A distanza di più di cinque anni dal manifestarsi dei primi segnali della crisi economico-finanziaria che ancora ci accompagna, diventa ancora più urgente ripensare a fondo sia l’economia – nel suo dato di esperienza – sia la scienza economica nei suoi modelli di riferimento per l’analisi e per l’elaborazione di politiche economiche.
Ultimo aggiornamento: 19/12/2024 09:43:33
A distanza di più di cinque anni dal manifestarsi dei primi segnali della crisi economico-finanziaria che ancora ci accompagna, diventa ancora più urgente ripensare a fondo sia l’economia – nel suo dato di esperienza – sia la scienza economica nei suoi modelli di riferimento per l’analisi e per l’elaborazione di politiche economiche. All’indomani della crisi, ci sono stati esempi interessanti[1] di riconsiderazione del mondo economico-finanziario; oggi, invece, il tono prevalente del dibattito è tornato ad appiattirsi sulla gestione economico-politica del sistema nel suo dato esteriore. Lo stallo in cui ci troviamo conferma che la scelta del pragmatismo (una scelta essenzialmente culturale) è apparentemente sensata, ma ultimamente non conveniente: non si fa molta strada ponendo l’accento sul “fare” e trascurando l’orizzonte intero dell’agire umano.
Economia e finanza non si esauriscono nel “fare”: lo capiamo sia osservando criticamente noi stessi in azione, sia tentando di leggere le grandi dinamiche di sviluppo e di declino dei sistemi politici ed economici. Agire in un mondo incerto e rischioso – così è il mondo! – significa mettere in gioco la libertà personale sulla base delle proprie convinzioni, motivazioni e aspettative; quindi, le decisioni economiche riguardano soprattutto l’essere (essere convinti, motivati, capaci di ragionevole speranza). Questo essere genera progresso e sviluppo: the bettering of the human condition, avrebbe detto Adam Smith.
C’è una definizione di sviluppo che mi sembra particolarmente efficace per riassumere in cosa consista il progresso buono verso cui ciascuna persona, e l’umanità nel suo insieme, tende: «fare, conoscere e avere di più, per essere di più» (Populorum Progressio 6, Caritas in Veritate 18). Per meno di così, l’economia perde di interesse: se soggetto e oggetto dell’economia sono mutilati delle loro dimensioni essenziali, ci auto-condanniamo a non capire quel che accade e a non progredire verso il “di più”.
La riduzione dell’oggetto
In cosa consiste la riduzione dell’oggetto dell’economia? Nel guardare a una parte – pur importante – delle decisioni economiche come se la parte fosse il tutto. Ad esempio, in un mondo di scarsità, è importante scegliere l’uso “migliore” delle risorse e delle tecnologie a disposizione: ne va della sopravvivenza. È così importante che even rats do it![2] Ma sarebbe del tutto irragionevole concepire ogni decisione economica come un problema di ottimizzazione mezzi/fini, perché finiremmo per non capire proprio le cose più interessanti dell’economia: da dove vengono le risorse? Da dove viene la tecnologia? Da dove vengono sviluppo e crisi?
L’oggetto della scienza economica è l’organizzazione della “casa” comune, luogo concreto dove si incontrano i bisogni e le risorse di chi vi abita; luogo del noi e allo stesso tempo spazio aperto all’incontro e allo scambio con gli altri. Lo scambio è una parte necessaria dell’economia: non solo perché viviamo nell’epoca della globalizzazione, ma perché lo scambiare è proprio degli esseri umani, i quali fin dagli albori della loro convivenza sulla terra si sono scambiati merci[3], ma anche – forse soprattutto – doni[4]. Per capire lo scambio non basta la logica meccanicistica mezzi/fini che continua a dominare l’analisi sia della produzione, sia del consumo; non a caso, con buona pace di tutti, rats do not trade! Ogni scambio – oggi come millenni fa – possiede una dimensione immateriale e simbolica che umanizza la sua materialità. Pensiamo alla finanza: in questo caso, praticamente tutto si gioca proprio nella dimensione immateriale (informazioni, aspettative, fiducia, consuetudini, regole).
La prospettiva che riduce l’oggetto della scienza economica alla sfera dell’ottimizzazione mezzi/fini non può bastare: il metodo d’analisi, infatti, deve essere adeguato al suo oggetto. Senza mettere in gioco le dimensioni immateriali e simboliche che sono tutt’uno con la dimensione materiale dell’economia possiamo solo ripercorrere inconsapevolmente, in modi nuovi, strade vecchie; non sorprende che le crisi finanziarie continuino a ripetersi – sempre un po’ diverse, ma sostanzialmente uguali.
La riduzione del soggetto
Alla riduzione dell’oggetto dell’economia corrisponde anche una riduzione del soggetto. Il paradigma dell’individuo autoreferenziale, autonomo, anonimo, che prevale nell’analisi (al punto di condizionare la prassi economica), è inadeguato a cogliere persino l’esperienza economica elementare. Nelle scelte economiche più significative, infatti, ci interessa molto conoscere chi è la controparte (chi è il nostro datore di lavoro, chi è il nostro medico, a chi prestiamo denaro...); inoltre, molte attività di produzione e scambio accadono nell’orizzonte di relazioni personalizzate e tendenzialmente durevoli accomunate da uno scopo (clienti, fornitori, soci in un’impresa, membri di una squadra…).
Prendere le distanze dall’assunto dell’homo oeconomicus e più in generale dall’individualismo metodologico è giustamente diventato un leitmotiv della critica all’economia; tuttavia, la parte costruttiva della critica mi pare ancora embrionale. Ad esempio, per spiegare azioni che sembrano comportare l’abbandono – sia pur temporaneo – della razionalità individuale si scelgono strade discutibili, spesso ad hoc: ad esempio, si scioglie il soggetto nel caleidoscopio del multiple self; oppure si confrontano una I-rationality con una we-rationality intese come logiche alternative l’una all’altra. Invece, dovremmo avere il coraggio di tenere aperta la domanda sul soggetto ed esplorare le implicazioni analitiche della tensione costitutiva che lega l’‘io’ e il ‘noi’. Questo ci consentirà di interrogarci a fondo su cosa significhino comportamento auto-interessato e altruismo: due modelli di solito giustapposti o addirittura contrapposti sia nella sfera analitica, sia nella sfera etica – mentre entrambi potrebbero meglio essere compresi nell’orizzonte della tensione individuo/comunità.
La riduzione dello spessore dell’istante
Gli economisti, nel pensare al tempo, sono facilmente catturati da due derive puntualmente riscontrabili nell’agire comune. Da un lato, c’è la prospettiva del lungo termine, la quale si traduce in attività tecnocratiche di pianificazione/programmazione (domestiche, nazionali o globali) che presuppongono – non sempre a ragione – una forte capacità di controllo sulla dimensione materiale dell’esistenza. Dall’altro lato, c’è il paradigma teorico-pratico del breve periodo – nel quale, convinti dell’impossibilità di modificare una serie di dati della realtà, ci si rifugia nel fare del proprio meglio secondo la logica mezzi/fini. Il tempo reale perde spessore, mentre le decisioni quotidiane sono scisse fra il riferimento a un ipotetico lungo periodo in cui “possiamo cambiare tutto” e il riferimento agli incentivi di breve periodo in cui al contrario “il gioco è dato”.
Ogni istante, invece, ha il potere di cambiare la storia. Nell’istante presente – sia esso denso di consapevolezza del suo nesso con il tutto, oppure affogato nella routine – la libertà umana in azione cambia il mondo, in meglio o in peggio. La vita, fluire incessante che produce forme durevoli di relazioni, istituzioni, simboli, idee, prodotti economici, opere d’arte, accade solo qui e ora; eppure, questo “mentre”, l’attimo in cui tutto accade, è normalmente trattato come se fosse senza spessore.
L’attuale crisi economico-finanziaria, da questo punto di vista, costituisce un momento privilegiato di verità. Abbiamo corso a perdifiato su sentieri che ci erano familiari (consumare per produrre, produrre per consumare), ma la crisi – almeno per un istante – ci ha lasciati senza fiato, consapevoli del problema e a corto di soluzioni, intuendo che occorrevano grande coraggio e libertà per esplorare nuove strade. In quell’istante, vissuto fino in fondo, sta la possibilità di essere protagonisti della vita personale e sociale; ma è molto difficile resistere alla tentazione di tornare al business as usual. La crisi è una occasione privilegiata, per quanto dura, di riflettere su cosa accade “nel” tempo, nell’istante, nella transizione – che ci interessa per se stessa, e non solo in vista del suo punto d’arrivo.
Crisi e sviluppo
Per uscire dall’angustia, occorre riaprire seriamente la domanda che ha accompagnato il nascere dell’economia come scienza, ossia la domanda sulla natura e sulla causa della ricchezza delle nazioni. Occorre rimettere a tema lo sviluppo, abbracciando una prospettiva realmente dinamica nella quale i soggetti, in relazione tra loro e con la realtà materiale e immateriale, agiscono concretamente e storicamente.
La questione dello sviluppo – centralissima all’origine dell’economia “scientifica” – è diventata via via periferica negli interessi degli economisti, fino a ridursi a una branca specialistica rinominata “teorie della crescita”; ma è tornata in evidenza con la crisi e le dinamiche geopolitiche che hanno ridefinito gli attori-chiave sulla scena mondiale. L’esperienza storica dello sviluppo, infatti, non somiglia per nulla all’espansione progressiva di una struttura che rimane sostanzialmente uguale a se stessa, come accade nelle teorie della crescita: lo sviluppo è fatto di discontinuità, di innovazioni, di profondi cambiamenti strutturali.
Qui si vede la ragionevolezza e la convenienza a uscire dalle tre riduzioni: l’innovazione economica, sociale e politica richiede soggetti geniali nel cogliere e tracciare nessi con gli altri e con le cose, nell’intuire quel che non è evidente, nel guardare lontano nel tempo e nello spazio – sempre con i piedi per terra. A chi non è interessato alla dimensione del di più – alla dimensione simbolica, immateriale e trascendente – la realtà dello sviluppo continua a rimanere un «enigma indecifrabile»[5]. I problemi dello sviluppo si possono comprendere solo dentro un orizzonte di verità sulla persona, sul suo agire, sul suo interagire politico e sociale.
Ripensare allo sviluppo come strada concreta e storica può aiutare a superare le riduzioni dell’oggetto, del soggetto e della dimensione temporale dell’economia. Tutto lo sviluppo si gioca «in the process of getting there»[6], nella concretezza dello spazio e del tempo, nel rischio della libertà di un soggetto che agisce nell’istante e così segna la storia.
Ma in tutto questo cosa c’entra la verità con lo sviluppo? La domanda, nella sua ingenuità, ha per fortuna una risposta semplice: la verità c’entra totalmente con lo sviluppo – con the process of getting there. Basta un esempio: supponiamo di voler andare alla stazione senza sapere la strada. Se la conoscessi, ci arriverei senza problemi; sennò, dovrei procedere per tentativi, anche chiedendo ad altri. Sia pure con fatica, a posteriori saprò giudicare se la strada che ho percorso era quella giusta; saprò riconoscere chi mi ha dato buone indicazioni. Saprò finalmente la verità su the process of getting there.
C’è un’analoga verità nello sviluppo economico? Sapremmo riconoscere un “vero” miglioramento della condizione umana? La risposta è sì: occorre solo essere impegnati con la nostra umanità e con la sua aspirazione a «fare, conoscere, avere di più per essere di più». A chi ritenesse la risposta semplicistica, segnalo che è possibile capire che la verità c’entra con lo sviluppo anche in negativo, osservando che la menzogna contraddice lo sviluppo, lo nega, lo frena. Anche se per molti nostri contemporanei la parola verità è quasi impronunciabile, essi non hanno di solito difficoltà a riconoscere che esistono falsità e menzogne e che esse sono realmente un problema[7].
Si può documentare facilmente che uno sviluppo economico costruito su premesse false tende a non durare. Politiche tecnocratiche di sviluppo che non riconoscano e valorizzino il libero agire umano possono talvolta produrre risultati materiali anche imponenti, ma sono di fatto insostenibili. Il progetto tecnocratico più grandioso di crescita economica e di realizzazione dell’uguaglianza, efficacemente attuato in Unione Sovietica con la collettivizzazione della proprietà del capitale e della terra e la pianificazione economica centralizzata, è riuscito a produrre alcuni decenni di rapida crescita materiale e di impressionante progresso scientifico-tecnologico, per ottenere i quali non si è badato né a dispiego di mezzi materiali né a costi umani. Eppure, il sistema è collassato per ragioni tecniche (informazioni asimmetriche, incentivi incompatibili, vincoli di bilancio inesistenti) ma non solo: più che di inadeguatezza tecnocratica, si è trattato di un grave errore antropologico. Lo stesso errore caratterizza, in modi diversi, anche il business as usual occidentale – il quale, non a caso, appare incapace di superare creativamente la crisi finanziaria. L’errore antropologico consiste in quel «razionalismo illuministico, che concepisce la realtà umana e sociale in modo meccanicistico. Si negano in tal modo l'intuizione ultima circa la vera grandezza dell'uomo, la sua trascendenza rispetto al mondo delle cose, la contraddizione ch’egli avverte nel suo cuore tra il desiderio di una pienezza di bene e la propria inadeguatezza a conseguirlo» (Centesimus annus, 13).
Nella tradizione del pensiero sociale della Chiesa, due parole indissolubilmente intrecciate racchiudono sinteticamente il “di più”: sono le parole amore e verità (Caritas in veritate). La capacità di distinguere il vero sviluppo non è dunque privilegio di pochi: amore e verità sono la grammatica elementare dell’umano, che anche i bambini capiscono. Chi non si sente “di meno” quando non è riconosciuto, non è ascoltato, non è rispettato nella sua identità? Quando non gli è concesso di partecipare alla costruzione e al miglioramento dell’ambiente in cui vive? Quando è defraudato di quanto gli spetterebbe per giustizia? Quando è imbrogliato, tradito, mal consigliato? Queste stesse domande sono rilevanti per lo sviluppo dei popoli e per la pace.
Il valore della libertà religiosa
Le tradizioni religiose e le mondo-visioni rappresentano l’alveo in cui le grandi domande sulla verità e sull’amore sono sistematicamente poste e riproposte alle nuove generazioni, così che ogni “io” sia educato a misurarsi con quanto il “noi” di quella tradizione ha – per così dire – distillato del suo rapporto col senso ultimo dell’umana avventura, la quale consiste nel cercare, vagliare criticamente e riconoscere quello che davvero è il di più. Tale educazione a misurarsi con le parole ultime, nella quotidianità e nell’effimera apparenza dell’istante, dà forma a un popolo e ne alimenta la vitalità delle istituzioni. Non è un caso che alcune recenti ricerche[8] sulla ricchezza delle nazioni associno la loro ascesa alla prevalenza di istituzioni inclusive (dove l’io agisce nella consapevolezza dei suoi legami col noi), mentre la prevalenza di istituzioni estrattive (dove l’io è autoreferenziale e assume prospettive tecnocratiche di breve o di lungo periodo) porta inesorabilmente al declino.
In questa prospettiva, si capisce bene il nesso vitale fra sviluppo dei popoli e libertà religiosa: ne va della possibilità concreta che ciascuna persona possa mettersi in rapporto con la verità e l’amore non solo nel segreto del suo cuore, ma nel tentativo quotidiano di dare forma a una convivenza che punti al di più dell’essere. La libertà religiosa è condizione di quell’essere protagonisti che muove la storia, mettendo in gioco la riposta personale al dono gratuito della vita e alla desiderio del “di più” che ci viene dal profondo del cuore, cioè dall’alto dei cieli.
*Simona Beretta è Professore ordinario di Politica Economica presso la Facoltà di Scienze Politiche della Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano