desiderio, l’amore e l’odio, la saggezza e la passione, etc… ma anche la lotta (jihâd) e l’astensione (nukûl). Il jihad si vede così associato alle virtù non-violente, in contrapposizione a tutto ciò che chiama guerra, un fatto che diventa pienamente comprensibile se con jihad s’intende qui il combattimento interiore. Il “combattimento sacro” compare a due livelli: da un lato è uno degli eserciti dell’Intelligenza, dall’altro è la lotta stessa dell’Intelligenza contro l’Ignoranza. Quanto al jihad del Mahdî, esso è pensato come l’epilogo di questa battaglia cosmica e sovra-storica.
Tuttavia, fin dall’inizio dell’Occultamento maggiore, gli sciiti dovettero fare i conti con le esigenze del tempo storico. Collaborando con il potere sunnita, i giuristi-teologi si accorsero che la sospensione totale del jihad era di fatto insostenibile e stabilirono la possibilità che, in assenza dell’imam, quest’ultimo potesse designare un delegato per guidare un jihad difensivo. Ben presto i giuristi che praticavano lo “sforzo d’interpretazione della legge” (ijtihâd, termine con la stessa radice di jihad) svilupparono l’idea di una “rappresentazione generale dell’imam” rendendosi ipso facto guide legittime del jihad nel periodo dell’Occultamento. Bisogna peraltro dire che nella metà del VI/XII secolo la dottrina del jihad era stata riattivata dai dirigenti sunniti dell’impero, tra cui il celebre Salâh ad-Dîn (Saladino), contro le minoranze sciite al fine di unire tutte le forze islamiche per respingere le Crociate.
L’opzione rivoluzionaria
La dottrina giuridica imamita del jihad si distingue da quella delle scuole sunnite su due punti principali: l’identità di chi guida il jihad, che per gli sciiti non può che essere l’imam o il suo “rappresentante”, e l’identità dei nemici contro i quali si può dichiarare il jihad, gli “uomini dell’iniquità”, cioè i governatori sunniti, che vengono prima della gente del Libro, degli infedeli e dei rinnegati. Nel corso della loro storia infatti i mujtahidûn sciiti hanno dichiarato il jihad armato contro i cristiani solo nel XIX secolo, durante le guerre russo-persiane, e sempre comunque nella forma di un jihad difensivo.
Un’altra evoluzione cruciale riguarda la martirologia sciita. Essa per molto tempo si è limitata alla commemorazione della morte sacra degli imam, figure sante inimitabili. Alla fine del XX secolo tuttavia il martirio dell’imam Husayn è stato spogliato della sua trascendenza per essere proposto come modello imitabile dalla massa, in una prospettiva rivoluzionaria. Questa ri-storicizzazione del martirio e del jihad doveva avere un effetto paradossale sull’escatologia, portando o ad occultare o ad accelerare la prospettiva della Fine dei Tempi.
La nozione di “lotta per Dio” nell’Islam sciita imamita fu dunque inizialmente sacralizzata dagli imam stessi al punto da uscire dalla storia per occupare lo spazio dell’escatologia. Ma in assenza dell’Imam i giuristi-teologici desacralizzarono il jihad per reintegrarlo nel tempo storico. Ciononostante alcuni quietisti, rifacendosi alla tradizione delle origini, ritengono che in assenza dell’Imam nessuno sia legittimato a esercitare il potere politico e a guidare la “lotta per Dio”. Inoltre, all’ideale della battaglia incarnata dall’imam Husayn viene oggi coniugato, senza contrapposizione, il modello della conciliazione (sulh) incarnato dal fratello maggiore Hasan. Una riconciliazione oggi più che mai da pensare e costruire con l’Islam maggioritario sunnita, e che costituisce probabilmente una condizione indispensabile per il dialogo dell’Islam con le altre religioni.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.
RIPRODUZIONE RISERVATA
[1]Scriverò “imam” per l’uomo storico, “Imam” con la maiuscola per la figura sacra.
[2]La più importante raccolta canonica è Usûl al-kâfî di al-Kulaynî (IV/X). Di grande valore per gli sciiti è anche Nahj al-balâgha, raccolta di detti attribuiti al primo imâm ‘Alî.