Le manifestazioni contro re Faruq, la disfatta del ’67, le Primavere del 2011: negli ultimi decenni il mondo arabo è stato attraversato ininterrottamente dalle mobilitazioni popolari. L’impegno civile di due generazioni raccontato dalla letteratura
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:57
Quale che sia il termine con cui si sono autodefinite (thawra, intifāda o hirāk) e la traduzione italiana che si è scelto di prediligere (rivoluzione, rivolta; insurrezione, sollevazione, Intifada; movimento o, anche, Primavera), è indubbio che nel mondo arabo le mobilitazioni, spontanee o politicamente organizzate, attraversano senza interruzione la storia dell’ultimo secolo.
La letteratura contemporanea, sia in arabo che in lingue occidentali, rende conto appieno di ognuno dei fenomeni che si sono susseguiti negli scorsi decenni, a partire dalle lotte/guerre per l’indipendenza, con il loro corollario di manifestazioni anticolonialiste di piazza, per arrivare fino agli eventi del 2010/2011, passando per il sostegno al nasserismo, al panarabismo, all’antimperialismo e, in tempi più recenti e perciò più mediatizzati, all’Islam politico. I romanzi – dal Marocco all’Egitto, dall’Algeria al Libano, dalla Tunisia all’Iraq – raccontano l’attivismo di persone che, in numero consistente pur se percentualmente marginale rispetto alla totalità della popolazione, si sono riunite in organizzazioni, associazioni, gruppi informali e/o clandestini e, di generazione in generazione, hanno continuato senza soluzione di continuità a perseguire ideali di giustizia, di solidarietà sociale e, interconnettendo lotta di classe e contrasto all’imperialismo, di opposizione al capitalismo. Accostando i romanzi, appare evidente che buona parte delle mobilitazioni ha trovato terreno fertile nelle aule delle scuole superiori e delle università, luoghi che fino alla metà del Novecento erano innegabilmente abitati solo dai figli delle classi più abbienti ma che, a partire dalle indipendenze nazionali, hanno visto aumentare esponenzialmente gli iscritti.
Dall’entusiasmo rivoluzionario degli anni ’50 al trauma del ‘67
Le mobilitazioni dei decenni a cavallo degli anni ’50 sono, com’è ovvio, parte integrante della narrativa degli scrittori che ripercorrono la propria epoca. Nel bel volume antologico Figli del Nilo[1], che raccoglie undici racconti e altrettante illuminanti interviste agli autori, l’egiziano Baha Taher (classe 1935) così riassume il suo impegno politico: «[…] anche il periodo della scuola superiore fu molto importante per me. Era il tempo delle manifestazioni contro re Faruq e contro gli inglesi. Tutti prendevamo parte alle manifestazioni. Ce n’era almeno una alla settimana organizzata da noi, dagli studenti delle scuole superiori, per protestare contro l’occupazione e il trattato del 1936. […] Nel 1951, ci fu il grande incendio che distrusse gran parte del centro della città, il coprifuoco e poi la rivoluzione del 1952. Cominciai l’università proprio quell’anno e mi iscrissi alla Facoltà di Storia. La rivoluzione fu qualcosa di molto importante nella mia vita e per la mia successiva attività di scrittore. Abbiamo accolto con entusiasmo la rivoluzione perché significava affermare la fine della monarchia in Egitto, la fine reale dell’occupazione inglese. Tuttavia, dal punto di vista della conquista della democrazia, gli effetti della rivoluzione non soddisfecero le nostre aspettative. Ci opponemmo al sistema scaturito dalla rivoluzione allo stesso modo in cui ci eravamo opposti alla monarchia. […] Condividevamo alcune delle idee di Nasser, le idee che avevano sostenuto la rivoluzione, come la nazionalizzazione del canale di Suez, ma ci opponevamo al carattere totalitario che il governo uscito dalla rivoluzione aveva assunto. Così, accadde quello che era già successo al tempo delle contestazioni contro re Faruq e gli inglesi: fummo picchiati e messi in galera un’altra volta».
Gli fa eco, dalla Siria, Nazem Kodmani (classe 1926), una delle due voci narranti di La Siria promessa[2], quando sottolinea a più riprese l’effervescenza politica dei tempi della sua gioventù, prima che si profilasse la cocente delusione a venire: «All’indomani dell’indipendenza, non conoscevo nessuno del mio ambiente che non fosse impegnato in uno dei partiti politici dell’epoca. Studenti o insegnanti, avvocati o futuri avvocati, medici, ingegneri... tutti si ripartivano tra ba‘thisti, comunisti, socialisti arabi, nazionalisti siriani, liberali nazionalisti... Era l’età dell’oro di un’intellighenzia aperta a ogni corrente e a ogni discussione».
Le testimonianze in forma di racconto sono tante, talmente numerose da rendere impossibile citarle tutte. Una fra tutte, quella del marocchino Muhammad Barrada (classe 1938) in almeno due dei suoi romanzi, Come un’estate che non tornerà più[3], dichiaratamente autobiografico, e Il gioco dell’oblio[4], dove l’elemento autobiografico è trasposto nel protagonista. Due testi in cui la prospettiva locale si aggiunge al portato regionale dei fatti egiziani e, al contempo, alla dimensione globale attraverso l’esperienza dell’autore nell’università parigina. E qui, forse, vale la pena sottolineare come la dimensione locale marocchina sia stata pesantemente segnata dagli “Anni di piombo”, un ventennio in cui hanno pagato un tributo pesante i militanti politici e i membri dell’associazionismo studentesco: «Non i rivoltosi che avevano attentato alla vita del re, dunque, ma gli animatori di un’opposizione più generalizzata e capillare cui si erano affiliati giovani studenti, universitari ma anche liceali, stanchi dello status quo e desiderosi di democrazia. La loro rivoluzione si era declinata in volantini, sedute di autocoscienza, proteste e manifestazioni, in discussioni con cui volevano cambiare il mondo. Erano leader politici e sindacali ma anche semplici attivisti dell’Organizzazione studentesca (Unem) o delle organizzazioni clandestine della nuova sinistra (Ilā al-Amām e 23 Mars). Saranno sequestrati a centinaia e torturati per mesi prima di poter passare in giudizio ed essere condannati a pesanti pene dopo processi farsa. Alcuni spariranno nel nulla (169, secondo le stime della Ong Forum per la verità e la giustizia/Forum pour la vérité et la justice)»[5].
Nel periodo a cavallo degli anni ’60 e ’70, infatti, in Marocco come altrove, all’interno dei movimenti d’opposizione, studenteschi e non, le tre dimensioni – locale, regionale e globale – sono andate sovrapponendosi ulteriormente.
Mentre localmente ogni singolo Paese si muoveva all’interno della propria condizione socioeconomica, a livello regionale l’intera area era stata scossa dall’avvenimento più traumatico della storia araba moderna e contemporanea: la disfatta del 1967. Il palestinese Murid al-Barghuthi (1944) nel suo bel romanzo Ho visto Ramallah[6] ce ne descrive l’impatto con il linguaggio del poeta, soave ma non per questo meno incisivo, o meno politico: «Ci sono numeri che […] hanno assunto un significato ben preciso. Dalla sconfitta del giugno 1967 non posso vedere il numero 67 senza associarlo a quella disgrazia. Anche quando fa parte di un numero telefonico di un amico o un parente, o si trova sulla porta di una camera d’albergo, sulla targa di un’automobile, su una qualsiasi strada del mondo, su un biglietto di cinema o di teatro, sulla pagina di un libro, nell’indirizzo di un ufficio o di una casa, su un treno, nel numero di un volo segnalato su un tabellone di un qualsiasi aeroporto del mondo. […] La sconfitta di giugno è un problema psicologico che appartiene a me soltanto, oppure alla mia generazione, o a tutti gli arabi di quest’epoca? A quella sconfitta sono seguite altre delusioni e sventure non meno gravi; sono scoppiate guerre, si sono perpetrati massacri, discorsi politici e intellettuali sono stati alterati, ma il ’67 continua a rimanere una cosa a parte. Ne stiamo pagando lo scotto ancora oggi. Ogni episodio della nostra storia successiva è, in qualche maniera, legato al ’67».
L’onda lunga del ’68
La dimensione globale si sostanzia, invece, nell’onda lunga del Maggio ’68, presente, come protagonista o sottotraccia, in moltissimi romanzi arabi. Ogni autore, com’è logico, la declina con la sua voce individuale – ora pacata, ora ironica, ora strabordante – ma l’immagine che se ne ricava non può che richiamare alla mente del lettore italiano i termini e le declinazioni che hanno caratterizzato quegli anni nel mondo intero.
Il lessico politico dell’epoca emerge prepotente nelle conversazioni tra i protagonisti di Alla ricerca di Walid Mas‘ud[7], romanzo mai tradotto in italiano, ambientato nei circoli intellettuali palestinesi della Baghdad anni ’70, scritto nel 1978 dal palestinese Jabra Ibrahim Jabra (1920-1994) e considerato un classico della letteratura araba contemporanea. Altrettanto prepotentemente si riverbera sia nelle pagine del diario squisitamente politico e ingenuamente romantico di Warda[8], guerrigliera omanita nella rivolta del Dhofar, riportate nel romanzo che le dedica l’egiziano Sonallah Ibrahim (1937), sia in quelle di Fiore di fico d’India[9] (anch’esso non tradotto in italiano) della tunisina Alia Tabai (1961), che seguono, attraverso una storia d’amore, le traiettorie di vita di tre militanti di sinistra.
Un altro tunisino, Shukri al-Mabkhout, (1962) così descrive la sua protagonista, Zeina, nel suo romanzo L’italiano[10], interamente ambientato in quegli anni: «Gran parte dei suoi discorsi erano aspre, sferzanti critiche a quel che lei chiamava “la misera coscienza studentesca”, “i movimenti fascisti di stampo religioso totalitarista”, “la sinistra, con il suo eccessivo centralismo, così lungi dall’essere un movimento spontaneo”, “la frammentazione cancerogena della sinistra burocratica”. […] Accusava la sinistra di non possedere profondità di pensiero, di accontentarsi di modelli prestabiliti, di soffrire di una contraddizione principale e di contraddizioni secondarie, di basarsi sulle analisi di Lenin e Mao Tze Tung riguardo alla realtà russa e a quella cinese, a discapito della realtà tunisina. […] Parlava con cognizione di causa di Rosa Luxemburg, di Pannekock, di Karl Koesch e della Scuola di Francoforte. Menzionava Castoriadis ed Edgar Morin […], Althusser e Gramsci».
Duemila chilometri più a est, il libanese Jabbour Douaihy (1948) racconta con lo sguardo ironico che lo contraddistingue l’avventurarsi nella politica di Nizam, lo spaesato eroe del suo San Giorgio guardava altrove[11]: «[…] L’appartamento di Ras Beirut divenne la sede permanente della cellula Farajallah al-Helu, costola dell’organizzazione Lavoro comunista del Libano. […] Erano in diciassette, più molti altri di passaggio, a riunirsi lì, a fumare centinaia di sigarette, i maschi che mischiavano la birra con il sale e le femmine sempre con i preservativi nella borsetta che non si sa mai. Proclamavano senza peli sulla lingua che Dio non esiste, che è solo un’invenzione dei potenti e dei forti per far stare i più deboli al loro posto. […] Guerra di popolo, il tradimento dei chierici, la quarta internazionale, la quarta internazionale e mezzo, si accapigliavano attorno a Leon Trotsky per poi rinserrare le fila esaltandone un qualche aspetto specifico. […] Si vietavano l’un l’altro di ascoltare le canzoni di Umm Kulthum, ma ci fu chi, in segreto, assistette al concerto annuale di Dalida e, tutti insieme, andarono fino alle rovine di Ba‘albek per sentir cantare Joan Baez e, radiosi, salirono in piedi sulle sedie quando la ragazza con i capelli lunghi attaccò We Shall Overcome».
Passaggio di testimone
A mettere in evidenza il filo che corre di generazione in generazione sancendo una sorta di continuità rivoluzionaria, non sono solo gli scrittori più anziani, che si potrebbero accusare di nostalgia per la loro gioventù. Né solo gli intellettuali di sinistra della vecchia guardia, che si potrebbero pensare ancorati alle loro antiche convinzioni. L’esempio forse più lampante ci viene da Barrack Rima (1972), uno dei più acclamati autori arabi di graphic novel del momento. Nel suo Trilogia di Beirut[12], la voce narrante (cioè egli stesso) torna a Beirut e assiste alle manifestazioni di piazza del movimento internazionalmente conosciuto come You Stink (Puzzate), che nel 2015 ha visto folle oceaniche protestare contro l’incapacità del governo di organizzare la raccolta dei rifiuti urbani. Mentre attraversa «le lotte di oggi contro l’insolenza dei signori della guerra e della pace… il sistema confessionale… la privatizzazione dello spazio pubblico, la distruzione del patrimonio urbanistico ed ecologico… per i diritti dei lavoratori immigrati, per l’uguaglianza dei generi, il matrimonio civile, la depenalizzazione dell’omosessualità, l’alternativa laica, la giustizia sociale…», ad accompagnarlo nel suo viaggio di scoperta appare a più riprese lo spirito della madre, che lo riporta indietro nel tempo, alla fine degli anni ’60, e gli racconta di quando «il socialismo, l’unità araba, l’antimperialismo e la Palestina accendevano le passioni della gioventù araba […] La porta arrugginita [era] scattata lasciandosi dietro colonialismo, feudalesimo, miseria, sfruttamento e ignoranza […] Una stessa melodia cantata da un oceano all’altro, da Marrakesh al Bahrein, dallo Yemen a Damasco e a Gaza… Proseguivamo il cammino della rivoluzione con allegria, ardore e romanticismo». Per il lettore come per la voce narrante, la dimensione endogena dei fenomeni di oggi si contrappone a quella esogena dei fenomeni di ieri e, a ben vedere, forse farà la differenza.
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