Alcune donne si sono fatte promotrici dell’emancipazione femminile a partire dalla rilettura dei testi sacri dell’Islam: una terza via fra diritti umani e norme tradizionali
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 15:13:02
La modernizzazione dei sistemi giuridici in molti Paesi musulmani non ha toccato le disparità di genere previste dalla giurisprudenza classica. Ciò ha generato due dinamiche contrastanti: da un lato il tentativo di superare la disuguaglianza tra i sessi in nome dei diritti umani; dall’altro l’affermazione della normatività tradizionale come baluardo contro l’imperialismo culturale occidentale. Un gruppo di donne ha cercato però una strada alternativa, che promuove l’emancipazione femminile a partire da una comprensione rinnovata dei testi sacri dell’Islam.
La formulazione delle norme e dei valori etici che si trovano nelle fonti testuali dell’Islam (il Corano e gli hadīth) è stata affidata agli esperti religiosi (gli ‘ulamā’). I giuristi classici (fuqahā’) si sono impegnati a tradurre tali valori e tali norme in decisioni giuridiche (ahkām). Queste ultime costituiscono tuttora interpretazioni consolidate della sharī‘a, nelle quali si riflettono concezioni premoderne della giustizia che attribuiscono agli individui diritti diversi in base alla loro fede, al loro statuto personale e al genere. Nel corso del XX secolo i musulmani si sono trovati a fare i conti con gli ideali dei diritti umani universali, come l’uguaglianza e la libertà personale, e ciò è stato particolarmente evidente nell’ambito dei diritti di genere.
Questo articolo ha due obiettivi. Innanzitutto, illustrerò come il confronto con gli ideali “moderni” abbia dato origine, all’interno della tradizione islamica, a un discorso nuovo, che mette in discussione i fondamenti dei discorsi tradizionali e sostiene l’uguaglianza di genere. In secondo luogo, mi concentrerò sul lavoro portato avanti a questo proposito dalle attiviste e dalle studiose femministe musulmane. Scrivo in qualità di membro fondatore di Musawah[1], un movimento globale a favore dell’uguaglianza e della giustizia all’interno della famiglia musulmana. Musawah è stato lanciato nel febbraio del 2009 nel corso di un incontro ospitato a Kuala Lumpur dal pionieristico gruppo di pressione malese Sisters in Islam (“Sorelle nell’Islam”[2]). Esso combina l’attivismo con lo studio, al fine di introdurre nuove prospettive negli insegnamenti islamici e contribuire in modo costruttivo alla riforma delle leggi e delle pratiche famigliari.
Una parola sulla mia posizione e sul mio approccio è d’obbligo. Sono una donna musulmana, impegnata nel dibattito sulla parità di genere nel diritto e nella lotta per conseguirla. Il mio approccio e la mia analisi scaturiscono dalla mia formazione in antropologia giuridica, ma non pretendo di essere un’osservatrice distaccata. Fin dai primi anni ’80, le mie ricerche si sono concentrate sulle norme che disciplinano le relazioni di genere nella tradizione giuridica islamica. Le esamino da una prospettiva femminista critica e tento una sorta di “etnografia” delle costruzioni giuridiche sulle quali è stato eretto l’intero edificio della disuguaglianza di genere nella tradizione giuridica islamica. Nel 2000, ho oltrepassato il confine tra la ricerca accademica e l’attivismo, iniziando a lavorare con gruppi di donne come le Sorelle nell’Islam.
La sharīʻa e la riforma del diritto di famiglia
Nella prima metà del XX secolo, gran parte del mondo musulmano ha assistito alla nascita degli Stati-nazione, alla diffusione dell’istruzione laica, all’arretramento della religione nella sfera politica e alla secolarizzazione delle leggi e degli ordinamenti giuridici. La maggior parte degli Stati a maggioranza musulmana ha emarginato il fiqh (la giurisprudenza islamica) in tutti gli ambiti del diritto, con l’eccezione del diritto di famiglia, nel quale alcune delle norme classiche della giurisprudenza islamica sono state riformate, codificate e innestate in ordinamenti giuridici nuovi e unificati, ispirati ai modelli occidentali. Le riforme introdotte sono state limitate e non hanno contrastato in modo diretto la struttura patriarcale del matrimonio, concentrandosi sull’innalzamento dell’età matrimoniale, sull’ampliamento delle possibilità di accesso al divorzio giudiziale da parte delle donne e sulla restrizione del diritto maschile alla poligamia.
Ho scritto approfonditamente sugli effetti della codificazione delle disposizioni del fiqh sul diritto di famiglia[3]. Essa ha trasformato l’interazione tra il diritto islamico e le pratiche sociali, creando un diritto di famiglia ibrido che non è né classico né occidentale. Codici e leggi hanno preso il posto dei manuali classici di giurisprudenza nel disciplinare lo statuto giuridico delle donne nella società. Il diritto di famiglia ha cessato di riguardare esclusivamente gli studiosi che operavano all’interno di una particolare scuola di fiqh, diventando piuttosto di competenza dell’assemblea legislativa di un particolare Stato-nazione. Nel codificare il diritto di famiglia, i governi hanno introdotto delle riforme attraverso norme procedurali che, nella maggior parte dei casi, hanno comunque lasciato più o meno immutata la sostanza del diritto classico.
Il fiqh e i suoi esperti hanno perso contatto con realtà sociali e politiche in evoluzione
Tutto ciò ha dato nuovo vigore giuridico alle interpretazioni premoderne della sharī‘a e ha portato alla comparsa di quella che definisco una letteratura apologetica “neo-tradizionalista” sulle “donne nell’Islam”, la quale di fatto rifiuta la sfida dell’uguaglianza di genere. Allo stesso tempo, ritrovandosi sempre più confinati nelle torri d’avorio dei seminari, il fiqh e i suoi esperti hanno perso contatto con realtà sociali e politiche in evoluzione, diventando incapaci di rispondere alle sfide epistemologiche poste dalla modernità.
È fondamentale ricordare che, fino al XIX secolo, la giurisprudenza islamica garantiva alle donne più diritti di qualsiasi legislazione occidentale. Per esempio, nel matrimonio le donne musulmane hanno sempre potuto mantenere la loro identità giuridica e la loro autonomia economica, mentre in Inghilterra è stato solo con l’approvazione della legge sulla proprietà delle donne sposate, nel 1882, che queste ultime hanno acquisito il diritto di mantenere la proprietà dei loro beni dopo il matrimonio[4].
Gli ultimi due decenni del XX secolo hanno visto l’ascesa dell’Islam come forza spirituale e politica. L’Islam politico ha ottenuto il suo trionfo nel 1979 con la rivoluzione popolare che in Iran ha portato il clero al potere. Tuttavia, quello è stato anche l’anno in cui l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la CEDAW (la Convenzione sull’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione della Donna), che ha fatto dell’uguaglianza di genere un chiaro mandato giuridico internazionale.
Due dinamiche contrastanti
Nei decenni successivi si è assistito alla crescita simultanea, a livello globale e locale, di due forze potenti ma apparentemente contrastanti. Da un lato, nel corso degli anni ’80 si è sviluppato il movimento internazionale delle donne e il CEDAW ha fornito agli attivisti per i loro diritti ciò di cui avevano più bisogno: un punto di riferimento, un linguaggio e gli strumenti per resistere al patriarcato e metterlo in discussione. Dall’altro lato, gli islamisti – che fossero al potere o all’opposizione – hanno invocato la sharī‘a per smantellare quanto precedentemente fatto dai governi modernisti per riformare e/o secolarizzare le leggi e i sistemi giuridici. Ne sono un esempio l’Iran, l’Egitto e l’introduzione da parte del Pakistan delle “Ordinanze Hudūd” che estendevano la portata del fiqh a determinati aspetti del diritto penale[5]. Facendo leva sulle richieste popolari di giustizia sociale, gli islamisti hanno presentato questo smantellamento come “un’islamizzazione” e come il primo passo per realizzare la loro idea di società morale e giusta. In pratica, però, questo equivaleva a poco più che promulgare e applicare leggi e politiche retrograde, come l’imposizione di codici di abbigliamento, la segregazione di genere, il ripristino di punizioni crudeli e di antiquati modelli patriarcali e tribali di relazioni sociali.
Tuttavia, la spinta dell’Islam politico verso “l’islamizzazione” ha avuto alcune conseguenze inaspettate. Una nuova ondata di pensatori musulmani riformisti ha iniziato a rispondere alla sfida islamista, aprendo nuovi orizzonti al pensiero giuridico islamico. Utilizzando gli strumenti concettuali e le teorie di altri rami del sapere, questi pensatori hanno ampliato il lavoro dei riformisti precedenti e sviluppato ulteriori teorie epistemologico-interpretative. A differenza dei loro precursori dell’inizio del XX secolo, essi hanno smesso di cercare una genealogia islamica per concetti moderni come l’uguaglianza, i diritti umani e la democrazia, ponendo invece l’accento sul modo in cui è compresa la religione, prodotta la conoscenza religiosa e in cui sono costruiti i diritti nella tradizione giuridica islamica[6].
Al contempo, i tentativi degli islamisti di tradurre le interpretazioni anacronistiche e patriarcali della sharī‘a in provvedimenti politici hanno indotto molte donne ad assumere posizioni sempre più critiche verso tali nozioni, spingendole verso nuove forme di attivismo. Progressivamente, le donne hanno cominciato a contestare il legame tra gli ideali islamici e il patriarcato e a riconciliare la loro fede con la lotta per l’uguaglianza. All’inizio degli anni ’90, si sono manifestati i segnali di un nuovo modo di pensare il genere, che era femminista nelle sue aspirazioni e richieste, ma islamico nel suo linguaggio e nelle fonti di legittimità. Alcune versioni di questo nuovo discorso sono state etichettate come “femminismo islamico”, sul quale sia io che altri abbiamo scritto in dettaglio[7]. Si tratta di un fenomeno alimentato da una cultura femminista che ha iniziato a svelare una storia sconosciuta e a rileggere le fonti testuali islamiche, contribuendo a interpretazioni egualitarie della sharī‘a.
Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq hanno profondamente minato la credibilità morale dei diritti umani e dei discorsi femministi
Questi sviluppi, come molti altri, sono stati bruscamente interrotti dall’11 settembre 2001 e dalla successiva politica e retorica della “guerra al terrore”, che molti musulmani hanno percepito come una guerra all’Islam. Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq – entrambe parzialmente giustificate in nome della “democrazia”, della “libertà” e dei “diritti delle donne” – unite al doppio standard utilizzato per promuovere le sanzioni delle Nazioni Unite, hanno profondamente minato la credibilità morale dei diritti umani e dei discorsi femministi.
Musawah: un movimento per l’uguaglianza e la giustizia nella famiglia musulmana
È stato allora che molte di noi, come musulmane e femministe, si sono ritrovate tra due fuochi. Da una parte, gli islamisti ci negavano l’uguaglianza in nome della sharī‘a; dall’altra, i poteri egemonici mondiali perseguivano un progetto neo-colonialista in nome del femminismo e dei diritti umani. Per alcune di noi, la via d’uscita da quest’imbarazzo fu unire l’ambito islamico a quello femminista. La grande maggioranza delle donne di cui difendevamo i diritti erano credenti e volevano vivere secondo gli insegnamenti dell’Islam. Credevamo che il vero cambiamento non sarebbe avvenuto con il rifiuto e lo scontro, ma solo attraverso un impegno significativo e costruttivo verso quegli insegnamenti.
Per fare questo, dovevamo rivendicare lo spirito egualitario dei testi sacri dell’Islam ed esprimere pubblicamente la nostra visione della religione. Abbiamo incontrato due tipi di resistenza. Il primo è stato quello degli apparati religiosi: leader e gruppi che pretendono di conoscere l’Islam e la sharī‘a autentici e di parlare in loro nome. Essi guardano con sospetto sia il diritto internazionale relativo ai diritti umani che il femminismo e si rifiutano di collaborare seriamente con i loro fautori. Ma è la loro visione dell’Islam, non la nostra, a raggiungere la maggior parte delle donne, che di conseguenza non condivide necessariamente il nostro desiderio di uguaglianza giuridica. L’altra forma di resistenza proviene da alcune intellettuali femministe laiche e da ONG e attivisti per i diritti delle donne, che sono restii a trattare le questioni femminili da una prospettiva religiosa. Per molti di loro, è proprio l’“Islam” il principale ostacolo nella lotta per l’uguaglianza ed essi si sentono a proprio agio solo con la logica dei diritti umani.
Una delle pochissime ONG femminili che sono felici di identificarsi sia come islamiche che come femministe è Sisters in Islam
Una delle pochissime ONG femminili che sono felici di identificarsi sia come islamiche che come femministe è Sisters in Islam (SIS), con sede in Malesia. Fin dalla sua nascita, nel 1988, SIS ha sostenuto i diritti e l’uguaglianza delle donne da una prospettiva islamica, coinvolgendo studiosi e media in un dibattito pubblico sulla religione. Nel febbraio del 2007, Zainah Anwar, fondatrice e direttrice della ONG, ha organizzato un seminario a Istanbul che ha riunito un gruppo eterogeneo di attiviste e di studiose provenienti da diversi Paesi. L’incontro ha portato alla costituzione di un comitato organizzativo, incaricato di definire la visione, i principi e l’inquadramento concettuale del movimento che abbiamo chiamato Musawah, con lo scopo di creare una nuova strategia di riforma[8].
Sfruttando la nuova ondata di pensiero riformista e di studi femministi nell’Islam, abbiamo elaborato e pubblicato il Framework for Action (“Piattaforma d’Azione”)[9], con il quale abbiamo inserito la nostra rivendicazione d’uguaglianza e il nostro sostegno alla riforma in una cornice che è allo stesso tempo islamica e legata ai diritti umani. Adottando una prospettiva femminista critica, ma soprattutto lavorando all’interno della tradizione del pensiero giuridico islamico, abbiamo fatto appello a due fondamentali distinzioni.
La prima è quella tra sharī‘a e fiqh, una distinzione che sta alla base della comparsa di diverse scuole di diritto islamico e, al loro interno, di una molteplicità di posizioni e opinioni. Sharī‘a, letteralmente “la via”, è la via divina ideale, che secondo la fede islamica è stata rivelata al profeta Muhammad attraverso il Corano. Fiqh, letteralmente “comprensione”, è la scienza della giurisprudenza islamica, così come è stata sviluppata dai giuristi musulmani per discernere la sharī‘a, ricavando norme giuridiche dalle fonti sacre dell’Islam, cioè il Corano e la Sunna (la pratica del Profeta contenuta negli hadīth, le tradizioni). Il termine fiqh indica anche le “leggi” risultanti da questo processo, che, come ogni altro sistema giuridico e legale, è opera dell’uomo, e dunque è temporale e locale. Chiunque pretende che una legge o una norma giuridica specifica sia sharī‘a o “legge di Dio” sta rivendicando un’autorità divina per qualcosa che in realtà è una disposizione del fiqh, un’interpretazione umana. Quello che “sappiamo” della “sharī‘a” è e sarà sempre soltanto un’interpretazione, una comprensione.
La seconda distinzione, che ricaviamo sempre dalla tradizione giuridica islamica, è tra le due principali categorie di norme giuridiche (ahkām): quelle che regolano le ʻibādāt (atti rituali/spirituali) e quelle che disciplinano le muʻāmalāt (atti sociali/contrattuali). Secondo i giuristi, nelle ʻibādāt, che riguardano la relazione tra Dio e il credente, c’è poco spazio per la razionalizzazione, la spiegazione e il cambiamento, perché esse appartengono al mondo spirituale e ai misteri divini. Diverso è il caso delle muʻāmalāt, che interessano le relazioni tra gli esseri umani e restano aperte alle considerazioni razionali e alle forze sociali; la maggior parte delle norme che riguardano le donne e le relazioni di genere appartiene a questa categoria.
Queste distinzioni ci forniscono il linguaggio e gli strumenti concettuali per mettere in discussione il patriarcato a partire dalla tradizione giuridica musulmana. Il nostro principale obiettivo è includere le preoccupazioni e le voci femminili nei processi di produzione della conoscenza religiosa e della riforma giuridica nei contesti musulmani. Lo facciamo collegando la ricerca all’attivismo. In questo senso, la nostra azione è parte della più ampia lotta per la democratizzazione della conoscenza nell’Islam e dell’autorità di interpretare i suoi testi sacri.
Ripensare due concetti fondamentali
Nel 2010 abbiamo dato avvio a un articolato progetto per ripensare due concetti giuridici fondamentali, radicati nel Corano, che stanno alla base dell’iniqua costruzione dei diritti di genere all’interno del diritto di famiglia musulmano. Mi riferisco alla qiwāma e alla wilāya, i quali, per come sono stati compresi e tradotti in norme giuridiche dagli studiosi musulmani, pongono la donna sotto la tutela dell’uomo. La qiwāma denota l’autorità del marito sulla moglie; la wilāya indica il diritto e il dovere dei membri maschili della famiglia di esercitare la tutela sui membri femminili (per esempio i padri sulle figlie quando stipulano i contratti matrimoniali). Questi concetti, nel modo in cui sono stati formulati dai giuristi classici e si riflettono nelle leggi e nelle pratiche attuali, hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo centrale nell’istituzionalizzare, giustificare e sostenere la disuguaglianza di genere nei contesti musulmani. E dietro queste leggi e queste pratiche c’è un’idea antica: gli uomini sono forti, proteggono e provvedono; le donne sono deboli, obbediscono e devono essere protette.
Il progetto Musawah è costituito da due elementi interconnessi. Il primo riguarda la produzione di una nuova conoscenza femminista che tratti questi concetti in modo critico e li ridefinisca conformemente alle nozioni contemporanee di giustizia. Il secondo elemento punta a documentare storie di vita di donne e di uomini musulmani in diversi Paesi al fine di mostrare il modo in cui essi sperimentano, comprendono e contestano questi due concetti giuridici nel loro vissuto quotidiano.
Il versetto coranico 4,34 è al centro di intensi dibattiti da più di un secolo
Abbiamo perciò commissionato degli articoli preparatori che espongano ed esaminino la formulazione di questi due concetti nei testi classici di fiqh e le dottrine religiose e giuridiche che li sostengono, così come il loro ruolo e la loro funzione nelle leggi e nelle pratiche contemporanee. Questo ci ha naturalmente condotto al versetto 4,34 del Corano.
Gli uomini sono qawwāmūn (custodi/responsabili) delle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro beni per mantenerle; le donne buone sono dunque qānitāt (obbedienti) che custodiscono l’invisibile, così come Dio lo custodisce; quanto a quelle di cui temete la nushūz (ribellione), ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti, poi adribū-hunna (battetele); ma se vi ubbidiranno, allora non cercate pretesti per maltrattarle; che Iddio è grande e sublime.
Tra i musulmani, questo versetto è al centro di intensi dibattiti da più di un secolo. Esso costituisce la principale prova testuale a sostegno dell’autorità degli uomini sulle donne, la fonte da cui i giuristi classici hanno derivato il concetto di qiwāma o tutela maschile sulle donne. Spesso è l’unico versetto conosciuto dal musulmano medio in merito al diritto di famiglia.
Attualmente, c’è una letteratura significativa che tenta di contestare e riformulare i significati e le connotazioni dei quattro termini che ho evidenziato. Le traduzioni che ho fornito si avvicinano all’opinione diffusa tra i giuristi classici, come si evince dalle norme (ahkām) che essi hanno elaborato per definire le relazioni matrimoniali e di genere[10]. Non è esagerato affermare che l’edificio del diritto di famiglia della tradizione giuridica musulmana è costruito sui modi con cui i giuristi classici hanno compreso questo versetto e lo hanno tradotto in norme giuridiche. Essi hanno definito il matrimonio come un contratto che mette automaticamente la moglie sotto la qiwāma del marito, presupponendo uno scambio: l’obbedienza e la sottomissione (tamkīn) in cambio del mantenimento (nafaqa) da parte del marito.
Tuttavia, è fondamentale sapere che, nel Corano, questa è l’unica occorrenza della parola qawwāmūn nel contesto delle relazioni di genere. Il correlativo termine astratto qiwāma non è affatto presente. Il termine wilāya, che è strettamente connesso al precedente, compare nel versetto 18,44 del Corano – dove si riferisce alla protezione di Dio sugli esseri umani –, ma non in un senso che avalli l’autorità degli uomini sulle donne, come invece afferma l’interpretazione contenuta nel fiqh classico. Molti altri versetti parlano dell’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne agli occhi di Dio e del mondo. In merito al matrimonio, altre due espressioni compaiono spesso: maʻrūf (buona pratica) e rahma wa mawadda (compassione e amore).
Nel 2015 i primi risultati del progetto sono stati raccolti nel volume Men in Charge? Rethinking Authority in Muslim Legal Tradition[11]. La sua tesi principale è che l’autorità maschile sulle donne non possa essere fondata su argomenti religiosi e che qiwāma e wilāya, nel senso della tutela maschile sulla donna, non sono concetti coranici: sono costrutti giuridici che nel tempo sono diventati gli elementi costitutivi del patriarcato nella tradizione giuridica musulmana. Essi si basano sul presupposto che Dio abbia dato all’uomo autorità sulla donna, un’invenzione teologica che è diventata un postulato giuridico, la cui principale funzione è diventata quella di sostenere la disparità di genere. Hanno collaborato al volume studiosi provenienti da discipline e retroterra differenti, che utilizzano la propria competenza per demistificare questi termini e reinterpretarli a partire dalla tradizione islamica e dai suoi principi teologici ed etici fondamentali. Soprattutto, essi basano queste interpretazioni sulle realtà quotidiane e sulle esperienze femminili, che costituiscono il cuore della sezione del progetto relativa alle storie di vita[12].
Oltre le polarizzazioni ideologiche
Musawah è solo uno dei tanti movimenti attualmente attivi nel mondo musulmano attraverso incontri e vivaci dibattiti online e sui social media, che sfidano dall’interno l’etica autoritaria e patriarcale delle interpretazioni consolidate della sharī‘a per aprire la strada a un discorso egualitario di genere. Questi movimenti hanno qualche possibilità di successo? Un discorso femminista che trae la sua legittimità dai testi sacri dell’Islam e deve operare all’interno di un sistema giuridico chiuso come il fiqh, con scarso sostegno da parte della base di potere di quella tradizione (cioè i giuristi musulmani), può indurre una trasformazione dall’interno? La mia risposta a questa domanda è un sì, ma con riserva, per le due ragioni con le quali concludo.
Innanzitutto, le tradizioni e le teorie giuridiche devono essere comprese nei contesti culturali, politici e sociali in cui esistono e operano. L’uguaglianza di genere è un ideale moderno, che solo recentemente, con la diffusione dei diritti umani e dei discorsi femministi, è diventato parte integrante delle concezioni di giustizia comunemente accettate. Nell’Islam, come in altre tradizioni religiose, l’idea dell’uguaglianza tra uomini e donne non era rilevante per la nozione di giustizia, né faceva parte del panorama giuridico. Alla fine del XX secolo non era più così. La teoria giuridica segue spesso la pratica; ciò significa che quando la realtà sul terreno cambia, la pressione sociale porta a trasformazioni nel diritto. La giurisprudenza islamica, o fiqh, non fa eccezione e nel nuovo secolo deve rispondere alla sfida femminista interna, una sfida che non può più ignorare.
Il femminismo islamico rappresenta una voce pubblica che può rompere le polarizzazioni ideologiche
In secondo luogo, la lotta per l’uguaglianza di genere è parte di una più ampia lotta per la giustizia sociale, la democrazia e il pluralismo. Nei contesti musulmani, questa lotta è tanto politica quanto teologica, sebbene sia difficile tracciare un confine tra la fine della teologia e l’inizio della politica. Una delle tante conseguenze inaspettate dell’ascesa dell’Islam politico e della “guerra al terrore” è stata una crescente comprensione da parte della gente comune della natura di questa lotta. Questi sviluppi hanno mostrato quanto i diritti delle donne, nei contesti musulmani, siano condizionati dalle lotte di potere, locali e globali, tra forze che hanno altre priorità. Il femminismo islamico rappresenta una voce pubblica che può rompere le polarizzazioni ideologiche, come quella tra il “secolare” e il “religioso”, o tra “Islam” e “diritti umani”, di cui sono rimaste ostaggio fin dall’inizio del XX secolo la ricerca di uguaglianza da parte delle donne e, a sua volta, la transizione verso la democrazia. Esso ci mostra il vero terreno di scontro, che è quello tra le strutture patriarcali e autoritarie da una parte e le ideologie e le forze ugualitarie, pluraliste e democratiche dall’altra. Il risultato di questa battaglia determinerà se possiamo aspirare a un reale e significativo cambiamento, capace di intaccare le convinzioni e le tendenze consolidate che hanno modellato le nostre realtà religiose, culturali e politiche.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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[1] Si veda www.musawah.org
[2] Si veda https://www.sistersinislam.org.my/
[3] Per un approfondimento, si veda Ziba Mir-Hosseini, Towards Gender Equality: Muslim Family Laws and the Shari‘a, in Zainah Anwar (a cura di), Wanted: Equality and Justice in the Muslim Family, Sisters in Islam, Kuala Lumpur 2009, pp. 23-63; consultabile anche su http://arabic.musawah.org/sites/default/files/Wanted-ZMH-EN.pdf
[4] Danaya Wright, Legal Rights and Women’s Autonomy: Can Family Law Reform in Muslim Countries Avoid the Contradictions of Victorian Domesticity?, «Hawwa: Journal of Women of the Middle East and the Islamic World», vol. 5, n. 1 (2017), pp. 33-54.
[5 Si veda Ziba Mir-Hosseini, Vanja Hamzić, Control and Sexuality: The Revival of Zina Laws in Muslim Contexts, WLUML Publications, London 2010, consultabile su http://www.wluml.org/node/6869
[6] Tra questi sono particolarmente importanti Mohammed Arkoun, Khaled Abu El Fadl, Nasr Hamid Abu Zayd, Mohammad Mojtahed Shabestari e Abdolkarim Soroush. Per un approfondimento sul loro lavoro si veda Suha Taji-Farouki (a cura di), Modern Muslim Intellectuals and the Qur’an, Oxford University Press, Oxford 2004; Katajun Amirpur, New Thinking in Islam. The Jihad for Freedom, Democracy and Women’s Rights, Gingko Library, London 2015.
[7] Ziba Mir-Hosseini, Muslim Women’s Quest for Equality: Between Islamic Law and Feminism, «Critical Inquiry», n. 32 (2006), pp. 629-45 e Ead., Beyond “Islam” vs “Feminism”, «IDS Bulletin», vol. 42, n. 1 (2011), pp. 67-77: http://www.zibamirhosseini.com/documents/mir-hosseini-article-beyond-islam-vs-feminism--2011.pdf
[8] Zainah Anwar, From Local to Global. Sisters in Islam and the Making of Musawah, in Lena Larsen, Christian Moe, Kari Vogt (a cura di), Gender and Equality in Muslim Family Law. Justice and Ethics in the Islamic Legal Tradition, I.B. Tauris, London 2013, pp. 107-124.
[9] Il documento è disponibile in cinque lingue: http://www.musawah.org/resources/musawah-framework-for-action/
[10] La traduzione del versetto segue quella di Kecia Ali (in inglese), che lascia le parole evidenziate non tradotte, sottolineando che «ogni traduzione di queste parole chiave equivale a un’interpretazione». Si veda il suo Muslim sexual ethics: understanding a difficult verse, Qur’an 4:34, https://www.brandeis.edu/projects/fse/muslim/diff-verse.html
[11] Ziba Mir-Hosseini, Mulki Al-Sharmani, Jana Rumminger (a cura di), Men in charge? Rethinking Male Authority in Muslim Legal Tradition, Oneworld, London 2015.
[12] Per questo aspetto del progetto si veda Women’s Stories, Women’s Lives: Male Authority in Muslim Contexts, http://www.musawah-lifestories.org/