Le donne attive nel campo religioso in Arabia Saudita sono libere di predicare entro i confini della dottrina wahhabita e a condizione di non destabilizzare l’equilibrio sociale
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 15:21:22
In Arabia Saudita le donne sono tradizionalmente escluse dalla sfera pubblica. Ma alcune di esse hanno saputo sfruttare a loro vantaggio la segregazione dei sessi per assumere posizioni di leadership religiosa. Attive dagli anni ’90, le predicatrici hanno acquisito una più grande visibilità con la diffusione delle tecnologie moderne. Ma il loro ruolo rimane ambiguo, perché mentre garantiscono una presenza femminile nello spazio pubblico, esse si fanno portavoce dell’establishment wahhabita.
Nell’Islam l’autorità religiosa è tradizionalmente una prerogativa maschile. Questo fenomeno è particolarmente marcato nelle società a maggiore connotazione patriarcale, come nel caso dell’Arabia Saudita, in cui storicamente le donne si sono viste escluse dallo spazio pubblico religioso, politico e sociale. Nel caso specifico, le ragioni di tale esclusione sono da attribuirsi all’influenza della dottrina wahhabita, che stabilisce in maniera piuttosto netta i ruoli di genere e sancisce la segregazione dei sessi a partire da un’interpretazione molto rigida della nozione di ‘awra o “zona della modestia”[1]. ‘Awra è tutto il corpo della donna e, secondo alcune interpretazioni, lo sarebbe anche la voce femminile. Per alcuni studiosi però le imposizioni della dottrina wahhabita non sono sufficienti a spiegare l’assenza di protagoniste femminili dallo spazio pubblico: occorrerebbe invece considerare il binomio politica-religione che ha contribuito alla nascita di un nazionalismo religioso, cioè di «una tradizione religiosa politicizzata che funge da ombrello per costruire una nazione omogenea a partire da una società araba frammentata, variegata e plurale»[2].
Le ragioni dell’esclusione delle donne dallo spazio pubblico vanno attribuite all’influenza della dottrina wahhabita
Queste limitazioni non hanno però impedito alle saudite di crearsi degli spazi e delle opportunità di leadership religiosa. Anche l’Arabia Saudita, come altri Paesi arabi, a partire dagli anni ’90 ha infatti conosciuto il fenomeno delle predicatrici religiose (dā‘iyāt) come effetto del processo di scolarizzazione femminile iniziato negli anni ’70.
Dalla scuola al web
L’inizio della scolarizzazione femminile in Arabia Saudita resta una questione controversa. Alcuni ne attribuiscono il merito a re Faisal, altri al fratello, re Saud. Certo è che nel 1960 un decreto reale attribuito a re Saud sanciva l’apertura della prima scuola per ragazze:
Di concerto con l’establishment religioso, si ordina di fondare scuole per istruire le ragazze nelle materie religiose (Corano, dottrina e fiqh) e in altre scienze accettate dalla nostra tradizione religiosa, quali la gestione della casa e l’educazione dei figli. Abbiamo ordinato che venga istituita una commissione, hay’a, formata da ulema di alto rango, gelosi custodi della religione, incaricati di vigilare sulla questione sotto la guida di shaykh Muhammad Ibn Ibrahim[3].
All’epoca, questo decreto suscitò molto clamore soprattutto in alcune città nella regione del Najd. In segno di protesta i notabili della città di Burayda organizzarono una marcia su Riyadh, che si concluse con l’assicurazione da parte di re Faysal che nessuno sarebbe stato costretto a mandare a scuola le proprie figlie. Queste proteste, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non erano dettate tanto dal conservatorismo per cui è nota la regione centrale dell’Arabia Saudita, quanto dalla diffidenza verso il sistema educativo che avrebbe dovuto soppiantare quello tradizionale. Nelle nuove scuole, infatti, era previsto che insegnassero professori arabi “importati” anziché gli ulema e i mutawwi‘a locali, cioè le persone incaricate di far osservare i precetti religiosi. I notabili religiosi autoctoni temevano da un lato di perdere le loro prerogative, dall’altro guardavano con sospetto i nuovi arrivati nel timore che potessero corrompere la purezza dell’insegnamento tradizionale wahhabita. Le scuole femminili erano considerate particolarmente vulnerabili e dunque maggiormente esposte al pericolo di contaminazione. La posta in gioco era il mantenimento del controllo patriarcale sulle giovani donne.
La situazione educativa conobbe un’ulteriore evoluzione tra gli anni ’70 e ’80, quando tutte le università islamiche del Regno iniziarono ad aprire delle sezioni femminili con il conseguente aumento, in pochi anni, del numero di ragazze formate nelle scienze religiose. Inizialmente, queste istituzioni furono organizzate e gestite dai Fratelli musulmani egiziani e siriani emigrati nel Regno a causa delle persecuzioni di cui erano vittime nei loro Paesi, in collaborazione con l’establishment salafita. Gli ulema wahhabiti vigilavano sui programmi di dottrina, mentre i Fratelli erano deputati all’insegnamento del sapere islamico moderno. È precisamente in questo contesto che si formarono le prime predicatrici. A partire dagli anni ’90 gli spazi di formazione femminile conoscono un ulteriore ampliamento: nascono i centri di memorizzazione del Corano per sole donne, finanziati dal Ministero degli Affari religiosi, e vengono aperte le sezioni femminili di alcune organizzazioni, tra cui l’Associazione mondiale dei giovani musulmani, legata alla Lega musulmana mondiale.
Oggi le protagoniste della predicazione religiosa in Arabia Saudita sono professoresse universitarie affermate
Il 1999 segna un nuovo traguardo: è l’anno in cui l’Arabia Saudita consente ai suoi cittadini l’accesso a Internet. Indubbiamente la diffusione delle tecnologie moderne ha svolto un ruolo sostanziale nello sviluppo delle attività religiose femminili. Internet diventa la via più semplice per entrare in contatto con altre donne, creare spazi di dibattito libero e aggirare l’ostacolo della segregazione dei sessi, consentendo all’universo femminile e maschile di interagire più facilmente. Negli ultimi vent’anni perciò la partecipazione delle donne alla sfera religiosa è andata via via crescendo e le predicatrici hanno acquisito una sempre maggiore visibilità. Oggi le protagoniste della predicazione religiosa in Arabia Saudita sono professoresse affermate nell’insegnamento delle scienze islamiche alla Princess Nourah University di Riyadh – un’università per sole donne fondata nel 1970 –, insegnanti nei centri di memorizzazione del Corano, editorialiste delle più importanti testate nazionali saudite (Saudi Gazette, al-Madina, Arab News, Okaz), ma sono anche blogger e assidue utenti dei social media con migliaia di followers, come nel caso di Nawwāl al-‘Īd, predicatrice da oltre 4 milioni e mezzo di followers su Twitter e Ruqayya al-Muhārib con quasi due milioni di followers.
Le predicatrici intellettuali
Dal punto di vista ideologico è piuttosto difficile collocare le predicatrici saudite perché da un lato gli studi sul tema sono ancora all’inizio, dall’altro il dibattito in Arabia Saudita sul ruolo delle donne nella società ha finito per elaborare delle categorie in cui le dirette interessate non si riconoscono, e che il più delle volte vengono utilizzate dalle loro detrattrici per diffamare le rivali. Nel 2014, per esempio, proprio Nawāl al-‘Īd ha minacciato di adire le vie legali contro chi la accusava di essere parte del movimento ikhwānī, associandola così ai Fratelli musulmani[4]. In linea generale però le predicatrici menzionate poc’anzi si collocano nel solco della tradizione wahhabita, sostengono il sistema di governo del Regno e non intendono sfidare l’autorità religiosa maschile, ma contribuiscono a perpetuare le interpretazioni tradizionali dell’Islam. Nella letteratura accademica esse vengono definite “dā‘iyāt muthaqqafāt”[5] o predicatrici intellettuali, in riferimento alla loro formazione universitaria. Queste donne si collocano a cavallo tra il campo religioso e il campo intellettuale, tutte hanno conseguito un dottorato, e la maggior parte di loro oggi insegna all’università. Oltre agli impegni istituzionali, si dedicano soprattutto alla da‘wa nella società femminile, animano i circoli di studio del Corano e, in alcuni casi, gestiscono dei loro centri religiosi/intellettuali. Uno di questi è Ithra’ al-Ma‘rifa, una fondazione pia (waqf) aperta nel 2012 a Riyadh da Nawwāl al-‘Īd. Come si legge sulla pagina Twitter ufficiale della fondazione[6], essa propone dei programmi volti a favorire il progresso culturale e sociale delle donne, e corsi per la memorizzazione del Corano e la conservazione dell’eredità del Profeta.
La partecipazione delle predicatrici alla vita pubblica trova giustificazione nella nozione di ihtisāb, che rimanda al principio salafita di “ordinare il bene e proibire il male” (al-amr bi-l-ma‘rūf wa-l-nahy ‘an al-munkar), e in quella di da‘wa, cioè la predicazione. A questo proposito è interessante notare come queste predicatrici facciano spesso riferimento a rappresentanti dell’Islam ultrarigorista come Muhammad bin Sālih al-‘Uthaymīn (m. 2001) e Ibn Bāz (m. 1999), Gran Mufti dell’Arabia Saudita dal 1993 al 1999. Il sito web Lahā Online, creato dalla predicatrice al-Muhārib, riporta un estratto da Il ruolo della donna nella riforma della società[7], un pamphlet lungo poco più di 60 pagine scritto da al-‘Uthaymīn. La tesi di fondo è che per riformare la società sia necessario intervenire su due livelli: il livello manifesto, che riguarda la vita pubblica delle persone in moschea, nei suq e negli altri luoghi sociali in cui gli uomini possono incidere maggiormente; e il livello nascosto tra le mura di casa, in cui invece è la donna a eccellere, come ricorderebbe il Corano: «Rimanetevene quiete nelle vostre case e non v’adornate vanamente come avveniva ai tempi dell’idolatria» (Cor. 33,33). Le donne – spiega l’autore – hanno il potere di riformare metà della società. In termini numerici infatti esse costituiscono la metà, se non di più, della collettività, oltre al fatto che i bambini trascorrono i primi anni di vita tra le braccia delle madri. Per poter svolgere questo compito le donne devono possedere alcune qualità quali l’integrità (al-salāh), la chiarezza e l’eloquenza (al-bayān wa-l fasāha), la saggezza (al-hikma) e la buona educazione (husn al-tarbiya). L’integrità è strettamente connessa all’acquisizione del sapere, in particolare quello sciaraitico (‘ilm shar‘ī), che si può conseguire attraverso i libri o gli ulema, siano essi uomini o donne. Quest’ultima affermazione è particolarmente interessante perché sottintende la possibilità anche per le donne di ottenere la qualifica di ‘ālim, sapiente, tradizionalmente riservata agli uomini. Le donne, spiega al-‘Uthaymīn, devono essere un buon esempio per i figli e impartire loro un’educazione fondata sull’etica islamica così che anche loro, da adulti, possano incidere significativamente sulla riforma della società.
Che le donne possano avere un ruolo attivo nel campo della da‘wa troverebbe conferma anche in una fatwa emessa da Ibn Bāz, chierico che negli anni ’80 e ’90 è stato un punto di riferimento per molte predicatrici:
Alla donna è consentito prendere parte alla da‘wa secondo la sua possibilità, e ordinare il bene e proibire il male nei limiti della sua capacità. Può farlo nella sua casa, nel suo Paese, in strada, al mercato e in ogni luogo in cui sia possibile proibire il male e chiamare a Dio con sapienza e con la buona predicazione, nel rispetto […] del diritto che Dio ha stabilito per lei. Può farlo anche quando è in viaggio con il suo mahram, come ordina il Corano: «Ma i credenti e le credenti sono l’un l’altro amici e fratelli, invitano ad atti lodevoli e gli atti biasimevoli sconsigliano» (9,71)[8].
Peraltro, la predicatrice al-Muhārib ha dichiarato di aver ricevuto dallo shaykh Ibn Bāz in persona l’autorità per emettere le fatwe ed essere quindi diventata celebre con il titolo di muftiyya, generalmente riservato agli uomini[9].
La “grande menzogna”
La partecipazione delle predicatrici allo spazio pubblico, anche con funzioni tradizionalmente riservate agli uomini, non implica tuttavia una messa in discussione dei rapporti di genere. Su questo tema ha preso posizione anche Nawwāl al-‘Īd che, in un articolo pubblicato sul suo sito nel 2012[10], riflette sulla visione islamica di uguaglianza (musāwā). La sua idea è che la differenza tra uomo e donna è alla base stessa della creazione dell’essere umano ed è il principio sul quale si fondano i diritti e i doveri di ciascuno. Partendo da questo assunto, qualsiasi richiesta di uguaglianza che non tenga conto della differenza originaria tra maschio e femmina e delle capacità e necessità che ne derivano, si allontana dalla giustizia (‘adl), fondamento dell’Islam, e si avvicina all’ingiustizia (zulm). Sarebbero perciò fonte di ingiustizia quelle istanze che chiedono pari diritti per persone che hanno doveri e prerogative diverse: «L’uguaglianza intesa come eliminazione di tutte le differenze tra uomo e donna non è accettabile, né sul piano scientifico né sul piano pratico. La scienza e la realtà confermano che la donna è differente dall’uomo nell’immagine, nell’aspetto fisico, nella composizione chimica cellulare, e che i due sessi si differenziano nelle funzioni organiche e negli aspetti psicologici. Come potrebbero essere uguali nei diritti e nei doveri?» Queste considerazioni, spiega Nawwāl al-‘Īd, non sono frutto esclusivo della cultura religiosa islamica, ma sono condivise anche da alcuni intellettuali occidentali, tra cui il medico e scienziato francese Alexis Carrel (m. 1944) autore di L’homme cet inconnu (1935), un saggio filosofico dedicato in parte all’analisi ontologica dell’essere umano. L’autore rivolge una critica alla pretesa di conoscere le cose attraverso la sola osservazione scientifica, dimenticando come l’uomo sia un tutto indivisibile, formato da corpo e spirito, ciò che lo distingue dagli altri esseri viventi.
Le donne sono chiamate a sviluppare le loro propensioni conformemente alla loro natura, senza tentare di imitare gli uomini
La predicatrice cita e commenta un passo dell’opera del medico francese, secondo il quale «i desideri umani non possono sovvertire l’ordine creato da Dio, e le donne sono chiamate a sviluppare le loro propensioni conformemente alla loro natura, senza tentare di imitare gli uomini». Il fatto di ignorare queste verità fondamentali – spiega Nawāl al-‘Īd – avrebbe portato le femministe a credere che entrambi i sessi debbano poter ricevere la stessa educazione, godere della stessa autorità e avere responsabilità simili. La sharī‘a adotta la legge dell’uguaglianza e della differenza (qānūn al-tasāwī wa-l-ikhtilāf) ritenendola adatta a realizzare la felicità di entrambi i sessi. Del resto, conclude la predicatrice, il Profeta ha detto che «le donne sono sorelle (shaqā’iq) degli uomini», non che sono come gli uomini. E la questione dell’uguaglianza tra i sessi non può che essere una «grande menzogna (al-kadhba al-kubrā)», come ricorda il titolo stesso del suo articolo.
Tra conservazione e riforma
Tra gli esperti, alcuni concordano nel sostenere che le predicatrici saudite abbiano un ruolo nella sfera pubblica solo in quanto donne che predicano ad altre donne. Non riuscendo a superare il confine di genere, esse contribuiscono perciò a mantenere la società saudita profondamente patriarcale dal punto di vista sociale, e profondamente wahhabita a livello religioso[11]. Secondo altri, invece, proprio il fatto di collocarsi all’interno del sistema e di essersi sapute costruire una credibilità nel campo degli studi religiosi consentirebbe loro di accedere a posizioni di potere nelle istituzioni e quindi mettere in discussione le frontiere di genere[12].
Se è vero che la loro capacità di incidere è molto più forte tra le donne, è altrettanto vero che negli ultimi anni il fenomeno delle dā‘iyāt ha suscitato l’attenzione delle istituzioni. Dal 2004, per esempio, la città di Gedda ospita due volte l’anno un forum che riunisce le predicatrici saudite. Nel 2006 il Ministero degli Affari religiosi ha pubblicato un opuscolo in cui spiegava l’importanza di predicare la moderazione, al fine di evitare gli eccessi dell’estremismo religioso da un lato, e dell’occidentalizzazione dei contenuti dall’altro[13]. Pochi anni dopo, nel 2010, iniziava a lavorare alla creazione di un sistema che avrebbe dovuto regolarizzare il campo della da‘wa femminile[14]. La decisione arrivava sulla scia della notizia secondo cui alcune predicatrici avevano diffuso delle idee estremiste. La nuova legge prevedeva la creazione di liste di predicatrici autorizzate dal Ministero a svolgere l’attività di da‘wa. Nella fattispecie, le liste erano due e contenevano rispettivamente 190 e 180 nomi.
Le donne impegnate nel campo del religioso sono libere di predicare nel Regno fintanto che sostengono l’agenda del Governo
Il ruolo della donna nella società è diventato un tema importante anche per Re Salmān Ibn ‘Abd al ‘Azīz al-Sa‘ūd e per il principe ereditario Muhammad Ibn Salmān, che ne ha fatto uno dei cavalli di battaglia della sua propaganda riformista. Tra le misure previste dalla “Visione 2030” – il piano di sviluppo socio-economico approvato dal Consiglio dei Ministri del Regno nel 2016 per favorire lo sviluppo economico del Paese – vi è l’incremento della presenza femminile nel mondo del lavoro, che dovrebbe passare entro il 2020 dal 21% al 24%[15]. In quest’ottica, nel 2018 è nato l’Osservatorio nazionale delle donne[16], un think tank affiliato all’Università re Saud di Riyadh che monitora la partecipazione delle donne saudite allo sviluppo e il loro impatto diretto sulla società. Se è vero che formalmente qualche progresso è stato fatto, aprendo alle donne la possibilità di viaggiare all’estero senza dover chiedere il consenso al mahram (da agosto 2019), o consentendo loro di guidare l’auto (da giugno 2018), è altrettanto vero che la narrazione ufficiale non ha impedito al principe ereditario di punire con il carcere alcune attiviste per i diritti delle donne come Lujain al-Hathloul, Samar Badawi e Hatoon al-Fassi, quest’ultima rilasciata lo scorso maggio[17]. Alla luce di questi fatti è evidente come anche le donne impegnate nel campo religioso siano libere di predicare nel Regno fintanto che contribuiscono a mantenere l’equilibrio sociale prestabilito e sostengono l’agenda del Governo, ma potrebbero non esserlo più qualora tentassero di destabilizzarlo con richieste o interpretazioni in contrasto con la visione ufficiale.
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[1] Ida Zilio-Grandi, Modestia, pudicizia e riserbo: la virtù islamica della haya, «Philologia Hispalensis» vol. 31, n. 2 (2017), p. 172.
[2] Madawi al-Rasheed, A Most Masculine State. Gender, Politics and Religion in Saudi Arabia, Cambridge University Press, New York 2013, pp. 46-47.
[3] Ivi, p. 91.
[4] Laila Makboul, Beyond Preaching Women: Saudi Dā‘iyāt and Their Engagement in the Public Sphere, «Die Welt des Islams» n. 57 (2017), p. 309.
[5] Ivi, p. 311.
[6] https://twitter.com/ethraa_ws
[7] Muhammad bin Sālih al-‘Uthaymīn, Dawr al-mar’a fī islāh al-mujtama‘, Mu’assasat al-shaykh Muhammad bin Sālih al-‘Uthaymīn al-khayriyya, estratto disponibile su https://bit.ly/3430qLr
[8] https://bit.ly/2N0oo4k
[9] Laila Makboul, Beyond Preaching Women, p. 314.
[10] Nawāl al-‘Īd, Al-kadhba al-kubrā, 21 Dhū-l hijja 1433/6 novembre 2012, disponibile su https://bit.ly/2prBO07
[11] Madawi al-Rasheed, A Most Masculine State, p. 248; Amélie Le Renard, From Qur’ānic Circles to the Internet in Saudi Arabia, in Masooda Bano e Hilary Kalmbach (a cura di), Women, Leadership, and Mosques. Changes in Contemporary Islamic Authority, Brill, Leiden-Boston 2012, p. 120.
[12] Laila Makboul, Beyond Preaching Women, p. 328.
[13] Amélie Le Renard, From Qur’ānic Circles to the Internet in Saudi Arabia, p. 123.
[14] Abdul Rahman Shaheen, Islamic Ministry to set guidelines for women preachers in Saudi Arabia, «Gulf News», 13 giugno 2010. Disponibile su https://bit.ly/35ZGNFS
[15] National Transformation Programm. Delivery Plan 2018-2020, p. 82. Disponibile su https://bit.ly/32P68Ag
[16] Alcune scarne informazioni sull’Osservatorio sono disponibili sul sito ufficiale: https://now.ksu.edu.sa/ar
[17] Committee on Academic Freedom, Hatoon al-Fassi and other women’s rights activists released from prison temporarily, MESA, 3 maggio 2019. Disponibile su https://bit.ly/2JlYN3M